L'incipit della settimana

ELABORATO TESTUALE DI TOT PAROLE: "L'antico vaso andava salvato"
STRINGA AUDIOVISUALE DIGITALE PROVENIENTE DA QUALCHE SERVER: "Youtube"
RETTANGOL CARTPLASTIC CONN'IMMAGIN STAMPAT QUAS BEN:"Perdita di tempo"
Ctrl+c, Ctrl+v, STAMP-E-PORT-LE-FOGL:"Glutammati sto sodio"

lunedì 3 dicembre 2012

Bip! [albideroga]

Bip! Un cellulare brandito come telecomando televisivo, a fingere di regolare contrasto, saturazione e fuoco, e un'ombra dai contorni indistinti sull'asfalto del cortile della scuola, nel sole del primo mattino, il cui proprietario è il destinatario della pretesa regolazione. Uno scherzo ormai frusto, ma sempre buono a suscitare ilarità nei bambini che lo praticano.

Bip! L'elettrocardiografo bippetta inconsapevole. E' un maschio!, il cuore è a posto signora, il suo bambino sembra del tutto sano, lo so, vediamo anche noi quel che vede lei, ma diamogli tempo, forse è solo un disturbo passeggero, il cordone ombelicale era perfettamente visibile, certo, è strano.

Bip! La sveglia sveglia il piccolo G., mamma e papà lo aspettano giù in soggiorno. Ormai va in prima, bisognerà cominciare a spiegargli che non è come tutti gli altri.

La società di oggi è tollerante, aperta a qualsiasi istanza o diversità; siamo un paese fortunato, "discriminazione" è una parola che sta sparendo dal lessico comune. Tuttavia.
G. è in quarta elementare, e sopporta  quotidianamente le peggio angherie. Nessuno dei suoi compagni, interrogato in merito, saprebbe fornire un valido motivo di tanto accanimento. Nessuno dei suoi compagni è stato interrogato in merito, ma il ruolo del narratore permette di sorvolare su questi dettagli. Figli di ghanesi, di cingalesi, di assicuratori, di leghisti, di figuranti di forum, di prete spretato e suora mancata, di madre depressa e padre ignoto, figli di figli dei fiori; alla varietà della classe di G. non manca nemmeno un nerd degli scacchi, che ha dodici tic facciali diversi dimostrati, parla solo da solo e la cui attuale passione è l'estensione del concetto di scacchiera a spazi con più di due  dimensioni; nonché l'efebico figlio adottivo di una coppia eterosessuale che è sempre stata eterosessuale, fin da quando i genitori si conobbero nella stessa clinica specializzata in cambi di sesso, entrambi in attesa che la chirurgia sopperisse a quello che la natura aveva loro negato; nè il nerd, nè l'efebico, che pure, se non per esperienza diretta in questa splendida società di uguali, quantomeno per vocazione ancestrale qualcosa da dire riguardo l'essere diverso potrebbero averlo; ma i bambini sono candidi, e il candore in controluce è crudeltà; neppure loro trovano da eccepire nel trattamento riservato al nostro G, la cui descrizione verrà per senso del pudore prontamente omessa.

Il problema di G., o forse il problema del mondo nei confronti di G. è che G. è sfocato.
Avete presente una foto sfocata?, o le ombre che popolano i bagni casalinghi dietro quei vetri zigrinati?, o un sogno appena interrotto i cui contorni stanno già scomparendo dalla memoria? Ecco, così. Sfocato. Nessuno è mai riuscito a vederlo bene, con le sue esili sopracciglia brufoli peli forfora lentiggini nei imperfezioni varie. E' un'immagine sfuggente, una meteora su retine impreparate, un rompicapo per la scienza, un trafiletto per i giornaletti da ascensore.

La sua stretta di mano è strana. Si direbbe viscida, ma la sua mano non è sudata: un fisiologo che lo visitò, a corto di tecnicismi, la definì come un "brancolare nella nebbia".
Il suo primo pianto di dolore, quando, nella sua culla sereno, l'ostetrica gli piazzò sopra un'altro neonato, perché "non si era avveduta che c'era già qualcuno".
G. è malvisto da tutti, e scusate il bisticcio di parole. Su di lui si raccontano storie, si riesumano leggende, si millantano malocchi, si invocano esorcismi.
G. non è mai riuscito a descrivere che cosa egli veda nello specchio di fronte a sè.
G. elabora teorie su di sè, le valuta, le falsifica.
G. è costretto a maturare anzitempo, a costruirsi corazze psicologiche, a fare buon viso a cattivo gioco, a diventare saggio.
"Il problema " - confessa una volta all'amico immaginario del venerdì che si è inventato per poter conversare con qualcuno, ma non tutti i giorni per non abituarsi troppo bene - "Il problema non è mio: come la bellezza sta negli occhi di chi guarda, così è evidentemente il resto del mondo, non io, che ha un problema alla vista; dovrebbero curarsi gli altri, non soffrire io." L'amico del venerdì annuisce, ma l'angolo assunto dall'angolo della bocca tradisce la sua menzogna a fin di bene.

G. crede che la soluzione stia nel respiro - lui che ha sempre avuto un respiro un po' affannoso e irregolare - deve respirare come gli altri. Cerca di sincronizzare il suo respiro con quello del suo compagno di banco, che stima di nascosto; assume un'espressione assente, si concentra e si astrae, ma non gli riesce, è sempre in anticipo per l'ansia di essere in ritardo. Guarda il compagno, si sintonizza su di lui con gli occhi e con gli orecchi; ne cronometra i moti toracici, ne indaga le variazioni del ritmo, crede di aver trovato una regola. G. riprende di nascosto i suoi tentativi grazie alla telecamera del cellulare. Sullo schermo, una macchia indistinta e il compagno. Per capire dal filmato quando lui stesso respira, G. alza e abbassa una matita rossa. Cerca di farlo con disinvoltura, il compagno lo nota ma non se ne cura. Ieri la sincronia è stata raggiunta con un margine d'errore dello 0,2% per quasi tre minuti, ma non è successo nulla.

G. ha un'altra teoria, se riuscirà a fotografarsi nell'istante preciso in cui il primo raggio di sole tocca il suo viso in un giorno di luna crescente, il problema di vista del resto del mondo sparirà. Ogni mattina, prima dell'alba G. si apposta sopra la collina nella speranza di prendere il primo raggio. Nemmeno oggi c'è riuscito, ma il suo cuore ha avuto un sussulto nel vedersi avvicinare da una bambina sfocata come lui. Non si è ancora accorto che l'aria pungente lo aveva fatto lacrimare.

domenica 25 novembre 2012

Dolore


Bip bip bip. Il suono di quella sveglia si insinua nelle fessure del mio sogno lasciate aperte dai sensi, come una lama che lentamente trafigge le carni. Va bene, smettila, sono sveglio! Allungo una mano verso il comodino con gli occhi ancora socchiusi e con il tatto cerco di evincere la posizione del rumoroso dispositivo. La luce dell'alba preannuncia l'inizio di una nuova giornata. Mi metto a sedere sul letto, con la testa fra le mani. Alcuni secondi in quella posizione ed inizia la routine giornaliera, ciabattando lentamente verso la cucina.

Bip bip bip. Sdraiato sulla branda sento il rumore provenire dall'interfono svegliare i chiassosi “ospiti” dell'istituto carcerario. Io non ne avevo bisogno, quella mattina avevo visto albeggiare. Perché dormire a poche ore dal sonno eterno? Quella notte era stata lunga, avevo riflettuto su molte cose ed ero stranamente sereno. Mi metto a sedere sul letto, con la testa fra le mani. Recito la preghiera del mattino, mi alzo in piedi facendo un profondo respiro.

La cucina della mia casa era esattamente come l'avevo lasciata ieri sera. Piatti accatastati nel lavello, avanzi di una frugale cena, briciole in terra. Apro gli scuri della finestra facendo filtrare dapprima lentamente, poi di colpo, la luce del mattino. Si respira un'aria fresca e pulita. Un peso invece mi schiaccia il petto, e tutto mi appare molto più scuro di quanto non sia. Annaspo per catturare un briciolo d'ossigeno vitale. Forse un caffè mi farà bene. Con lo sguardo perso nel vuoto e le spalle basse, mi dirigo verso il fornello.

La mia cella era sempre pulita e ordinata, del resto ci tenevo molto. I miei pochi vestiti stavano appesi ordinatamente nell'armadietto, la Bibbia giaceva sul tavolino, tutto era al suo posto. Mi avvicino alle grate, guardando la luce di una splendida giornata che mi colpisce il viso striata. Una fresca brezza mattutina mi sfiora, penetrando dolcemente nei bronchi. Il panorama, fuori dalla cella, non è dei migliori. Una fila di persone ordinate sta raggiungendo svogliata il posto di lavoro nella grigia zona industriale. Guardo in alto, cerco di trarre energia dai raggi solari. Un caffè potrebbe giovarmi. Il mio ultimo caffè.

Il rumore del caffè che sale dalla cucina mi risveglia dal torpore cerebrale che mi attanaglia. Ne verso una tazzina, la bevo. Ne verso un'altra. Bevo anche quella. Dopo la doccia e una rapida vestizione esco di casa controllando di avere tutto. Per strada sembra che tutti guardino me, abbasso lo sguardo, per evitare che mi guardino dentro. Un paesaggio desolato gli si paleserebbe alla vista, l'albero della mia vita spoglio, come in un inverno perenne. Ma cosa mi manca? Ho tutto quello che un uomo potrebbe volere, ma a quale fine? Non riesco più a godere di quello che mi circonda: della mia casa, della mia fidanzata, della mia vita. Nella testa di ognuno c'è un bambino, e il cervello è il suo parco giochi. Il bambino non dovrebbe saltare dall'altalena, o assumere atteggiamenti pericolosi, altrimenti si potrebbe fare male. E noi, che quel bambino lo vigiliamo, non dovremmo portarlo a sbucciarsi le ginocchia per nostra mancanza di un limite. Questo per dire che alcuni ragionamenti profondi sappiamo che ci faranno male ma decidiamo comunque di intraprenderli, lasciando ferite indelebili al nostro bambino interiore. Una sigaretta stempera la tensione prima di entrare al lavoro.

Il rumore della cella che si apre mi distrae dalla lenta degustazione del caffè. Un secondino accompagna un sacerdote. Mi alzo in piedi. “Grazie, ho già risolto i miei conti in sospeso con Dio”. Il sacerdote mi guarda da capo a piedi, si fa il segno della croce ed esce dalla cella. Spunta un altro secondino da dietro la porta che dice: “Andiamo, è ora”. Allungo le mani per favorire l'ammanettamento. Percorrendo il corridoio tengo alto lo sguardo, Dio mi ha perdonato, non ho nulla di cui vergognarmi. Il pentimento, sincero, mi regalerà la vita eterna in paradiso. Entro nell'ultima stanza che vedrò, un lettino ed apparecchiatura medica ne sono il semplice arredamento. Uno spesso vetro mi separa dalle persone che vogliono vedermi morto. Il secondino mi chiede: “quali sono le sue ultime parole?”. Io mi avvicino lentamente al vetro e, guardando una per una le persone sedute a guardarmi dico:

“Padre nostro,
che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome.
Venga il tuo regno,
sia fatta la tua volontà.
Come in cielo,
così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano
e rimetti a noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo ai nostri debitori.
Non ci indurre in tentazione,
ma liberaci dal male.”

Mi sdraio sul lettino. Un medico mi dice: “Ora ti verrà somministrato un veleno che ti addormenterà lentamente, non sentirai dolore.” Sento entrare l'ago nella vena come una spada, il liquido iniettato mi riscalda dolcemente. Sono stanco ma sorridente. Buonanotte.

Arrivato in ufficio, propongo finti sorrisi abbozzati a tutti coloro che incontro sulla strada per la mia scrivania. Mi siedo e passo alcuni minuti a fissare il monitor spento. La realtà che mi circonda è come spine che mi trapassano da parte a parte, la vista delle persone mi rende ansioso quando non mi disgusta. Si avvicina un collega alla scrivania. Mi dice: “Hai visto il giornale? Oggi giustiziano l'assassino della tv!”. Giro lo sguardo da un'altra parte, concentrandomi sui miei pensieri. Sento l'ago che entra nella carne, sento il dolore, sento il cuore accelerare, sento i rumori dei macchinari, sento la notte sopraggiungere sul giorno. Mi ispeziono. Nessuna reazione emotiva. Penso: “io sono già morto”.

lunedì 11 giugno 2012

Fotografemo le cése prima che le casca

Fotografemo le cése prima che le casca, vói védarle ancora, che da 'sta carega no' vedo gnanca pi' el campanil co le só ore, ma almanco sento i rintochi, eco, el ghe n'avea 'pena fati quatro st'altra note che ghe n'è scapà 'n altro par, e a mi che le gambe le me fale ma la testa la g'ho ancora bòna, me gh'era parso che al'Igino 'l g'avese ciapà un tremasso, e invese l'era il leto che scurlava tuto, Maria Vèrgine ghe digo, ma lu' po' che el ghe sente póco, po' che 'l tól quei tranquilanti 'meopatici, el me fa sì co la testa, po' 'l se 'olta de galón e 'l ritaca a dormir come le piere de l'adese, che mi ghe lo digo sempre, sa tóto 'ste robe che te te inveleni, che co' no' dormo mi te podaresi anca farme un póca de compagnia, che de note no' gh'è gnanca gnente da védar ala tele, che almanco quando l'è ora de disnar gh'è la clerici che la te spiega le ricete o i bocia che i seita a cantar le cansonete, che no i val un stinco del claudio villa, ma quei i era altri tempi sióra, col modugno e il dallara, quante 'olte lo gh'ea dito al'Igino de comprarme el disco de Litel Toni, ma lu' 'l me disea che i dischi i era un scóasso de sighi e de lamenti e che 'el preferia metar via calche scheo par la bensina super, co quei otani in più da portar la siesento su par quele scaesagne che 'l savea lu', e 'naimo a vedar verona da l'alto, e 'l me dàa qualche basin, ma gnente de più sala sióra, che l'era un bocia da ben, e 'lora tra un basin e l'altro mi pensaa che la musica la podea sentir anca in balera qualche altro sabo co' la Flora e la Giustina, ma co' che l'me tocàa lu, delicatamente, valea ben la diferensa con tuti i modugni del mondo, e anca se dopo sposai no l'm'ha pi' porta' su le scaesagne, parché no ghe n'era piassè de bisogno, e anca parché scominsiàa a esarghe trafico anca da chele parti là, che te parea d'esar in via nóva dopo mesa, se ricordela che bele prediche don Faustino, l'è morto anca lu', la próa a védar in quela cardensa che g'arìa da 'érghe ancora incantona' la foto de lùch'el ne benedise al nostro matrimonio, col Walter in parte a far da testimonio, 'na bela testa anca lu', la se figura che la note prima de partir co i alpini el s'era finto in leto mala' e l'era scapa' a 'mbriagarse col me Igino el marangón a casa del Vito che 'l g'avea le vigne fóra Quinsan, e i s'avea impenì cósìta tanto che i ha regatà tuto il dì siguente, ma al Walter no gh'è valso pregar, i l'ha caricà sul treno dela sera e l'è rivà in caserma dopo che il general el l'avea sercà tuto il dì, e par compenso el g'ha dato da far du' mesi de sentinela noturna in te la garita sopraelevata, de otobre, col fredo che te lo racomando, e senza gnanca un schienal da posarghe le spale strache, e se no altro el g'ha pasà la vóia de schersar, al pòro Walter, che quan l'è tornà só ghe mancàa un tocheto de diel, ma 'l no' l'ha mai volùo parlàrghene, e mi no' parlo, ma gnanca no' taso quando digo che- ma la speta sióra, sèntela anca éla, n'antro scurlón, no' gh'è pi' pace co 'sto tremoto. Stanote el tranquilante al'Igino ghe lo frego mi. Verona, 3 giugno 2012

domenica 8 aprile 2012

Avrebbe voluto non crederci

Andrea contemplava la strada deserta attraverso i vetri della finestra.
Era proprio soddisfatto della scelta. La sua nuova casa gli piaceva proprio tanto, e lo si poteva notare dal sorriso che gli si formava sulle labbra, non appena allungava lo sguardo verso il fondo della via, fino all’incrocio che si poteva scorgere nei giorni più limpidi.

Era da molto tempo che sognava quel momento, quella svolta, che finalmente era arrivata, sottoforma di una nuova casa, di una nuova città, di una nuova vita.

Aveva dovuto superare difficoltà economiche che l’avevano costretto fino a pochi giorni prima a rimanere rinchiuso tra quattro mura che ormai odiava, in compagnia di persone con cui condivideva solamente l’aria che respirava, nient’altro.
Aveva anche lasciato un lavoro che lo stava consumando. Era riuscito a trovarne un altro, in un negozio del centro, con orari più che accettabili, che gli permettevano di condurre una vita sociale più “normale” di quella precedente.
Era sicuramente più sereno.

Aveva avuto poco tempo per visitare la città fino a quel momento, ma non aveva fretta. Intanto spulciava piano piano le viuzze del suo quartiere, alzandosi sulle punte quando passava vicino alle recinzioni più alte, per osservare i giardini dei suoi nuovi vicini, alcuni molto curati, altri meno.

Quel giorno, mentre guardava dalla finestra, si immaginava le prime conoscenze che avrebbe fatto: al lavoro, al corso di pittura, a teatro, ai concerti. Fantasticava sulla simpatia dei ragazzi e sulla bellezza delle ragazze. Le ragazze, appunto. “Chissà”, pensava, “se finalmente conoscerò quella giusta!”, adesso che avrebbe avuto molto più tempo da dedicarle, per cercare di costruire una relazione stabile, di cui sentiva ogni giorno più forte il bisogno.

Era anche contento dei coinquilini che gli erano capitati. Il ragazzo con cui divideva la stanza, Cesare, studiava medicina. Era tranquillo, non parlava molto, ma dava l’idea di essere un tipo intelligente, o almeno sopra la media. Degli altri due coinquilini, uno lavorava full time in un museo di storia dall’altra parte della città, e l’altra era una ragazza che non aveva ancora avuto modo di conoscere. Di lei sapeva solo il nome, Marta, e che sarebbe arrivata un giorno di quella settimana.

Fuori dalla finestra si vedeva il vento che soffiava e piegava le fronde degli alberi davanti alla casa.

Andrea stava pensando di chiedere a Cesare cosa avrebbe fatto quella sera, sentendo una certa voglia di festeggiare quel nuovo inizio con una buona dose di alcool. Gli avrebbe scritto un messaggio, dal momento che non era ancora tornato, ma intanto rimaneva incollato al vetro a scrutare le poche persone che passeggiavano lungo il marciapiede sottostante.

Si soffermò un attimo di più su una ragazza che si stava avvicinando lentamente con una borsetta in mano. Notò il passo particolarmente elegante, che schivava con agilità i rami e le foglie ammucchiati per terra, e per un attimo distolse lo sguardo. Collegò quel passo a un ricordo che non riuscì a recuperare dalla sua memoria, e riprese ad osservare la ragazza. Indossava un vestito che contro la luce del sole pareva tutto bianco, quasi panna, che le finiva all’altezza delle ginocchia. Era parecchio alta. Aveva capelli corti e chiari, che come il vestito rilucevano al sole in piccoli lampi dorati. Distolse ancora una volta lo sguardo per pensare. C’era un altro ricordo che quei capelli richiamavano, un qualcosa di lontano, ma ancora troppo vago e non decifrabile. Andrea rituffò gli occhi giù per la strada.
La ragazza si stava avvicinando. A quell’altezza Andrea riusciva a distinguere il colore delle scarpe e della borsetta. Il profilo del viso e del corpo, le linee dei seni e delle cosce si stagliavano sempre più chiaramente in controluce. Andrea per l’ennesima volta stette per ritirare lo sguardo e concentrarsi su quel ricordo insistente che gli arrivava da lontano, ma ci rinunciò.
La ragazza, arrivata all’altezza della casa, dall’altra parte della strada, la attraversò, voltandosi in direzione della finestra e di Andrea. Aveva mosso i primi passi sull’asfalto.

Andrea volle non crederci.

Marta.

Erano passati tre anni, ma il dolore era quello di sempre.

Marta salì il gradino del marciapiede, fece due passi verso il portone e tirò fuori la chiave.
Prima di entrare infilò la mano nella buca delle lettere per controllare la posta. Sulla cassetta il nome di Andrea era stato da poco aggiunto a penna, a fianco del suo. Afferrò una busta e chiuse dietro di sé la porta.
Andrea dopo pochi secondi sentì il rumore della chiave nella serratura, appena oltre la porta della sua stanza.

Andrea avrebbe voluto non crederci.

lunedì 26 marzo 2012

Il tacchino induttivista

“Sono di nuovo le nove… Non posso proprio esserne sicuro ma adesso ci porteranno da mangiare!”.
Dal fondo della fattoria si avvicinava la moglie del fattore. Donna particolarmente pienotta e con un vestito molto vaporoso di colore azzurro. Sopra un grembiule bianco dalle quali tasche fuoriuscivano erbe da campo.
“Eccola, sta arrivando! L’avevo detto! Nove in punto! La campana ha smesso di fare il suo nono rintocco!” – poi sottovoce si disse: “ Va bene, calma le arie stupido di un tacchino. La signora viene tutti i giorni alle nove, da una settimana, e dalle sue mani gonfie viene lanciato dell’ottimo mangime.”
Il tacchino si appoggiò un’ala sotto al mento, becco all’aria, pensieroso. Cominciò a girare avanti ed indietro per l’aia, sgranocchiando di tanto in tanto qualche seme colto dal terreno.
“Quando potrò sapere che la signora segue sempre questa fantastica regola? Quando potrò prevedere con precisione l’attimo in cui la vedrò sbucare dalla casa padronale con il suo secchio di spettacolari leccornie?”
“Mai caro mio, mai!”
disse Bertrand, un tacchino spuntato fuori dalla casetta in legno. Aveva un paio di folti baffi, era un giovane brillante che quando parlava ci sapeva dannatamente fare con le parole. Quella volta invece destò subito sdegno nel volto dell’altro giovane induttivista.
“Guarda caro che io sono qua da molto più tempo di te sai e non mi frega nessuno! Io tutti i giorni vedo la signora arrivare, ogni giorno allo scoccare della nona ora! Se prima poco ci mancava all’essere convinto ora lo sono proprio! Posso prevedere con assoluta certezza che domani la signora arriverà alle nove!”
Il silenzio calò nel pollaio. Chi aveva osato sfidare il giovane Bertrand, che con la sua arte oratoria tutti deliziava di colti ragionamenti! Il gruppo si radunò intorno ai due, gli allibratori aspettavano silenziosamente le parole di Bertrand per poi piazzare le quote per il vincitore.
“Guarda, potresti anche avere ragione, io però non mi fiderei più di tanto…” – disse allontanandosi.
Il gruppo di tacchini sopraggiunti si disperse, tornando al loro beccare e chiacchierare. L’induttivista spavaldo invece si pavoneggiava, scuoteva in alto il suo becco con aria di vittoria. Iniziò subito a fare caso al tempo che scorreva, lentamente, aspettando solo di poter dire: “te l’avevo detto!”

La notte passò serena per tutti a parte che per Bertrand che si rigirava nel letto. Che interesse poteva averne quella brutta signora della nostra pancia da riempire?

Mancava poco ormai alla nona ora, e tutti i tacchini si misero a guardare nella direzione della casa seguendo il consiglio del buon calcolatore. Allo scoccare della campana la porta della casa si aprì e la signora iniziò ad avvicinarsi al pollaio. Bertrand se ne stava in disparte, quando ad un certo punto guardò bene colei che piano si avvicinava.
“Ehi, ma dov’è il nostro cibo?”
Tutti iniziarono a guardarsi intontiti. Che Bertrand avesse avuto ragione anche questa volta? La signora nel mentre era entrata nel recinto scrutando per bene tutti i tacchini. Pian piano si avvicinò a Bertrand e lo afferrò alzandolo ad un metro e mezzo da terra. Da quella prospettiva poteva vedere tutto. Poteva guardare il rosso tetto della casa, il bianco muretto di confine, l’altalena nel giardino e quella scritta sull’uscio di casa: “Buon Natale”.

lunedì 19 marzo 2012

precauzioni

"ADVcompany, buongiorno."

"Buongiorno a lei, qui è il Vaticano."

"Senta,mi scusi, non ho tempo da perdere. O fa il serio,sennò metto giu."

"Sia seria lei! Io sono il Papa ed ho un urgente bisogno di una campagna pubblicitaria e voi siete o non siete un'agenzia?"

"Si lo siamo, ma come faccio a sapere che lei è davvero il Papa? Può essere un imbecille qualsiasi che lo imita"

"Senta, se vuole le posso recitare il Magnificat o spiagare il Catechismo. Mi passi il direttore creativo."

"Un momento."

La centralinista mise in attesa la telefonata e chiamò il direttore creativo all'interno.

"Rick,ho uno in attesa che dice di essere il Papa e vuole parlarti. Che faccio?"

"Passamelo. Oggi mi sto davvero rompendo i coglioni, almeno mi farò quattro risate con questo simpaticone."

"Ok,capo!"


Kate, così si chiamava la ragazza, continuò il suo lavoro come ogni giorno tra le scartoffie da ordinare e gli appuntamenti da prendere fino alle sei .. e come sempre prima di andare passò dall'ufficio del direttore a vedere se c'erano delle novità. Entrò, al solito senza bussare, e trovò Rick immerso tra i fogli pieni di schizzi e carico d'euforia.

"Oddio, che ti succede?" gli chiese lei.

"Non puoi capire. Non puoi capire. Abbiamo risolto tutti i nostri problemi. Se questa va in porto abbiamo lavoro almeno per i prossimi 2000 anni! Quello di prima era DAVVERO il Papa! Vogliono un prospetto per una campagna su un loro tema. Ma ti rendi conto? Ho ricevuto il brief direttamente dal Papa!"

"oh,Porcaputtana! E adesso?"

"Intanto evita questo linguaggio .. siamo l'agenzia del Clero!" e scoppiò in una risata fragorosa ed isterica.

"Senti,Rick, io vado a casa tanto qui non ti servo. Quando ci vediamo con sua santità?"

"Domattina."

"Cosa? E io come faccio a sistemare l'agenzia? E soprattutto, come fai tui senza il tuo copy?"

"Senti, Kate. Mi arrangerò.. è un'occasione che non possiamo perdere. Adesso vai e lasciami concentrare che alle alle dieci di domattina arriva la delegazione dal Vaticano."

Kate se ne andò e lo lasciò alla sua isterica euforia. Ma nessuno dei due dormì quella notte.

La mattina dopo Kate alle 7 era già in ufficio: lavò i pavimenti, sistemò tutto ed ordinò la sala riunioni .. che di lì a poche ore sarebbe stato il"campo di battaglia" in cui combattere la crociata. Finita la sessione di pulizie, provò ad aprire la porta dell'ufficio di Rick per dare un spolveratina, ma la trovò chiusa. Temeva che quel cretino avesse lavorato tutta la notte e si fosse addormentato li dentro il che avrebbe significato un direttore creativo impresentabile. E invece dopo dopo arrivò con il pc sotto il braccio ed in mano una cartellina piena cartoncini sui quali era spiegato lo storyboard.

"Ciao Kate. Io vado in ufficio a ripassare.. tu sistema tutto poi quando arrivano stacca il centralino e vieni in sala riunioni con me. Devi essere la mia assistente, dato che il nostro copy è in ferie e io mi sono fatto tutto da solo."

"Bene,Rick .. come vuoi."

Passarono le ore senza che se ne accorgessero ed alle 9.55 precise suonò il campanello dell'agenzia. Kate andò ad aprire con una naturalezza mal dissimulata e fece accomodare Papa, Vicepapa e guardie del corpo in sala riunioni, dove Rick li stava già aspettando. Lei staccò il centralino e si infilò in sala.

Rick stava illustrando alle loro Santità lo storyboard dello spot che gli avevano commissionato. "Cazzo - penso lei- Rick è proprio un genio quando ci si mette ..". Lo spot che Rick aveva inventato e stava raccontando non aveva parole ma comunicava benissimo con le immagini il messaggio che il clero voleva comunicare: la castità prematrimoniale.

Ora mancava solo il claim finale, la frase ad effetto, la chiusura di quello spot così perfetto.. Rick non poteva sbagliare. Kate sapeva però che lui non etra un copy, non era esattemente un maestro con le parole quindi incrociò strattissimamente le dita perchè Rick stava arrivando alla fine della sua presentazione.

"Ed ecco a voi, Santità- stava dicendo Rick proprio in quel momento- lo spot si chiude poi con l'ultimo fotogramma: sfondo nero ed il claim:

"Anche prendendo le dovute precauzioni, un rischio c'è sempre. Scegli la strada della castità."

Il Papa rimase in silenzio ed annuì. Gli era piaciuto. Quando se ne andarono i prelati Kate e Rick si abbracciarono. Lei si complimentò con lui ma non potè fare a meno di chiedergli: "Ma da dove cazzo hai tirato fuori una claim del genere!?"

Lui le rispose: "Beh,era una vecchia idea per una campagna .. che quelli della Durex mi avevano bocciato!"

Primo raccontino

“Non c’è nulla da temere dall’ignoto”.
L’uomo continuava a ripeterselo mentre procedeva da solo lungo il ciglio della strada.
Camminava all’indietro, in modo da poter vedere le vetture che giungevano e poter così esibire in tempo il pollice alzato.
Cercava qualcuno che gli offrisse un passaggio.
La destinazione non aveva importanza.
La sola cosa che importava era la persona che l’avrebbe accolto in macchina, perché quella persona sarebbe stata la sua prossima vittima.
L’uomo era un assassino.

Un tempo, quando era ancora ragazzo, le parti erano invertite.
Lui era quello che guidava, e le sue vittime gli ignari autostoppisti.
Ma le cose non potevano funzionare in quel modo.
Anzitutto non era mai certo di trovare qualcuno bisognoso di un passaggio, e i suoi bisogni non potevano attenersi al caso.
Inoltre, anche se si prometteva sempre di non ricascarci, stando alla guida aveva modo di effettuare una selezione sulle sue prede.
Gli autostoppisti a lato della strada sfilavano davanti a lui come pietanze sul banco self-service di un ristorante, e lui poteva sempre scegliere ciò che preferiva: dolce o salato, uomo o donna, carne o verdura, giovane o vecchio.
In questo modo però si era ridotto, nel corso degli anni, a scegliere sempre la stessa tipologia di individui, che risultava ormai quasi una pietanza insipida.
Ormai era diventata una noiosa routine.
Quella notte, quindi, aveva deciso di cambiare, di cercare una nuova emozione, mettendosi nei panni di quella che solitamente era la sua preda.
Si sarebbe aspettato di essere spaventato, ma non lo era.
Provava solo una lieve euforia.
D’altronde, si ripeteva, non c’era nulla da temere dall’ignoto.

Finalmente un’auto si fermò accanto a lui.
“Dove stai andando?” chiese il ragazzo alla guida.
L’uomo lo guardò. Aveva un aria familiare, dove l’aveva già visto? “Vado dove vai tu”.
“Ok, allora salta su” disse il ragazzo aprendogli la portiera.

Il principio alla base dell’autostoppismo è la fiducia reciproca. Chi accoglie uno sconosciuto nella sua auto non può sapere quali siano le sue reali intenzioni, ma allo stesso modo anche la persona che sale ignora quelle del conducente.

Non appena la macchina ripartì l’uomo si mise a osservare il ragazzo al suo fianco, la sua prossima vittima.
Doveva avere circa vent’anni, ed aveva una corporatura simile alla sua. Ma sopraffarlo non sarebbe stato un problema: lui aveva dalla sua l’esperienza.
Quello che lo turbava era l’idea di averlo già visto da qualche parte. Dove poteva averlo già incontrato?
Pensò che negli anni aveva viaggiato in lungo e in largo per la nazione, e quindi era facile che il volto gli ricordasse qualcuno che aveva conosciuto.
Ma no, non poteva essere quella la spiegazione. Il ragazzo aveva un’aria troppo familiare, sembrava un amico, un fratello perduto.
Malgrado questi dubbi, si disse, doveva procedere, doveva portare avanti il suo intento. Arrivati a questo punto doveva solo convincere il ragazzo ad accostare con la scusa di prendere qualcosa dalla borsa che aveva messo nel bagagliaio, poi l’avrebbe convinto a uscire dall’auto e…

Ma proprio mentre rifletteva sul da farsi si rese conto che il ragazzo alla guida era uscito dalla strada principale per imboccare una via secondaria. Poco dopo abbandonò anche quella strada per prenderne una sterrata, ed infine si fermò in un luogo isolato.
L’uomo non capiva perché il ragazzo avesse fatto ciò, ma si disse che era un problema in meno per lui.
D’un tratto il ragazzo scese dall’auto.
Perché l’aveva fatto?
Non aveva importanza, pensò l’uomo scendendo a sua volta.
Era giunto il momento di compiere l’ennesimo omicidio.

Si girò verso il ragazzo, ma proprio mentre stava per fare la sua mossa lui lo precedette.
L’uomo ebbe solo un attimo per vederlo, per vedere lo stesso sguardo folle che anche lui riservava alla sue vittime prima di aggredirle, poi il ragazzo si lanciò su di lui.
Con un movimento istintivo si scansò, e rapidamente si voltò per vedere il suo aggressore.
Il ragazzo stava di fronte a lui con in mano un coltello.
Voleva uccidere.

I due iniziarono a lottare, ma in breve l’uomo ebbe la meglio sul ragazzo. Gli strappò il coltello di mano e glielo puntò al petto.
Il ragazzo lo guardo disperato, e finalmente il suo volto fu a una distanza tale da essere riconoscibile.
Quel volto, l’uomo l’aveva visto ogni volta che si era guardato allo specchio.
Quel volto era il suo.
Quel ragazzo era lui.
Era lui da giovane.
E ora si divincolava sotto di lui.
Non poteva ucciderlo.
Che ne sarebbe stato di lui se avesse ucciso il sé stesso del passato?
“Non c’è nulla da temere dall’ignoto” si disse.
E affondò la lama nel petto del ragazzo.