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martedì 5 luglio 2011

Un secondo tra cielo e acqua e non c'è tempo per la terra

Se mi avessero chiesto "cosa vorresti fare nella vita?" avrei risposto con un sorriso vuoto, per evitare una domanda a cui non avrei voluto, o per essere sincero, non avrei saputo rispondere. Come sempre.

Cosa significa d’altronde, FARE? Cos’è abbastanza per essere un fare e cosa non lo è? Quali le variabili? Uno stipendio? Una sicurezza ostentata? Oppure cose come una macchina sempre con il pieno di benzina, tirata a lucido, cabriolet, la scopata del martedì con la ragazza che smista le lettere al quarto piano, un divorzio sulle spalle, un bel sigaro sempre nel taschino, un cane di razza, un completo su misura, una padre orgoglioso di te, una madre che ti invita la domenica a mangiare un piatto di risotto con l’ortica, gli amici che ti danno le pacche sulle spalle, un bel salotto, un bel televisore, una chitarra appesa al muro, una pelle curata, pulita e ben rasata.

Niente di tutto ciò fa parte della mia vita. Faccio i tuffi.
Ho il mio quarto d’ora di gloria di tanto in tanto, ogni 4 anni, se non ho la spalla lussata, un trauma cranico da gestire, tendiniti infiammazioni...
E’ il tempo delle olimpiadi. Un tuffo, un’evoluzione compiuta nella porzione di mondo tra acqua e cielo. Un secondo e qualche briciola di centesimi sparsi, presi allungati e stirati su 4 lunghi anni di allenamento spesi per lavorare la coreografia di quel piccolo, insignificante secondo.
Quattro anni Fanno 1460 giorni. Centoventiseimilioni e centoquarantaquattromila secondi per un uno di essi. Sono cose che non hanno alcun senso lo so. Si camuffano dietro parole come soddisfazione personale, agonismo, ricerca della perfezione, edonismo.
In realtà è un cul de sac. Certo tutto comincia da un varo in un lido dorato…l’entusiasmo, la voglia puerile di mettersi in gioco. Poi Nulla. Diventa una droga. Ma scordatevi, viaggi, trip, visioni, allucinazioni, colori, suoni. E’ una cosa da cui non puoi allontanarti. Qualcosa che ti stacca dalla realtà. Che farei se non potessi fare i tuffi?
Non ho studiato.
Non so fare nulla.
Non ho l’età per mettermi in gioco.
Il mestiere di mio padre mica l’ho imparato.

Ci posso provare. Ad uscirne. Ci ho provato. Niente, è sempre un pugno, di ferro, che ti arriva sulla bocca e ti spacca tutti i denti.

No.

Bisogna rimanere un semiprofessionista. Restare sulla bocca di molti per poco tempo, il tempo di arricchire il medagliere di una nazione. Poi diventi un qualunque.
Una testa di cervo attaccata al muro dei trofei di caccia.
Anzi.
Sei destinato all’armadio, la parete è per le teste d’orso, di caribou o per le manguste impagliate.
D’altronde è solo un secondo.
Un secondo.
Un secondo di merda.
Tra cielo e acqua.
Un secondo. Stai li e da qualche parte del mondo un uomo annoiato in canottiera e mutande è davanti alla televisione, perché non ha di meglio da fare, perché un commentatore con la voce piatta come una giornata di nebbia, ti annuncia “tra poco un atleta azzurro sul trampolino”. E l’uomo in canotta li ad aspettare, cazzone e nullafacente, ma che ti scaricherebbe per una pisciata. Se solo le birre ingurgitate fossero 3 e non 2.
No.
Non ci siamo.
Non vale gli slip idrorepellenti che indosso.
Non che mi meriti di più.

E adesso?
Adesso sono vecchio. 43 anni. Istruttore comunale.
La barba non me la taglio più. La mia macchina è un letamaio. Mio padre prova pena per me. Mia madre prova pena per suo marito che non si da pace per il suo unico figlio.

Ma oggi sono qui. Per ritornare. Con la bocca sanguinante e i denti spaccati. Un nuovo salto. Un nuovo record. Una scogliera.
Qui si scrive la storia. La mia per lo meno. Sento le gambe che mi tremano, anche se sono immobili. Il vento che mi accarezza la barba.

Sono 55 metri.

Oltre i trenta un tuffo mal eseguito trasforma l’acqua in ghiaccio.

Non sono queste cose a farmi paura.
Non sono queste cose a farmi paura.

Gary Patrick. 39 anni, 55 metri.

Rob Massaloni 44 anni, 52 metri.

Allan Oberhofer 40 anni, 48 metri.

Lo hanno fatto loro. Lo posso fare anch’io. Non sono i mesi sulle spalle o i metri sotto gli alluci.

E’ la paura di non riuscire, di fallire, di sbagliare, di ricevere uno schiaffo e non un bacio all’acqua salata.

Dio no.

Sento le gambe che mi tremano, anche se sono immobili. Il vento che mi accarezza la barba.

Quella barba che voglio radere, quel costume idrorepellente che voglio bruciare, quella macchina che voglio rottamare. Voglio pacche sulla spalla, voglio una moglie da cui divorziare che mi importa!
Devo saltare. Devo riuscire.

Fallire significherebbe morire.

Dentro. E forse non solo.

Va bene.

Fuori l’aria dai polmoni.

Un passo.

Quella sensazione. Tra cielo e acqua.

Ancora.

Sono nel vuoto.

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