L'incipit della settimana

ELABORATO TESTUALE DI TOT PAROLE: "L'antico vaso andava salvato"
STRINGA AUDIOVISUALE DIGITALE PROVENIENTE DA QUALCHE SERVER: "Youtube"
RETTANGOL CARTPLASTIC CONN'IMMAGIN STAMPAT QUAS BEN:"Perdita di tempo"
Ctrl+c, Ctrl+v, STAMP-E-PORT-LE-FOGL:"Glutammati sto sodio"

lunedì 3 dicembre 2012

Bip! [albideroga]

Bip! Un cellulare brandito come telecomando televisivo, a fingere di regolare contrasto, saturazione e fuoco, e un'ombra dai contorni indistinti sull'asfalto del cortile della scuola, nel sole del primo mattino, il cui proprietario è il destinatario della pretesa regolazione. Uno scherzo ormai frusto, ma sempre buono a suscitare ilarità nei bambini che lo praticano.

Bip! L'elettrocardiografo bippetta inconsapevole. E' un maschio!, il cuore è a posto signora, il suo bambino sembra del tutto sano, lo so, vediamo anche noi quel che vede lei, ma diamogli tempo, forse è solo un disturbo passeggero, il cordone ombelicale era perfettamente visibile, certo, è strano.

Bip! La sveglia sveglia il piccolo G., mamma e papà lo aspettano giù in soggiorno. Ormai va in prima, bisognerà cominciare a spiegargli che non è come tutti gli altri.

La società di oggi è tollerante, aperta a qualsiasi istanza o diversità; siamo un paese fortunato, "discriminazione" è una parola che sta sparendo dal lessico comune. Tuttavia.
G. è in quarta elementare, e sopporta  quotidianamente le peggio angherie. Nessuno dei suoi compagni, interrogato in merito, saprebbe fornire un valido motivo di tanto accanimento. Nessuno dei suoi compagni è stato interrogato in merito, ma il ruolo del narratore permette di sorvolare su questi dettagli. Figli di ghanesi, di cingalesi, di assicuratori, di leghisti, di figuranti di forum, di prete spretato e suora mancata, di madre depressa e padre ignoto, figli di figli dei fiori; alla varietà della classe di G. non manca nemmeno un nerd degli scacchi, che ha dodici tic facciali diversi dimostrati, parla solo da solo e la cui attuale passione è l'estensione del concetto di scacchiera a spazi con più di due  dimensioni; nonché l'efebico figlio adottivo di una coppia eterosessuale che è sempre stata eterosessuale, fin da quando i genitori si conobbero nella stessa clinica specializzata in cambi di sesso, entrambi in attesa che la chirurgia sopperisse a quello che la natura aveva loro negato; nè il nerd, nè l'efebico, che pure, se non per esperienza diretta in questa splendida società di uguali, quantomeno per vocazione ancestrale qualcosa da dire riguardo l'essere diverso potrebbero averlo; ma i bambini sono candidi, e il candore in controluce è crudeltà; neppure loro trovano da eccepire nel trattamento riservato al nostro G, la cui descrizione verrà per senso del pudore prontamente omessa.

Il problema di G., o forse il problema del mondo nei confronti di G. è che G. è sfocato.
Avete presente una foto sfocata?, o le ombre che popolano i bagni casalinghi dietro quei vetri zigrinati?, o un sogno appena interrotto i cui contorni stanno già scomparendo dalla memoria? Ecco, così. Sfocato. Nessuno è mai riuscito a vederlo bene, con le sue esili sopracciglia brufoli peli forfora lentiggini nei imperfezioni varie. E' un'immagine sfuggente, una meteora su retine impreparate, un rompicapo per la scienza, un trafiletto per i giornaletti da ascensore.

La sua stretta di mano è strana. Si direbbe viscida, ma la sua mano non è sudata: un fisiologo che lo visitò, a corto di tecnicismi, la definì come un "brancolare nella nebbia".
Il suo primo pianto di dolore, quando, nella sua culla sereno, l'ostetrica gli piazzò sopra un'altro neonato, perché "non si era avveduta che c'era già qualcuno".
G. è malvisto da tutti, e scusate il bisticcio di parole. Su di lui si raccontano storie, si riesumano leggende, si millantano malocchi, si invocano esorcismi.
G. non è mai riuscito a descrivere che cosa egli veda nello specchio di fronte a sè.
G. elabora teorie su di sè, le valuta, le falsifica.
G. è costretto a maturare anzitempo, a costruirsi corazze psicologiche, a fare buon viso a cattivo gioco, a diventare saggio.
"Il problema " - confessa una volta all'amico immaginario del venerdì che si è inventato per poter conversare con qualcuno, ma non tutti i giorni per non abituarsi troppo bene - "Il problema non è mio: come la bellezza sta negli occhi di chi guarda, così è evidentemente il resto del mondo, non io, che ha un problema alla vista; dovrebbero curarsi gli altri, non soffrire io." L'amico del venerdì annuisce, ma l'angolo assunto dall'angolo della bocca tradisce la sua menzogna a fin di bene.

G. crede che la soluzione stia nel respiro - lui che ha sempre avuto un respiro un po' affannoso e irregolare - deve respirare come gli altri. Cerca di sincronizzare il suo respiro con quello del suo compagno di banco, che stima di nascosto; assume un'espressione assente, si concentra e si astrae, ma non gli riesce, è sempre in anticipo per l'ansia di essere in ritardo. Guarda il compagno, si sintonizza su di lui con gli occhi e con gli orecchi; ne cronometra i moti toracici, ne indaga le variazioni del ritmo, crede di aver trovato una regola. G. riprende di nascosto i suoi tentativi grazie alla telecamera del cellulare. Sullo schermo, una macchia indistinta e il compagno. Per capire dal filmato quando lui stesso respira, G. alza e abbassa una matita rossa. Cerca di farlo con disinvoltura, il compagno lo nota ma non se ne cura. Ieri la sincronia è stata raggiunta con un margine d'errore dello 0,2% per quasi tre minuti, ma non è successo nulla.

G. ha un'altra teoria, se riuscirà a fotografarsi nell'istante preciso in cui il primo raggio di sole tocca il suo viso in un giorno di luna crescente, il problema di vista del resto del mondo sparirà. Ogni mattina, prima dell'alba G. si apposta sopra la collina nella speranza di prendere il primo raggio. Nemmeno oggi c'è riuscito, ma il suo cuore ha avuto un sussulto nel vedersi avvicinare da una bambina sfocata come lui. Non si è ancora accorto che l'aria pungente lo aveva fatto lacrimare.

domenica 25 novembre 2012

Dolore


Bip bip bip. Il suono di quella sveglia si insinua nelle fessure del mio sogno lasciate aperte dai sensi, come una lama che lentamente trafigge le carni. Va bene, smettila, sono sveglio! Allungo una mano verso il comodino con gli occhi ancora socchiusi e con il tatto cerco di evincere la posizione del rumoroso dispositivo. La luce dell'alba preannuncia l'inizio di una nuova giornata. Mi metto a sedere sul letto, con la testa fra le mani. Alcuni secondi in quella posizione ed inizia la routine giornaliera, ciabattando lentamente verso la cucina.

Bip bip bip. Sdraiato sulla branda sento il rumore provenire dall'interfono svegliare i chiassosi “ospiti” dell'istituto carcerario. Io non ne avevo bisogno, quella mattina avevo visto albeggiare. Perché dormire a poche ore dal sonno eterno? Quella notte era stata lunga, avevo riflettuto su molte cose ed ero stranamente sereno. Mi metto a sedere sul letto, con la testa fra le mani. Recito la preghiera del mattino, mi alzo in piedi facendo un profondo respiro.

La cucina della mia casa era esattamente come l'avevo lasciata ieri sera. Piatti accatastati nel lavello, avanzi di una frugale cena, briciole in terra. Apro gli scuri della finestra facendo filtrare dapprima lentamente, poi di colpo, la luce del mattino. Si respira un'aria fresca e pulita. Un peso invece mi schiaccia il petto, e tutto mi appare molto più scuro di quanto non sia. Annaspo per catturare un briciolo d'ossigeno vitale. Forse un caffè mi farà bene. Con lo sguardo perso nel vuoto e le spalle basse, mi dirigo verso il fornello.

La mia cella era sempre pulita e ordinata, del resto ci tenevo molto. I miei pochi vestiti stavano appesi ordinatamente nell'armadietto, la Bibbia giaceva sul tavolino, tutto era al suo posto. Mi avvicino alle grate, guardando la luce di una splendida giornata che mi colpisce il viso striata. Una fresca brezza mattutina mi sfiora, penetrando dolcemente nei bronchi. Il panorama, fuori dalla cella, non è dei migliori. Una fila di persone ordinate sta raggiungendo svogliata il posto di lavoro nella grigia zona industriale. Guardo in alto, cerco di trarre energia dai raggi solari. Un caffè potrebbe giovarmi. Il mio ultimo caffè.

Il rumore del caffè che sale dalla cucina mi risveglia dal torpore cerebrale che mi attanaglia. Ne verso una tazzina, la bevo. Ne verso un'altra. Bevo anche quella. Dopo la doccia e una rapida vestizione esco di casa controllando di avere tutto. Per strada sembra che tutti guardino me, abbasso lo sguardo, per evitare che mi guardino dentro. Un paesaggio desolato gli si paleserebbe alla vista, l'albero della mia vita spoglio, come in un inverno perenne. Ma cosa mi manca? Ho tutto quello che un uomo potrebbe volere, ma a quale fine? Non riesco più a godere di quello che mi circonda: della mia casa, della mia fidanzata, della mia vita. Nella testa di ognuno c'è un bambino, e il cervello è il suo parco giochi. Il bambino non dovrebbe saltare dall'altalena, o assumere atteggiamenti pericolosi, altrimenti si potrebbe fare male. E noi, che quel bambino lo vigiliamo, non dovremmo portarlo a sbucciarsi le ginocchia per nostra mancanza di un limite. Questo per dire che alcuni ragionamenti profondi sappiamo che ci faranno male ma decidiamo comunque di intraprenderli, lasciando ferite indelebili al nostro bambino interiore. Una sigaretta stempera la tensione prima di entrare al lavoro.

Il rumore della cella che si apre mi distrae dalla lenta degustazione del caffè. Un secondino accompagna un sacerdote. Mi alzo in piedi. “Grazie, ho già risolto i miei conti in sospeso con Dio”. Il sacerdote mi guarda da capo a piedi, si fa il segno della croce ed esce dalla cella. Spunta un altro secondino da dietro la porta che dice: “Andiamo, è ora”. Allungo le mani per favorire l'ammanettamento. Percorrendo il corridoio tengo alto lo sguardo, Dio mi ha perdonato, non ho nulla di cui vergognarmi. Il pentimento, sincero, mi regalerà la vita eterna in paradiso. Entro nell'ultima stanza che vedrò, un lettino ed apparecchiatura medica ne sono il semplice arredamento. Uno spesso vetro mi separa dalle persone che vogliono vedermi morto. Il secondino mi chiede: “quali sono le sue ultime parole?”. Io mi avvicino lentamente al vetro e, guardando una per una le persone sedute a guardarmi dico:

“Padre nostro,
che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome.
Venga il tuo regno,
sia fatta la tua volontà.
Come in cielo,
così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano
e rimetti a noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo ai nostri debitori.
Non ci indurre in tentazione,
ma liberaci dal male.”

Mi sdraio sul lettino. Un medico mi dice: “Ora ti verrà somministrato un veleno che ti addormenterà lentamente, non sentirai dolore.” Sento entrare l'ago nella vena come una spada, il liquido iniettato mi riscalda dolcemente. Sono stanco ma sorridente. Buonanotte.

Arrivato in ufficio, propongo finti sorrisi abbozzati a tutti coloro che incontro sulla strada per la mia scrivania. Mi siedo e passo alcuni minuti a fissare il monitor spento. La realtà che mi circonda è come spine che mi trapassano da parte a parte, la vista delle persone mi rende ansioso quando non mi disgusta. Si avvicina un collega alla scrivania. Mi dice: “Hai visto il giornale? Oggi giustiziano l'assassino della tv!”. Giro lo sguardo da un'altra parte, concentrandomi sui miei pensieri. Sento l'ago che entra nella carne, sento il dolore, sento il cuore accelerare, sento i rumori dei macchinari, sento la notte sopraggiungere sul giorno. Mi ispeziono. Nessuna reazione emotiva. Penso: “io sono già morto”.

lunedì 11 giugno 2012

Fotografemo le cése prima che le casca

Fotografemo le cése prima che le casca, vói védarle ancora, che da 'sta carega no' vedo gnanca pi' el campanil co le só ore, ma almanco sento i rintochi, eco, el ghe n'avea 'pena fati quatro st'altra note che ghe n'è scapà 'n altro par, e a mi che le gambe le me fale ma la testa la g'ho ancora bòna, me gh'era parso che al'Igino 'l g'avese ciapà un tremasso, e invese l'era il leto che scurlava tuto, Maria Vèrgine ghe digo, ma lu' po' che el ghe sente póco, po' che 'l tól quei tranquilanti 'meopatici, el me fa sì co la testa, po' 'l se 'olta de galón e 'l ritaca a dormir come le piere de l'adese, che mi ghe lo digo sempre, sa tóto 'ste robe che te te inveleni, che co' no' dormo mi te podaresi anca farme un póca de compagnia, che de note no' gh'è gnanca gnente da védar ala tele, che almanco quando l'è ora de disnar gh'è la clerici che la te spiega le ricete o i bocia che i seita a cantar le cansonete, che no i val un stinco del claudio villa, ma quei i era altri tempi sióra, col modugno e il dallara, quante 'olte lo gh'ea dito al'Igino de comprarme el disco de Litel Toni, ma lu' 'l me disea che i dischi i era un scóasso de sighi e de lamenti e che 'el preferia metar via calche scheo par la bensina super, co quei otani in più da portar la siesento su par quele scaesagne che 'l savea lu', e 'naimo a vedar verona da l'alto, e 'l me dàa qualche basin, ma gnente de più sala sióra, che l'era un bocia da ben, e 'lora tra un basin e l'altro mi pensaa che la musica la podea sentir anca in balera qualche altro sabo co' la Flora e la Giustina, ma co' che l'me tocàa lu, delicatamente, valea ben la diferensa con tuti i modugni del mondo, e anca se dopo sposai no l'm'ha pi' porta' su le scaesagne, parché no ghe n'era piassè de bisogno, e anca parché scominsiàa a esarghe trafico anca da chele parti là, che te parea d'esar in via nóva dopo mesa, se ricordela che bele prediche don Faustino, l'è morto anca lu', la próa a védar in quela cardensa che g'arìa da 'érghe ancora incantona' la foto de lùch'el ne benedise al nostro matrimonio, col Walter in parte a far da testimonio, 'na bela testa anca lu', la se figura che la note prima de partir co i alpini el s'era finto in leto mala' e l'era scapa' a 'mbriagarse col me Igino el marangón a casa del Vito che 'l g'avea le vigne fóra Quinsan, e i s'avea impenì cósìta tanto che i ha regatà tuto il dì siguente, ma al Walter no gh'è valso pregar, i l'ha caricà sul treno dela sera e l'è rivà in caserma dopo che il general el l'avea sercà tuto il dì, e par compenso el g'ha dato da far du' mesi de sentinela noturna in te la garita sopraelevata, de otobre, col fredo che te lo racomando, e senza gnanca un schienal da posarghe le spale strache, e se no altro el g'ha pasà la vóia de schersar, al pòro Walter, che quan l'è tornà só ghe mancàa un tocheto de diel, ma 'l no' l'ha mai volùo parlàrghene, e mi no' parlo, ma gnanca no' taso quando digo che- ma la speta sióra, sèntela anca éla, n'antro scurlón, no' gh'è pi' pace co 'sto tremoto. Stanote el tranquilante al'Igino ghe lo frego mi. Verona, 3 giugno 2012

domenica 8 aprile 2012

Avrebbe voluto non crederci

Andrea contemplava la strada deserta attraverso i vetri della finestra.
Era proprio soddisfatto della scelta. La sua nuova casa gli piaceva proprio tanto, e lo si poteva notare dal sorriso che gli si formava sulle labbra, non appena allungava lo sguardo verso il fondo della via, fino all’incrocio che si poteva scorgere nei giorni più limpidi.

Era da molto tempo che sognava quel momento, quella svolta, che finalmente era arrivata, sottoforma di una nuova casa, di una nuova città, di una nuova vita.

Aveva dovuto superare difficoltà economiche che l’avevano costretto fino a pochi giorni prima a rimanere rinchiuso tra quattro mura che ormai odiava, in compagnia di persone con cui condivideva solamente l’aria che respirava, nient’altro.
Aveva anche lasciato un lavoro che lo stava consumando. Era riuscito a trovarne un altro, in un negozio del centro, con orari più che accettabili, che gli permettevano di condurre una vita sociale più “normale” di quella precedente.
Era sicuramente più sereno.

Aveva avuto poco tempo per visitare la città fino a quel momento, ma non aveva fretta. Intanto spulciava piano piano le viuzze del suo quartiere, alzandosi sulle punte quando passava vicino alle recinzioni più alte, per osservare i giardini dei suoi nuovi vicini, alcuni molto curati, altri meno.

Quel giorno, mentre guardava dalla finestra, si immaginava le prime conoscenze che avrebbe fatto: al lavoro, al corso di pittura, a teatro, ai concerti. Fantasticava sulla simpatia dei ragazzi e sulla bellezza delle ragazze. Le ragazze, appunto. “Chissà”, pensava, “se finalmente conoscerò quella giusta!”, adesso che avrebbe avuto molto più tempo da dedicarle, per cercare di costruire una relazione stabile, di cui sentiva ogni giorno più forte il bisogno.

Era anche contento dei coinquilini che gli erano capitati. Il ragazzo con cui divideva la stanza, Cesare, studiava medicina. Era tranquillo, non parlava molto, ma dava l’idea di essere un tipo intelligente, o almeno sopra la media. Degli altri due coinquilini, uno lavorava full time in un museo di storia dall’altra parte della città, e l’altra era una ragazza che non aveva ancora avuto modo di conoscere. Di lei sapeva solo il nome, Marta, e che sarebbe arrivata un giorno di quella settimana.

Fuori dalla finestra si vedeva il vento che soffiava e piegava le fronde degli alberi davanti alla casa.

Andrea stava pensando di chiedere a Cesare cosa avrebbe fatto quella sera, sentendo una certa voglia di festeggiare quel nuovo inizio con una buona dose di alcool. Gli avrebbe scritto un messaggio, dal momento che non era ancora tornato, ma intanto rimaneva incollato al vetro a scrutare le poche persone che passeggiavano lungo il marciapiede sottostante.

Si soffermò un attimo di più su una ragazza che si stava avvicinando lentamente con una borsetta in mano. Notò il passo particolarmente elegante, che schivava con agilità i rami e le foglie ammucchiati per terra, e per un attimo distolse lo sguardo. Collegò quel passo a un ricordo che non riuscì a recuperare dalla sua memoria, e riprese ad osservare la ragazza. Indossava un vestito che contro la luce del sole pareva tutto bianco, quasi panna, che le finiva all’altezza delle ginocchia. Era parecchio alta. Aveva capelli corti e chiari, che come il vestito rilucevano al sole in piccoli lampi dorati. Distolse ancora una volta lo sguardo per pensare. C’era un altro ricordo che quei capelli richiamavano, un qualcosa di lontano, ma ancora troppo vago e non decifrabile. Andrea rituffò gli occhi giù per la strada.
La ragazza si stava avvicinando. A quell’altezza Andrea riusciva a distinguere il colore delle scarpe e della borsetta. Il profilo del viso e del corpo, le linee dei seni e delle cosce si stagliavano sempre più chiaramente in controluce. Andrea per l’ennesima volta stette per ritirare lo sguardo e concentrarsi su quel ricordo insistente che gli arrivava da lontano, ma ci rinunciò.
La ragazza, arrivata all’altezza della casa, dall’altra parte della strada, la attraversò, voltandosi in direzione della finestra e di Andrea. Aveva mosso i primi passi sull’asfalto.

Andrea volle non crederci.

Marta.

Erano passati tre anni, ma il dolore era quello di sempre.

Marta salì il gradino del marciapiede, fece due passi verso il portone e tirò fuori la chiave.
Prima di entrare infilò la mano nella buca delle lettere per controllare la posta. Sulla cassetta il nome di Andrea era stato da poco aggiunto a penna, a fianco del suo. Afferrò una busta e chiuse dietro di sé la porta.
Andrea dopo pochi secondi sentì il rumore della chiave nella serratura, appena oltre la porta della sua stanza.

Andrea avrebbe voluto non crederci.

lunedì 26 marzo 2012

Il tacchino induttivista

“Sono di nuovo le nove… Non posso proprio esserne sicuro ma adesso ci porteranno da mangiare!”.
Dal fondo della fattoria si avvicinava la moglie del fattore. Donna particolarmente pienotta e con un vestito molto vaporoso di colore azzurro. Sopra un grembiule bianco dalle quali tasche fuoriuscivano erbe da campo.
“Eccola, sta arrivando! L’avevo detto! Nove in punto! La campana ha smesso di fare il suo nono rintocco!” – poi sottovoce si disse: “ Va bene, calma le arie stupido di un tacchino. La signora viene tutti i giorni alle nove, da una settimana, e dalle sue mani gonfie viene lanciato dell’ottimo mangime.”
Il tacchino si appoggiò un’ala sotto al mento, becco all’aria, pensieroso. Cominciò a girare avanti ed indietro per l’aia, sgranocchiando di tanto in tanto qualche seme colto dal terreno.
“Quando potrò sapere che la signora segue sempre questa fantastica regola? Quando potrò prevedere con precisione l’attimo in cui la vedrò sbucare dalla casa padronale con il suo secchio di spettacolari leccornie?”
“Mai caro mio, mai!”
disse Bertrand, un tacchino spuntato fuori dalla casetta in legno. Aveva un paio di folti baffi, era un giovane brillante che quando parlava ci sapeva dannatamente fare con le parole. Quella volta invece destò subito sdegno nel volto dell’altro giovane induttivista.
“Guarda caro che io sono qua da molto più tempo di te sai e non mi frega nessuno! Io tutti i giorni vedo la signora arrivare, ogni giorno allo scoccare della nona ora! Se prima poco ci mancava all’essere convinto ora lo sono proprio! Posso prevedere con assoluta certezza che domani la signora arriverà alle nove!”
Il silenzio calò nel pollaio. Chi aveva osato sfidare il giovane Bertrand, che con la sua arte oratoria tutti deliziava di colti ragionamenti! Il gruppo si radunò intorno ai due, gli allibratori aspettavano silenziosamente le parole di Bertrand per poi piazzare le quote per il vincitore.
“Guarda, potresti anche avere ragione, io però non mi fiderei più di tanto…” – disse allontanandosi.
Il gruppo di tacchini sopraggiunti si disperse, tornando al loro beccare e chiacchierare. L’induttivista spavaldo invece si pavoneggiava, scuoteva in alto il suo becco con aria di vittoria. Iniziò subito a fare caso al tempo che scorreva, lentamente, aspettando solo di poter dire: “te l’avevo detto!”

La notte passò serena per tutti a parte che per Bertrand che si rigirava nel letto. Che interesse poteva averne quella brutta signora della nostra pancia da riempire?

Mancava poco ormai alla nona ora, e tutti i tacchini si misero a guardare nella direzione della casa seguendo il consiglio del buon calcolatore. Allo scoccare della campana la porta della casa si aprì e la signora iniziò ad avvicinarsi al pollaio. Bertrand se ne stava in disparte, quando ad un certo punto guardò bene colei che piano si avvicinava.
“Ehi, ma dov’è il nostro cibo?”
Tutti iniziarono a guardarsi intontiti. Che Bertrand avesse avuto ragione anche questa volta? La signora nel mentre era entrata nel recinto scrutando per bene tutti i tacchini. Pian piano si avvicinò a Bertrand e lo afferrò alzandolo ad un metro e mezzo da terra. Da quella prospettiva poteva vedere tutto. Poteva guardare il rosso tetto della casa, il bianco muretto di confine, l’altalena nel giardino e quella scritta sull’uscio di casa: “Buon Natale”.

lunedì 19 marzo 2012

precauzioni

"ADVcompany, buongiorno."

"Buongiorno a lei, qui è il Vaticano."

"Senta,mi scusi, non ho tempo da perdere. O fa il serio,sennò metto giu."

"Sia seria lei! Io sono il Papa ed ho un urgente bisogno di una campagna pubblicitaria e voi siete o non siete un'agenzia?"

"Si lo siamo, ma come faccio a sapere che lei è davvero il Papa? Può essere un imbecille qualsiasi che lo imita"

"Senta, se vuole le posso recitare il Magnificat o spiagare il Catechismo. Mi passi il direttore creativo."

"Un momento."

La centralinista mise in attesa la telefonata e chiamò il direttore creativo all'interno.

"Rick,ho uno in attesa che dice di essere il Papa e vuole parlarti. Che faccio?"

"Passamelo. Oggi mi sto davvero rompendo i coglioni, almeno mi farò quattro risate con questo simpaticone."

"Ok,capo!"


Kate, così si chiamava la ragazza, continuò il suo lavoro come ogni giorno tra le scartoffie da ordinare e gli appuntamenti da prendere fino alle sei .. e come sempre prima di andare passò dall'ufficio del direttore a vedere se c'erano delle novità. Entrò, al solito senza bussare, e trovò Rick immerso tra i fogli pieni di schizzi e carico d'euforia.

"Oddio, che ti succede?" gli chiese lei.

"Non puoi capire. Non puoi capire. Abbiamo risolto tutti i nostri problemi. Se questa va in porto abbiamo lavoro almeno per i prossimi 2000 anni! Quello di prima era DAVVERO il Papa! Vogliono un prospetto per una campagna su un loro tema. Ma ti rendi conto? Ho ricevuto il brief direttamente dal Papa!"

"oh,Porcaputtana! E adesso?"

"Intanto evita questo linguaggio .. siamo l'agenzia del Clero!" e scoppiò in una risata fragorosa ed isterica.

"Senti,Rick, io vado a casa tanto qui non ti servo. Quando ci vediamo con sua santità?"

"Domattina."

"Cosa? E io come faccio a sistemare l'agenzia? E soprattutto, come fai tui senza il tuo copy?"

"Senti, Kate. Mi arrangerò.. è un'occasione che non possiamo perdere. Adesso vai e lasciami concentrare che alle alle dieci di domattina arriva la delegazione dal Vaticano."

Kate se ne andò e lo lasciò alla sua isterica euforia. Ma nessuno dei due dormì quella notte.

La mattina dopo Kate alle 7 era già in ufficio: lavò i pavimenti, sistemò tutto ed ordinò la sala riunioni .. che di lì a poche ore sarebbe stato il"campo di battaglia" in cui combattere la crociata. Finita la sessione di pulizie, provò ad aprire la porta dell'ufficio di Rick per dare un spolveratina, ma la trovò chiusa. Temeva che quel cretino avesse lavorato tutta la notte e si fosse addormentato li dentro il che avrebbe significato un direttore creativo impresentabile. E invece dopo dopo arrivò con il pc sotto il braccio ed in mano una cartellina piena cartoncini sui quali era spiegato lo storyboard.

"Ciao Kate. Io vado in ufficio a ripassare.. tu sistema tutto poi quando arrivano stacca il centralino e vieni in sala riunioni con me. Devi essere la mia assistente, dato che il nostro copy è in ferie e io mi sono fatto tutto da solo."

"Bene,Rick .. come vuoi."

Passarono le ore senza che se ne accorgessero ed alle 9.55 precise suonò il campanello dell'agenzia. Kate andò ad aprire con una naturalezza mal dissimulata e fece accomodare Papa, Vicepapa e guardie del corpo in sala riunioni, dove Rick li stava già aspettando. Lei staccò il centralino e si infilò in sala.

Rick stava illustrando alle loro Santità lo storyboard dello spot che gli avevano commissionato. "Cazzo - penso lei- Rick è proprio un genio quando ci si mette ..". Lo spot che Rick aveva inventato e stava raccontando non aveva parole ma comunicava benissimo con le immagini il messaggio che il clero voleva comunicare: la castità prematrimoniale.

Ora mancava solo il claim finale, la frase ad effetto, la chiusura di quello spot così perfetto.. Rick non poteva sbagliare. Kate sapeva però che lui non etra un copy, non era esattemente un maestro con le parole quindi incrociò strattissimamente le dita perchè Rick stava arrivando alla fine della sua presentazione.

"Ed ecco a voi, Santità- stava dicendo Rick proprio in quel momento- lo spot si chiude poi con l'ultimo fotogramma: sfondo nero ed il claim:

"Anche prendendo le dovute precauzioni, un rischio c'è sempre. Scegli la strada della castità."

Il Papa rimase in silenzio ed annuì. Gli era piaciuto. Quando se ne andarono i prelati Kate e Rick si abbracciarono. Lei si complimentò con lui ma non potè fare a meno di chiedergli: "Ma da dove cazzo hai tirato fuori una claim del genere!?"

Lui le rispose: "Beh,era una vecchia idea per una campagna .. che quelli della Durex mi avevano bocciato!"

Primo raccontino

“Non c’è nulla da temere dall’ignoto”.
L’uomo continuava a ripeterselo mentre procedeva da solo lungo il ciglio della strada.
Camminava all’indietro, in modo da poter vedere le vetture che giungevano e poter così esibire in tempo il pollice alzato.
Cercava qualcuno che gli offrisse un passaggio.
La destinazione non aveva importanza.
La sola cosa che importava era la persona che l’avrebbe accolto in macchina, perché quella persona sarebbe stata la sua prossima vittima.
L’uomo era un assassino.

Un tempo, quando era ancora ragazzo, le parti erano invertite.
Lui era quello che guidava, e le sue vittime gli ignari autostoppisti.
Ma le cose non potevano funzionare in quel modo.
Anzitutto non era mai certo di trovare qualcuno bisognoso di un passaggio, e i suoi bisogni non potevano attenersi al caso.
Inoltre, anche se si prometteva sempre di non ricascarci, stando alla guida aveva modo di effettuare una selezione sulle sue prede.
Gli autostoppisti a lato della strada sfilavano davanti a lui come pietanze sul banco self-service di un ristorante, e lui poteva sempre scegliere ciò che preferiva: dolce o salato, uomo o donna, carne o verdura, giovane o vecchio.
In questo modo però si era ridotto, nel corso degli anni, a scegliere sempre la stessa tipologia di individui, che risultava ormai quasi una pietanza insipida.
Ormai era diventata una noiosa routine.
Quella notte, quindi, aveva deciso di cambiare, di cercare una nuova emozione, mettendosi nei panni di quella che solitamente era la sua preda.
Si sarebbe aspettato di essere spaventato, ma non lo era.
Provava solo una lieve euforia.
D’altronde, si ripeteva, non c’era nulla da temere dall’ignoto.

Finalmente un’auto si fermò accanto a lui.
“Dove stai andando?” chiese il ragazzo alla guida.
L’uomo lo guardò. Aveva un aria familiare, dove l’aveva già visto? “Vado dove vai tu”.
“Ok, allora salta su” disse il ragazzo aprendogli la portiera.

Il principio alla base dell’autostoppismo è la fiducia reciproca. Chi accoglie uno sconosciuto nella sua auto non può sapere quali siano le sue reali intenzioni, ma allo stesso modo anche la persona che sale ignora quelle del conducente.

Non appena la macchina ripartì l’uomo si mise a osservare il ragazzo al suo fianco, la sua prossima vittima.
Doveva avere circa vent’anni, ed aveva una corporatura simile alla sua. Ma sopraffarlo non sarebbe stato un problema: lui aveva dalla sua l’esperienza.
Quello che lo turbava era l’idea di averlo già visto da qualche parte. Dove poteva averlo già incontrato?
Pensò che negli anni aveva viaggiato in lungo e in largo per la nazione, e quindi era facile che il volto gli ricordasse qualcuno che aveva conosciuto.
Ma no, non poteva essere quella la spiegazione. Il ragazzo aveva un’aria troppo familiare, sembrava un amico, un fratello perduto.
Malgrado questi dubbi, si disse, doveva procedere, doveva portare avanti il suo intento. Arrivati a questo punto doveva solo convincere il ragazzo ad accostare con la scusa di prendere qualcosa dalla borsa che aveva messo nel bagagliaio, poi l’avrebbe convinto a uscire dall’auto e…

Ma proprio mentre rifletteva sul da farsi si rese conto che il ragazzo alla guida era uscito dalla strada principale per imboccare una via secondaria. Poco dopo abbandonò anche quella strada per prenderne una sterrata, ed infine si fermò in un luogo isolato.
L’uomo non capiva perché il ragazzo avesse fatto ciò, ma si disse che era un problema in meno per lui.
D’un tratto il ragazzo scese dall’auto.
Perché l’aveva fatto?
Non aveva importanza, pensò l’uomo scendendo a sua volta.
Era giunto il momento di compiere l’ennesimo omicidio.

Si girò verso il ragazzo, ma proprio mentre stava per fare la sua mossa lui lo precedette.
L’uomo ebbe solo un attimo per vederlo, per vedere lo stesso sguardo folle che anche lui riservava alla sue vittime prima di aggredirle, poi il ragazzo si lanciò su di lui.
Con un movimento istintivo si scansò, e rapidamente si voltò per vedere il suo aggressore.
Il ragazzo stava di fronte a lui con in mano un coltello.
Voleva uccidere.

I due iniziarono a lottare, ma in breve l’uomo ebbe la meglio sul ragazzo. Gli strappò il coltello di mano e glielo puntò al petto.
Il ragazzo lo guardo disperato, e finalmente il suo volto fu a una distanza tale da essere riconoscibile.
Quel volto, l’uomo l’aveva visto ogni volta che si era guardato allo specchio.
Quel volto era il suo.
Quel ragazzo era lui.
Era lui da giovane.
E ora si divincolava sotto di lui.
Non poteva ucciderlo.
Che ne sarebbe stato di lui se avesse ucciso il sé stesso del passato?
“Non c’è nulla da temere dall’ignoto” si disse.
E affondò la lama nel petto del ragazzo.

I diari di Gauss

La maestra sbuffò dalle narici lentamente, a svuotare i polmoni e a calmare le tensioni. Appoggiò il gomito sulla cattedra e con la mano si resse il mento. Avrà avuto vent'anni, non di più. I bambini spaventati dall'atteggiamento dell'educatrice avevano frettolosamente alzato l'asse di legno dei banchi per accedere ai quaderni posti sotto. Come perfette macchinette sincronizzate avevano impugnato la matita ed avevano diligentemente iniziato a computare una lunga sequenza di numeri. Defilato completamente dall'atteggiamento dei suoi piccoli colleghi, Carl se ne stava fisso a guardare fuori dalla finestra ogni foglia staccarsi dai rami del maestoso albero che si ergeva nel giardino della scuola. Ogni foglia cadendo compiva circonvoluzioni diversificate dalla propria forma, altezza e dalle condizioni di vento. Com'era magnifico quel avvitarsi su sé stessa per poi fare cumulo con le altre, già adagiate sulla terra. Carl aprì rumoreggiando il suo banco e ne estrasse il blocco per gli appunti, facendo ridacchiare i suoi compagni di classe dato la maestra l'aveva guardato storto. Passò una mano sulla ruvida copertina di cartone, sul quale aveva riportato il suo nome e il suo indirizzo. Una piccola scritta sul retro indicava “Se trovate questo quaderno, prego restituirlo alla famiglia Gauss”. Carl non l'avrebbe mai perso. Il suo maniacale perfezionismo lo costringeva ad avere tutto sotto controllo, neppure una foglia ai piedi dell'albero non era stata osservata e contata. Sapeva addirittura quanti passi doveva compiere dalla sua abitazione al quartiere della scuola.

“Che noia” - pensò fra sé e sé - “non c'è modo migliore per farci odiare la materia. Che senso ha avere testa per pensare quando poi ti vengono chieste simili banalità meccaniche! Qual'è la somma dei primi CENTO numeri poi? Perché non mille, diecimila, centomila?! Lo so io il perché. Sommare cento numeri è un lavoro lungo e fra un'ora quell'odiosa maestra si sarà sbarazzata di noi mandandoci a casa.”

Iniziò a pensare quando aveva acquistato quel blocco, nella bottega di fronte alla scuola. Ogni giorno ci passava davanti sognando di avere un quadernino come quello degli altri studenti, con la copertina in pelle e le pagine candide e profumate di nuovo. Un giorno ci era pure entrato, chiedendo i prezzi di quasi tutto quello che vedeva. Aveva poi cacciato le mani nelle tasche contando rapidamente i soldi che conteneva passando le monete fra le dita. Non avrebbe potuto permettersi nemmeno il più infimo fra i blocchetti di quel rivenditore. Vide poi un ingiallito quaderno vicino alla cassa, con la grigia copertina di cartone.

“Me lo vende quello?” - disse, rivolgendosi al commerciante.
“Cosa? Questo vecchio blocchetto che uso per i miei conti?” rispose con uno sguardo di stupore.
“Vedo che è appena iniziato. Vende gli accessori per scrittura più belli di tutta la città e si riduce a scrivere le sue cose su un bisunto straccio di carta?” lo incalzò il piccolo Carl.
“Va bene, come vuoi tu! Quanto mi dai?”

Carl si limitò a svuotare le tasche rovesciando poi gli spicci sul bancone.

“Affare fatto.” disse il venditore strappando le tre pagine di conti scarabocchiati.

Il bambino afferrò avidamente il quaderno uscendo dal negozio soddisfatto. Ora anche lui aveva un diario personale dove annotare i suoi pensieri. Passando di fronte alla grande biblioteca della città, si era fermato per guardare i libri, sfogliarli, assaporarne l'aroma. Aveva poi passato un dito sul grosso tomo di Euclide, quello famoso per i postulati. Si accorse quanta polvere vi si era depositata sopra e di quanta poca sotto. Si sedette ad un piccolo scrittoio, aprì il libro e iniziò a riportare le geniali intuizioni di quel matematico antico, che sentiva simile a lui. Fu l'unica cosa di terzi che scrisse sul suo quaderno, quasi per onorare quel grande genio.

Ora doveva fare quello stupido conto. Stancare la mano e non la mente a scuola, in quel posto di cultura! Carl non sapeva ancora quante cose avrebbe scoperto, ma in quel momento pensava solo a quanto i numeri, i suoi amati, gli fossero di intralcio.
Si arrabbiò, pensando “Siamo i divini creatori di questo mondo di regole, di schemi, di numeri. Siamo gli allegri pittori di questa tela di intuizioni, di queste opere d'arte della fantasia. I numeri però, seppur da noi creati, godono di proprietà che non avevamo previsto, come se avessero preso vita. Magari proprio adesso stanno cercando di parlarmi, di dirmi che questo conto non è necessario, che ci sono altre vie che loro stessi hanno inventato per semplificare”

Poi, ad un tratto, i numeri iniziarono a sposarsi. Il più piccolo con il più grande, formando sempre la stessa coppia. Come accompagnati da una strana musica, cento iniziò a ballare con uno, novantanove con due e così via. Avevano iniziato questa quadriglia dove tutte le coppie erano identiche, seppur composte da elementi diversi. Cinquanta volte centouno! Scrisse il risultato sul quaderno, e lo portò alla maestra, allibita.

“Carl, ti stai giocando di me?” disse la giovane educatrice battendo la stecca sulle nocche del povero bambino. “Non puoi averlo fatto a mente! Vai al posto e non ci provare più!”

La maestra non conosceva il risultato dell'operazione, ma sicuramente un bambino di dieci anni non avrebbe potuto metterci così poco. Gauss, dal canto suo, capì come la maestra non potesse crederci se non dimostrato. Si mise quindi a creare uno schema e giustificò il suo risultato. La giornata di scuola era ormai finita e la maestra scoprì che cinquemilacinquanta era proprio il risultato corretto, andando a casa chiedendosi come quel piccolo scolaro avesse fatto.

Gauss diventò un famosissimo matematico, noto a tutti i popoli a venire. Il suo blocco per gli appunti venne riempito di favolose innovazioni, dalla curva tanto odiata dagli studenti di statistica alla negazione del quinto postulato di Euclide. A volte non serve un quaderno costoso per scrivere grandi idee.

martedì 13 marzo 2012

la porta scorrevole

Non c'è nulla da temere dall'ignoto.
mattina, 8 ottobre 2010, ore 10
sera, 26 giugno 2011, ore 22.35
pomeriggio, 2 febbraio 2012 ore 16.30

una mano che saluta, una corsa o dei palloncini, una lacrima, nella mente le immagini si confondono ma la sensazione rimane la stessa. L'ignoto che si fa bagaglio, troppo grande, troppo piccolo, sempre troppo pesante. Il metal detector, il tornare indietro, il palpaggio della poliziotta, è sempre il braccialetto argento, maledizione. Le scale mobili, il beauty free e l'attesa sulle sedioline di plastica blu. Le mani prudono e il cuore è in tumulto. Poi le nuvole, sempre diverse, le luci della città, il mare che si fa oceano. Il sonno che arriva e la mente si assopisce.
La lotta per il bagaglio a mano e poi la porta scorrevole. Al di là una faccia, una città, un'ignoto. Un'ignoto che eccita e fa tremare la gola, i calzini sono troppo caldi o troppo freddi, non sapere cosa accadrà, come la piccola me affronterà la grande me. Come l'innocenza coinciderà con lo scetticismo. L' ignoto fa paura, stronzate a chi dice il contrario. Che fosse l'8 ottobre, il 26 giugno o il 2 febbraio la mia mente non sa distinguere, il tremore era lo stesso, due secondi di esitazione dietro quella porta, sapendo che in dieci piccoli passi l'ignoto sarebbe diventato realtà, una realtà. La vecchia me sarebbe diventata una me più saggia, più confusa, certamente sempre più alla ricerca.
Perchè è vero che l'ignoto fa paura, ma è fottutamente irresistibile.

lunedì 12 marzo 2012

Un giglio appassito


La fronte corrugata di David lasciò trasudare una goccia salata, che, cadendo, andò a macchiare l'inchiostro dei fogli confusamente sparpagliati sulla sua scrivania. Il sudore che pian piano veniva assorbito dalla porosità della carta lo fece destare dalla profondità del suo complicato ragionamento. Guardò fuori dalla finestra, dove le prime luci dell'alba iniziavano a filtrare dalle ingiallite persiane. Estrasse dal taschino un piccolo orologio, eredità del vecchio padre defunto. Era giorno, di nuovo. Si alzò dalla sedia guardando ancora un attimo ciò che aveva scritto, poi passò una mano fra i capelli scompigliati dalla nottata in bianco. Andò al lavello, ci versò un po' d'acqua dentro, e con due mani si sciacquò la faccia stropicciandosi gli occhi. Si spolverò accuratamente le spalle, prese degli appunti ed uscì di casa. La città si presentava ancora come un disordinato scenario postbellico, macerie erano ancora in mezzo alla strada e nel tragitto per l'università non era difficile trovare qualche frammento rugginoso di bomba. Di quella guerra finita due anni prima più nulla interessava a David, che era soldato di un'altra guerra ormai. La crisi dei fondamenti della matematica. La bomba era arrivata dal Galles, vent'anni prima, da un giovane filosofo chiamato Bertrand Russell. Quel paradosso, che ancora oggi interrogava ed interessava i matematici di tutto il mondo diede l'impressione che il periodo d'oro della logica e della matematica erano ormai tragicamente finiti. Dall'idea di scienziato che, sopra le parti, era l'unico prescelto a capire e spiegare le complessità del mondo, si era passati alla confusione nella quale la madre di tutte le scienze era rimasta screditata. David aveva gli occhi fissi, si muoveva come un automa, mentre nella sua mente un mare di antinomie lo impensieriva. Una volta giunto di fronte alla facciata dell'Università di Gottinga si fermò, volse lo sguardo verso l'alto e la guardò interamente. Quanti secoli di storia erano passati fra quei bassorilievi, quanti colleghi lo avevano preceduto fra i colonnati del chiostro. Ancora il fascino di Gauss e Riemann non erano svaniti, nell'aria aleggiavano i loro pensieri rivoluzionari, le loro ipotesi, i loro teoremi. Qualche vecchio professore ormai segnato cerebralmente dall'età avanzata, diceva di averci lavorato insieme, di averli visti fissare quella facciata così come faceva David in quel momento. Sistemò la cravatta e si addentrò nell'atrio dell'edificio che portava al chiostro attraverso una porta di vetro laterale. Arrivato lì si sedette su una panchina mentre studenti e professori gli passavano a fianco intenti a raggiungere le proprie aule. David non si curò di loro, estrasse nuovamente i suoi appunti e si mise a fissarli, ritornando subito nella concentrazione più assoluta. Qualsiasi cosa avrebbe potuto succedergli davanti, non l'avrebbe disturbato. Dopo pochi minuti, una mano gli si appoggiò sulla spalla mentre una voce di donna lo chiamava.
“Professore? Mi dispiace disturbarla ma eravamo d'accordo di trovarci qui alle 8.00”
David, per un momento si indispettì. Chi aveva avuto l'insolenza di toccarlo disturbandolo dal suo pensiero? Alzò lo sguardo velocemente fino ad incrociare quello della ragazza, che lo guardava timidamente. Subito si intirizzì sulla panchina, sistemando goffamente i fogli che aveva raccolto dalle ginocchia.
“Buon... buongiorno carissima Linda” 
disse con voce sommessa. Prese il cumulo disordinato di carta e lo spinse all'interno della borsa di pelle marrone estraendone un piccolo fiore appassito.
“Questo l'ho colto per lei” 
le disse, porgendoglielo. Il bel giglio che aveva colto la sera prima era ormai morto, aveva i colori spenti, come se fosse rimasto tutta la notte in quella borsa.
“Ieri questo fiore era come lei: fresco, profumato, bellissimo. Oggi assomiglia più a me: rinsecchito, spento. Mi dispiace non averlo tenuto al fresco, ma il fatto che sia vecchio spero non lo renda meno affascinante.”
David era una persona molto intelligente, dall'ineffabile arte di pensiero ed oratoria, ormai prossimo ai sessant'anni d'età. Linda era una giovane dottoranda in matematica. Aveva la pelle candida e pulita, due occhi grandi e profondi. I suoi capelli, non troppo lunghi, venivano giù come una cascata, leggermente mossi e con un risvolto verso l'alto in fondo. Quando si avvicinava alle persone un dolce profumo inebriava le narici degli astanti, che ne rimanevano visibilmente colpiti. Anche lei era molto intelligente, bene sapeva reggere una discussione con il vecchio professore. Alla vista di quel fiore appassito la ragazza spalancò gli occhi e prese a pensare profondamente. Era visibilmente imbarazzata da quel gesto.

Nel mentre David, che aveva colto la fissità nello sguardo di Linda si disse fra sé e sé:
“Perché non è tutto semplice come la matematica! Certo, ci vuole un po' per impararla e introiettarla ma poi la si padroneggia da maestri. Con cose semplici si costruiscono cose via via sempre più complesse, è questo il bello. Bastano poche regole per fare tutto. Assiomatizzare la vita, ecco cosa servirebbe.”
La ragazza si schiarì la voce con un colpo di tosse e disse:
“Caro professore, non ho capito perfettamente quali siano le sue intenzioni, e sebbene sia una persona affascinante e intelligente forse ha frainteso i miei comportamenti. Il mio interesse per lei è puramente accademico. Sto per fidanzarmi con un letterato, le nostre famiglie sono già informate. Guardi, non ne abbia a male, spero che voglia ancora dedicarmi il suo tempo.” 
Si alzò, sollevando leggermente un lembo della lunga gonna in segno di riverenza.

David aveva ancora gli occhi fissi. Quella parola, “assiomatizzare”, l'aveva bloccato. Tirò fuori gli appunti e li dispose per terra di fronte a sé, sull'erba. Si alzò per poi abbassarsi in tensione sulle ginocchia, guardando il proprio lavoro. Quella era la risposta, il modo di uscire dalla crisi. Formalizzare tutto. Assiomatizzare tutta la matematica a poche regole che sarebbero poi servite per dedurre tutte le altre.

Alcuni anni dopo David venne a sapere che Linda aveva lasciato il dottorato in matematica per scrivere poesie. Questa notizia lo fece sorridere, pensando al giglio che aveva lasciato marcire nella sua borsa prima di disfarsene, come se quel fiore rappresentasse il lento degradarsi dei suoi sentimenti per lei. Disse:
“Non sono sorpreso. Non aveva abbastanza immaginazione per diventare un matematico”.

domenica 11 marzo 2012

Domeniche e Dolciumi.

Non c'è nulla da temere dall'ignoto. L'ignoto è il Nuovo.
Ed è così bello, imparare cose nuove... ad esempio, questa sera, mi trovavo sulla via di casa, della casa di Torino s'intende, quando.... non ho potuto fermare un pensiero. Le ore precedenti erano state segnate da un viaggio in treno tremendamente lungo, su un vagone carico di corpi assonnati e troppo vicini: impossibile dormire, impossibile stare del tutto svegli. Su quel treno era impossibile persino fare pipì, non si trovava un posto adatto per farla, e -se c'era- era materialmente irraggiungibile per le troppe carrozze buie e chiuse che c'erano di mezzo. Anche gli ormoni a volte giocano brutti scherzi, sai. Puoi sentirti infelice e nervoso e non capirne la ragione. Una maledettissima ragione alle volte non c'è. Irreperibile. Latitante. Trasparente. Ma fastidiosa. Come dicevo: stavo tornando a casa. L'umore non era dei migliori. L'umore aveva semplicemente chiuso le porte della percezione in una penombra ferma, aspettando che la giornata finisca, come finisce una guerra persa. Camminavo. Guardavo più in basso del solito. Volevo solo arrivare - finalmente - a casa.
Un attimo! sono senza calze. Sono senza calze e sono a Torino e generalmente di calze ne porto due paia che con i piedi freddi non si ragiona bene. Senza calze...i piedi appoggiano la pianta sulla suola delle scarpette senza alcun brivido, alcun tremore, alcun malessere. Anzi, il collo del piede riceve, nudo, il vento lieve delle 9 di sera e si fa sfiorare felice da un aria benevola, per nulla rigida. Che meraviglia, penso, primo giorno senza calze! In effetti, ci sono 16 gradi e per essere sera è una bellissima promessa.
Cammino ancora.
Le persone si aspettano davanti ai portoni dei palazzi del centro di Torino: "Scendi, sono qui!", "Si, un minuto e arrivo." Qualcuno andrà al cinema, qualcuno farà semplicemente una passeggiata.
è domenica.....già. La domenica non mi piace. Ma la domenica sera...quella si. C'è una calma così naturale... Non si deve correre da un'ansia di prestazione all'altra come durante la settimana e non si deve sfoggiare tutta l'energia di cui si è capaci come nel weekend. La domenica sera è quando il proprio sedere fa i conti con una poltrona morbida. Che sia di casa, del cinema o di un circolo letterario, il momento culo-poltrona è tra i più veri che ci possano essere. Penso a queste cose mentre continuo a camminare e, finiti i portici, attraverso corso Palestro che la mattina ospita il mercato dei contadini. Nel mezzo, il baraccone dei dolciumi. è bianco, ha delle scritte rosse e delle enormi caramelle -di quelle gommose - disegnate sulle pareti. è chiuso, ora. Quanto mi piace questo posto. Probabilmente prendere un sacchetto di caramelle lì mi regalerebbe una settimana di reclusione forzata al bagno, ma attraversare con calma il corso deserto, voltare lo sguardo a sinistra e vedere il grande banco dei dolciumi e la strada che prosegue -orgogliosamente poco illuminata- per andare a sbucare da qualche parte che ancora non conosco (proposito: esplorare al più presto tutto il corso fino alla fine!) fa viaggiare la mia mente verso un sorriso e una tranquillità che potrebbero trasmettermi soltanto dei tendoni da circo in una mia Potsdamer Platz immaginaria... ...quindi: sorrido. Senza accorgermene, il mio sguardo si è alzato in modo deciso, i miei piedi non desiderano più arrivare a casa in fretta ma godersi l'aria tiepida che ammicca alla primavera e il mio umore ha improvvisamente spalancato tutte le porte delle percezioni esterne. Non penso più al treno, non penso più alla casa. Penso solo alla bellezza di un banco di dolciumi chiuso, in una domenica sera, in una città semideserta che potrebbe essere qualsiasi città. E tutto questo succede per un motivo. Perchè è bello imparare cose nuove.

martedì 6 marzo 2012

Giovanni e l'ignoto

Non c'è nulla da temere dall'ignoto e Giovanni, dall'alto dei suoi 8 anni, lo sapeva bene.

Lo sapeva meglio di sua mamma che, diversamente da lui, aveva paura di tutto. Sua mamma per esempio non faceva mai la spesa in un supermercato diverso dal solito perchè non sapeva se i prezzi e le cassiere del secondo sarebbero stati meglio o peggio del primo. E così continuava a comprare pane e latte nella bottega vicino casa.

Lo sapeva anche meglio di sua sorella Valeria, che non usciva mai con nessuno degli ragazzi che la invitava perchè era spaventata dall'idea che si era fatta ascoltando i racconti delle sue amiche.. ma che non era mai uscita con nessuno prima.

Giovanni non era d'accordo con il modo di vivere di sua mamma e sua sorella e quindi cercava di far capire loro che si stavano perdendo un sacco di belle cose. Giovanni argomentava dicendo che non potevano avere paura senza aver prima provato e quindi si era offerto di accompagnare sua mamma al supermercato un paio di isolati più lontano da casa.

Ma non c'era niente da fare, le due rimanevano della loro idea.

Provò allora con una dimostrazione teorica. Un giorno a pranzo prese la parola e disse:

Mamma,Valeria..c'è molto più da temere nelle cose che si conoscono che in quelle che non si conoscono. Io per esempio so bene che se mi capita di dire una parolaccia in mezzo alla gente, nessuno di quegli estranei che mi sono intorno mi sgriderà. Se invece mi capita di dire una parolaccia quando sono vicino a voi o alla maestra sono certo che mi sgriderete. Capite che non c'è da avere paura dell'ignoto? Tante volte le persone e la cose che non conosciamo ci trattano meglio di quelle che conosciamo”.

Valeria gli disse che lui era solo un bambino e che non poteva dare a lei lezioni di vita. La mamma invece reagì mettendogli una fetta di torta nel piatto.. quello era un metodo infallibile per fermare i suoi sermoni.

Giovanni però non era tipo da arrendersi facilmente. Passarono un paio di settimane e tornò all'attacco.

Disse che doveva andare da un suo compagno di classe a fare una ricerca sui Carpazi e che sua mamma avrebbe dovuto andarlo a prenderlo prima di cena. Lasciò alla signora un bigliettino con l'indirizzo e non le diede altre indicazioni. Sapeva che, per quanto l'ignoto spaventasse la sua debole madre, non avrebbe mai lasciato il suo bambino in casa di estranei oltre l'orario consentito dalla buona educazione.

Si prese su Valeria (visto che doveva affrontare l'ignoto,meglio farlo in due) e partì. Imboccò il viale e svoltò a destra,verso una quartiere nel quale non era mai stata. Prese la salita,cazzo pure la salita le toccava fare.. via Enna,no. Via Palermo,no. Ecco via Milazzo.

Scesero dalla macchina e-dato che il piccolo Giovanni non era ancora stato dotato di cellulare-si videro costrette ad entrare. Bussarono ma nessuno rispose. Provarono allora ad aprire di pochi cm la porta infilando dentro la testa e chiedendo: “E' permes..?”.

Non finirono la frase .. un grido si alzò dalla stanza : SORPRESAAAA!. La mamma e Valeria fecero un mezzo infarto ma capirono subito la ragione di tutta quella festa:Giovanni aveva spiegato loro con i fatti che non c'era da temere l'ignoto. Brindarono alla salute della paura che avevano sconfitto.

Nella stanza, però c'erano anche delle persone che le due donne non conoscevano. Chiesero a Giovanni, ma lui rispose che l'avrebbero capito di li a poco.

Passarono pochi minuti e si avvertì nella stanza un brivido di euforia. Qualcuno gridò “presto, nascondiamoci!”. Giovanni prese per mano le sue donne e le aiutò a nascondersi dietro il divano, sussurrando loro: “questo posto qui è un posto magico:è una circolo in cui ci si fanno le sorprese.. è per quello che vi ho portate. Così oltre che imparare a non avere paura dell'ignoto.. per una volta sarete anche voi l'ignoto di qualcuno!”. Sentirono bussare, non risposero e appena persona entrò scattarono tutti in piedi (mamma e Valeria comprese) urlando “AUGURI NICOOO!”.

Così si brindò anche alla salute di quel ragazzo che compiva, proprio quel giorno, una quantità ICS di anni che non diremo. Alla salute!

martedì 28 febbraio 2012

La storia cambia, tra uno squillo di trombetta e l' altro.

Si sarebbe detta una grande avventura, con tanto di squilli di tromba; il premio la mano della principessa di Castiglia, il torneo combattuto il giorno 28 marzo dell' anno domini 1469.

Carne tenera, sconosciuta terra del piacere, aspettava dietro le transenne. Altro che la scoperta dell' America.

Ferdinando spiava da dietro la tenda, ove il suo fido destriero sbuffava dalle narici, emanando un fetore poco piacevole e si sarebbe detto, visti i pensieri del nostro eroe, assolutamente fuori luogo.

Capelli biondi come le spighe del grano, occhi grandi e scuri come le profumate terre della Castiglia.

Isabella sedeva dignitosa sul trono che le pareva costruito intorno, tanto granitica risultava essere la sua presenza. Il naso rotondo annusava l' aria con discreto movimento della narice destra.

La più grande organizzatrice di combattimenti di galli ruspanti della Spagna si nascondeva dietro un ventaglio di sottili ricami.

Nello spazio interno alla sua corte era usanza ormai datata radunare attorno a se le ancelle, i paggi e i cuochi di corte e dare il via alle scommesse.

L' eleganza non le si addiceva. Avrebbe sempre voluto crescere in campagna, rincorrere i cani. Pisciare tra i cavolfiori selvatici alzando di poco la gonnella.

Invidiava i contadini, spiati dalla finestra che, tornando dal lavoro, davano libero sfogo ai propri istinti. Sputando per terra ed imprecando alla maschia maniera contro i santi e le madonne. Un dito nel naso era così liberatorio, di tanto in tanto...

Ma tutto questo Ferdinando non lo sapeva. Aspettava il momento propizio per colpire al cuore l' avversario e conquistare cotanta ricchezza, magnificenza delle terre ove non tramontava mai il sole.

Ferdinando era cresciuto in Aragona, e suo padre Ferdinando il grande gli aveva insegnato ad andare a cavallo, a colpire di spada.

Un giorno- diceva F. il grande- dovrai conquistare la mano della principessa più ricca dei cinque regni, e permettere alla nostra dinastia di crescere nelle ricchezze e nel potere.

Così era ,dai secoli dei secoli.

Ogni Ferdinando si distingueva per il sangue freddo e la lealtà verso la corona, che cotanto pesava sul capo minuto tipico della dinastia D' Aragona.

Aspetto fiero e importante del viso, accompagnato ad un fisico altrettanto elegante, Ferdinando avrebbe voluto ritirarsi in un angolo e scoppiare a piangere.

Il torneo era vicino all' inizio, e a lui sarebbe toccato confrontarsi con Ramonez, il temibile principe di Valencia.

Chinarsi sul velluto del mantello di Francesco e sprofondare il viso tra i capelli e il precipizio del suo collo, era tutto ciò che avrebbe potuto alleviare il suo dolore.

Il capo delle guardie, con cui era cresciuto, portava con se il grande segreto del loro affetto, cresciuto tra il retro delle cucine e i giardini del palazzo reale.

Un affetto da soffocare, destinato a rimanere incompreso e inspiegabile. Poteva l'amore essere condiviso da un principe ed una guardia del re?



Gianfrinosse suonò la trombetta per la prima volta nella sua vita. Il che, per un semplice scudiero, rappresentava un onore; il suo nome sarebbe stato ricordato alla corte della principessa.

Un suono stridulo, sgradevole e prolungato accompagnò l' inizio del torneo. Un suono che riportò ognuno alla regale normalità.

Gianfrinosse ammirò da lontano l' aspetto vagamente altezzoso di sua maestà Isabella, esplorando la delicatezza dei tratti del suo volto.

Nello stesso momento Ferdinando uscì al galoppo dalla tenda, nell'aria di quella giovane mattina di primavera, lasciandosi alle spalle i tiepidi ricordi d' amore, correndo incontro alla rabbia e al disprezzo della sua prossima infelicità.


La fine di questo racconto la trovate su wikipedia, o su un manuale di storia moderna. Descrive un regno glorioso condiviso da Isabella e Ferdinando, coniugi per quasi trent' anni.

lunedì 13 febbraio 2012

Un'amorevole ingenuità

Anna diceva di no, ma era evidente. Il suo sguardo spento comunicava chiaramente uno stato di disagio. Tutti noi sapevamo che il motivo era Stefano, ma lei cercava di nasconderlo dietro ad un sorrisetto stupito, accompagnato da risposte del tipo: “Pensi che mi interessi qualcosa?” e via dicendo. A me personalmente faceva molta pena, ma sapevo che le sarebbe passata.

Giorgio invece si vedeva da lontano un chilometro che si stava annoiando a morte. D’altronde gli invitati alla festa erano gente che non aveva mai visto prima, e che peraltro non aveva alcuna intenzione di conoscere. Era imbarazzante quando il festeggiato, Luca, lo raggiungeva al tavolo per chiedergli se si stesse divertendo. Giorgio, spalancando gli occhi e andando su e giù con la testa, riusciva a malapena a contraffare l’espressione di una convinta approvazione, per poi, dopo che Luca se n’era andato, rituffare gli occhi nel bicchiere, e sorseggiare lentamente la sua terza, quarta o quinta birra.

Carmine era ridicolo. Ad ogni festa beveva sempre più di tutti e con il suo accento meridionale si ostinava a blaterare: “Ma io nun sò ubbriaco, manco pe’ nniente!”. Malgrado tentasse di controllare i movimenti del corpo in uno sforzo di sincronizzazione degli arti, i risultati erano molto scarsi. Gli occhi li aveva velati, lo sguardo era ormai ebbro, il suo viso lasciava facilmente intuire il numero di Americani o Negroni che si era scolato fin lì.

Giulia, seduta al tavolo di legno con un amaro in mano, parlava distrattamente con alcune sue amiche, mentre con la coda dell’occhio studiava i movimenti di Filippo: appena lui si sarebbe alzato, lei avrebbe fatto lo stesso, fingendo un’espressione sorpresa al momento dell’incontro, che sarebbe avvenuto al tavolo del piccolo buffet. Mi accorgevo, in quegli istanti in cui la osservavo, di quanto è buffo sforzarsi di rendere casuale un incontro che al contrario si brama con tutto il cuore, come si fa spesso per far capire all’altro che in fondo, anche se non ci si fosse incontrati, la cosa non avrebbe avuto grande importanza. Nel frattempo, seguendo il copione dell’attrice che era, Giulia aveva sfiorato la mano di Filippo in prossimità di un piatto di tramezzini, e gli si era rivolta con un “Ma guarda chi si vede!”. Faceva molto ridere, Giulia, ma era tanto carina, nella sua recita venuta male.

Io ero appoggiato col sedere al muro, con del vino in una mano e una sigaretta accesa nell’altra. Rispondevo con entusiasmo a Luca che andava tutto bene, stirando la bocca in un sorriso innaturale, quando in realtà ero più annoiato di Giorgio, che almeno lui ormai era ubriaco.

Erano le dieci e venti e gli ultimi invitati erano appena arrivati.

Tutti a quella festa sembravamo concentrati nel nascondere agli altri informazioni che probabilmente ci avrebbero messi in imbarazzo. Dietro ad uno sguardo o a una risposta, ad una risata, a un movimento.
Tutto per celare segnali, pensieri, sentimenti da noi ritenuti inopportuni, chissà poi secondo quale criterio!
Ahinoi però, ogni nostro sforzo, seppur degno di un posto da protagonista in una qualsivoglia opera di Brecht, falliva abbastanza miseramente.

Del resto, bisogna ammettere che ha ragione quell’infausto incipit, che ci ricorda che la fuga di notizie (nel nostro caso la fuga dei segreti da noi custoditi) è il nostro grande guaio, anche se, nel contempo, questa stessa fuga ci rende così amorevolmente ingenui, che è difficile rinunciarvi.

domenica 12 febbraio 2012

Un autobus chiamato Italia - Dialogo teatrale a più voci


Autobus urbano. Linea S. Ora di traffico intensivo. Gente affrettata sale e scende dalla vettura.
Entra il controllore.

Controllore: Biglietti, biglietti!

Tutti rimangono assorti nelle proprie attività, alcuni leggono il giornale, altri guardano fuori dal finestrino pensando che il controllore così non li veda.

Controllore: Lei, signore, parlo proprio con lei. Mi faccia vedere il biglietto

Personaggio A: (con marcato accento veneto) Mi? Pensa ti, la prima volta che me inciucco e che monto sora el bus i me chiede il biglietto. Vuto vidar el bijietto? Non ghe l'ho! Elo contento? Se vedeva che el me volea far la multa. Poi son meso 'mbriago. Non son sicuro nemmeno che lu sia el controllor, vero? Sempre a mi g'ha da capitarme! Seto che son drio a tornar a casa? Che ho laorà i campi tutto el dì? E poi sa vollo, se ciacola, se suga ala briscola e se beve, non fo mia del mal a nissuni mi! Comunque se proprio vol saverla tutta, vada a vidar in fondo all'autobus. Ho visto che uno l'è entrà. Uno strano salo? G'avea il collo talmente lungo che parea che qualche d'uni ghe l'avesse tirà. Vada a vidar se quelo ha timbrà il bijetto! Vada a vidar quelo a cui el g'ha pestà el diton! L'è lì tutto incassà!

Controllore: Andrò a controllare, lei comunque prenderà la multa.

Personaggio A: Te parea! (sottovoce) Ma va in mona!

Controllore: Cosa ha detto?

Personaggio A: Ho dito che pagarò.

Controllore: Lei? Mi fa vedere il suo biglietto?

Personaggio B: (accento lombardo, con la r moscia) Uè baluba! Parla con me? Gli pare che non abbia il biglietto? Guardi che io lavoro sa? Posso permettermi il biglietto da barbone di questo autobus lercio, pieno di meridionali scrocconi. Poi sto andando a lavorare. Normale no? Dai dai, circolare!

Controllore: Guardi che non mi muovo da qui finché non me lo fa vedere.

Personaggio B: Oh, bisogna proprio essere proprio dei barboni! Son l'unico su tutto l'autobus che lo paga! Vuole vederlo? Tiè, lo guardi bene. Questo autobus quasi lo mantengo io!

Controllore: Questo biglietto è stato timbrato più di un mese fa.

Personaggio B: Beh, allora? Guardi che ho chiamato il capo della filovia e mi ha detto che potevo salire rilassato su questo autobus, che tanto conoscevo lui. Romanelli, le dice niente? Si muova, circolare! Se non vuole che la faccia licenziare.

Controllore: Non mi interessa, io le devo fare la multa.

Personaggio B: Voglio proprio vedere cosa dirà a quell'Africa che mi ha pestato il piede. Sto già chiamando il mio avvocato per vedere se ci sono gli estremi di una causa. Lo riconoscerà di sicuro! Ha una corda sul cappello, al posto del nastro.

Controllore: Lei intanto rimanga qui, poi torno a farle la multa. (girandosi verso un passeggero) Lei, si, lei. Biglietto prego!

Personaggio C: (accento toscano) Ma che stà a dire? Ma guarda questo! Io sò artista! Le sembra che l'artisti c'abbiano da pagà il biglietto? Mi pareva ci fosse una legge a riguardo. Noi siamo esonerati!

Controllore: Non credo proprio, guardi. Me lo documenti.

Personaggio C: Cos'è che c'ho da fare? Documentare che? Non si vede che so artista? L'avrà viste anche lei le mie opere d'arte!

Controllore: Non le conosco.

Personaggio C: Allora si informi. Poi sono il cugino del fratello del cognato di Pablo Picasso. Lo conosce almeno Picasso? Vorrà mica farmi la multa? Lei è proprio prevenuto contro l'arte! Guardi, ultima offerta. La invito a casa mia per una bella cecina. Dicono che sappia cucinare bene! Le piace la farinata di ceci? Le posso fare altrimenti un bel cinghialino ben innaffiato da una nostra bottiglia di vino fatta in casa. Quel puzzone l'ha visto poi? Quello che s'è seduto in fondo all'autobus? Lui viene qui e ci ruba i posti e rovina l'aria di questa vettura con il suo olezzo incredibile. Ha un tono lamentoso il tizio.

Controllore: (con tono toscano) No, lei è molto gentile ma... (schiarendo la voce e tornando a parlare normale) Non mi interessa. Che schifo fa questo autobus! Ma il biglietto l'ha pagato qualcuno? Prenderete tutti la multa!

Personaggio D: (tono straniero) Io pagato il biglietto, io rispettare regole, essere buon cittadino.

Controllore: Eccolo qua! È lei che ha pestato il piede al signore senza neanche scusarsi?

Personaggio D: Io pestato piede solo perché signore fatto lo sgambetto. Ecco biglietto. Controllare se non crede.

Controllore: Beh, effettivamente il suo biglietto è valido ed obliterato correttamente. Domani comunque ci sarà l'aumento. Se ha altri biglietti di questo tipo li dovrà buttare!

Personaggio D: Io sapevo! Unico che paga biglietto, unico che paga aumento. Io volevo prendere altro autobus. In altri autobus funziona meglio.

Controllore: Non mi interessa. Lei è su questo autobus e segue le nostre regole.

L'autobus si ferma.

Controllore: Signori, mi avete stufato! Non posso mica stare dietro a tutti! Andate via! Siamo arrivati. “RECESSIONE”. È il capolinea.

IDROFOBIA

Marco è un ragazzo di 14 anni che ha da poco cominciato a frequentare l'istituto alberghiero, scelta presa dopo aver affrontato vari test attitudinali che hanno messo in risalto la sua attitudine al comando. Il suo sogno è quello di diventare capo cuoco di un grande ristorante, uno di quei posti in cui potrà comandare tutti senza sporcarsi le mani e ricevendo lodi da tutti.

In aula è sempre seduto in fondo, nell'angolo destro, vicino alla finestra costantemente socchiusa. Affianco a lui siedono Giorgio ed Eugenio, suoi compagni fin dalle medie. Sono gli unici amici che ha, gli unici disposti ad ascoltarlo parlare esclusivamente dei suoi progetti futuri, che prevedono loro come sottoposti, e della sua passione: i profumi.

Possiede 200 mini boccette da collezione, 163 flaconi da 150 ml, 97 flaconi da 50 ml, 43 colonie, due scatoloni pieni di campioni-prova e 72 differenti essenze suddivise in: fiori, frutti, cortecce, radici, muschi e spezie.

Nei pomeriggi liberi dagli impegni scolastici ha l'abitudine di fare un percorso ben programmato nelle tappe e nei tempi. Comincia sempre dalla cartoleria all'angolo, entra, sfoglia le riviste di moda e se all'interno trova dei campioni-prova si dirige alla cassa per l'acquisto. Successivamente si reca nelle due profumerie del suo quartiere, ma spesso rimane deluso perché sono prive delle ultime novità. Infine suona il campanello in tutti i centri estetici nelle vicinanze per chiedere se hanno campioni della sua nuova scoperta, le creme profumate.

Questa mania era nata per colpa di sua madre che fin dai primi mesi di vita aveva l'abitudine di cospargerlo di olii profumati e borotalco. Marco quando vedeva l'acqua impazziva e urlava come un'aragosta immersa in una pentola in ebollizione, così la madre lo lavava il minimo necessario. Suo padre gli racconta sempre di quando aveva tre anni ed erano andati in vacanza al mare perché speravano che vedendo quella meravigliosa distesa d'acqua Marco non avrebbe resistito e avrebbe superato quella strana fobia. Nel momento in cui si era trovato davanti il mare, invece di gioire lui si era messo ad urlare che lo volevano uccidere ed era andato a nascondersi sotto lo sdraio di due ragazze. Suo padre si rese conto che le loro speranze erano un assurdità dato che il bambino si rifiutava anche di bere e preferiva convivere un sondino naso gastrico.

Il 21 novembre dello scorso anno qualcosa cambiò. Quel pomeriggio i suoi amici erano assenti da scuola per evitare l'interrogazione di tedesco, così lui si ritrovò da solo durante la lezione pratica di cucina. Normalmente non s'occupavano di tutto ciò che riguardava l'uso dell'acqua, Giorgio ed Eugenio dovevano sempre lavare gli alimenti, cucinare ciò che doveva essere cotto a vapore, bollito e impastato.

Quel pomeriggio si dovette accontentare di lavorare con una compagna di cui ricordava a malapena il nome. Sfortunatamente lei non era d'accordo con la suddivisione di ruoli imposta da Marco, pure lei voleva comandare. Gli fece scolare la pasta, misurare il grado di cottura delle zucchine lessate immergendo in esse la forchetta, obbligandolo così ad avvicinarsi pericolosamente all'acqua e rendendolo sempre più nervoso, minuto dopo minuto. Marco raggiunse il picco di stress quando dovette impastare a mano il pane, mischiare l'acqua e la farina lo urtarono pesantemente ma perse completamente la ragione quando il professore lo obbligò a lavarsi le mani sotto l'acqua corrente. In quel momento pensò che aveva decisamente sbagliato scuola, cadde a terra in preda a una crisi respiratoria e infine svenne.

Riprese coscienza quando lo avevano già caricato su una barella per portarlo al pronto soccorso. I medici notando il suo stato di sporcizia si rifiutarono di visitarlo e lo mandarono a casa con due prescrizioni,incontri con uno psicologo e l'obbligo di fare una doccia al giorno. Ovviamente Marco non aveva alcuna intenzione di seguire la cura e arrivato a casa si mise subito a letto.

Il mattino seguente sua madre lo svegliò più tardi del solito per lasciarlo riposare. Marco s'arrabbiò, la insultò, uscì di corsa di casa e riuscì a prendere l'abituale autobus. Nell'istante in cui timbrò il biglietto si rese conto che si era dimenticato di cospargere il suo corpo con gli abituali profumi.

Quella mattina dello scorso novembre l'odore che proveniva dai piedi di Marco era talmente forte che i suoi compagni di banco dovettero cambiare posto.

sabato 11 febbraio 2012

ERA Di MARZO, D'APRILE, O NON SO

(...su di un incipit un po' datato... spero non sia un problema! Buona lettura.)



Un giorno di ordinaria follia inizia sempre, ve lo posso garantire, con un qualsiasi sbadiglio. E di solito si trascina lento nella luce stanca e insofferente del mattino. Ed è già passato, già non ci si ricorda che qualche dettaglio superfluo: ci si addormenta ancora una volta pensando "a domani!"

Come la storia d'amore di due ragazzi inizia veramente solo molte settimane dopo l'epilogo, cosi un giorno di ordinaria follia diventa tale in un momento distante, e grazie a un appiglio esteriore, un'esclamazione, un fischio, un silenzio prolungato. E la storia d'amore, che ci volete fare?, è per forza di cose unica solida base di un giorno di ordinaria follia.

Il ragazzo pensa sempre a Lei, o a qualcosa che riguarda Lei senza volerLa riguardare: perché Lei è in ogni cosa: la parete bianca ne è la prova più convincente, ma anche il possente albero squassato dal vento ricorda al ragazzo che Lei è nel mondo: ma il ragazzo è uno stoico figlio di puttana, quindi non si da per vinto e continua a recitare a memoria poesie filosofiche, e sistema la propria personale metafisica come fosse un archivista stipendiato da qualche ministero. Niente da fare, il ragazzo maledice le sue passioni e continua a sbadigliare stentoreo, fosse stato un amante della logica i suoi dilemmi sarebbero tanto diversi ora da essere identici a quelli che già sono. Vedere una persona nella corteccia di un albero, nei suoi folti rami spettinati di foglie ribelli, sradica qualsivoglia sistema metafisico, e il ragazzo è per principio un asistematico, un'amara punta di fatalismo e un socratico decostruirsi per costruirsi caratterizzano la sua spina dorsale: fragile ma robusta, esile ma resistente: il ragazzo si lascia andare alla formulazione facile di vani ossimori, un modo come un altro di passare il tempo senza prendere sul serio l'eventualità di lasciarsi andare a una sbronza da paura. E di paura ce n'è tanta. E comunque un primo mezzo litro di quello rosso forte se n'è andato, irrecuperabile nei meandri di un esofago verticale. Tra l'altro il ragazzo passeggia da sembrare allegro, visita certi locali conosciuti come sempre gli stessi e gli capita di fermarsi ad espletare la pratica inutile, talvolta irritante, del chiacchiericcio. Sarà strano che Bacco gli infonda veemenza declamatoria e certo fascino maudit? Del resto chi barcollando prima del tramonto parla di Reiner Maria Rilke e gorgheggia l'infinito Leopardi desta sempre una qualche attenzione. E il tramonto sorprende il ragazzo in atteggiamento almeno apparentemente edonico a un tavolo di legno, ma: indovinate cosa scrutano i suoi occhi nel cambio di colori, nel trapasso, ordinario e straordinario, tra la luce e il buio. Questo è un vero compito da lettori: serve attenzione, sensibilità e il giusto grado di intuizione. Scommetto che il gioco è fatto! L'edonismo del ragazzo, quella bottiglia offertagli da un improvvisato Dioniso, quel fumante tabacco tra le labbra sorridenti, addirittura quella qualsiasi ragazza ammiccante che con un ginocchio (mirabile visione: nudo!) gli sfiora uno a caso dei ginocchi, non traggano in inganno: la sua mente è ancora impegnata nell'ordinare fogli svolazzanti nel vento e flash-back di rara malinconia: sappiatelo: la storia finita deve ancora incominciare, lo si era già detto su, da qualche parte! E la storia finita incomincia minuto dopo minuto e ancora e ancora, e il possente albero ha il viso di Lei e il ragazzo vorrebbe soltanto, o almeno cosi crede, forse già maltrattato dai fumi dell'alcool, affondare in qualcosa di più superfluo: la stupidità per sconfiggere il dolore, quanti avranno teorizzato tale terapia? E' così che dopo circa un'ora (si fa per dire, tempo al tempo, la goccia ora nell'oceano vita può assumere significati stravaganti) la qualsiasi ragazza dalle nude ginocchia stringe la mano del ragazzo e ride, e anche lui ride anche se non sa di cosa, né si interessa di capirlo: e lei ripete casa mia casa mia! e lui annuisce, o qualcosa del genere, annuisce e inciampa e si rialza, mentre lei dice che bello averti conosciuto e a lui non importa niente, perché è giunta la follia e lui lo saprà solo chissà tra quanto tempo, in un moto di fastidio e tristezza, ma ora non può che fingere senza saperlo e le immagini improvvise di Lei, come botte in testa, faranno male domani, domani faranno peggio, e il possente albero avrà foglie d'oro e sangue, e lui in ginocchio bacia le nude ginocchia e morde i polpacci anch'essi nudi e lei ride con una mano tra i suoi capelli, meno male che ti ho incontrato oggi, meno male che sei cosi perfetto oggi, e il ragazzo non ha più occhi né orecchie, solo denti e lingua e organi turgidi pronti a esplodere e non è più stoico né materialista, è solo un perfetto idiota che s'immerge nella sua idiozia come un perfetto idiota, e scusate ma la tautologia è nata spontanea. E cosi se ne va a finire il giorno di ordinaria follia, e di ordinario in questo giorno ci si trova soltanto la solita folle follia: la consapevolezza che non si scappa da e verso nessun luogo, perché non si può. E buonanotte, o buongiorno, vi siete mai resi conto che si tratta sempre di un eufemismo? Allora addio.