L'incipit della settimana

ELABORATO TESTUALE DI TOT PAROLE: "L'antico vaso andava salvato"
STRINGA AUDIOVISUALE DIGITALE PROVENIENTE DA QUALCHE SERVER: "Youtube"
RETTANGOL CARTPLASTIC CONN'IMMAGIN STAMPAT QUAS BEN:"Perdita di tempo"
Ctrl+c, Ctrl+v, STAMP-E-PORT-LE-FOGL:"Glutammati sto sodio"

lunedì 28 febbraio 2011

C'era una volta Amal

C'era una volta: il futuro. C'era una volta Speranza, la traduzione italiana del suo nome arabo: Amal. C'era una volta la libertà di vivere nel proprio paese, senza rischiare la vita. C'era una volta la volontà di uguaglianza, invece che discriminazione, isolamento, tortura, morte. C'era una volta, ormai tanto tempo fa, un mondo bello, pulito, in cui tutto il creato viveva in perfetta armonia.

Amal improvvisamente si risvegliò dal suo sogno ad occhi aperti, sbatté leggermente le palpebre, come a dimostrarsi che fosse ancora sveglia. Era ormai un po' di tempo che faceva questi pensieri, come se la sua vita avesse superato una sorta di punto di non ritorno. Molte volte si fissava a guardare il vecchio signore che accudiva, acciaccato e stanco, sul cui viso le rughe sembrava avessero preso il sopravvento sulle espressioni.
Salutò il signore con un cenno della mano, poteva andare a casa ora. Doveva prendere due metro ed un autobus per arrivarci. Quando passava per quei posti affollati le persone la guardavano. Sarà stato per il colore della sua pelle o per il chador che portava sul capo ma era diversa. Tutte le volte che vedeva quella gente pensava ai sogni che aveva abbandonato lasciando il suo paese sfigurato dalle guerre. Si sentiva intrappolata in una vita vuota, fatta ogni giorno degli stessi tragitti che non le appartenevano, vedendo le stesse persone che non la capivano. A volte, questa oppressione diventava fisica, da toglierle il fiato. Pensò che la sua vita, come l'aveva sognata da bambina, era ormai un ricordo lontano.

“Domani sarà un altro giorno” disse sommessamente.

Tutte le storie che iniziano con “C'era una volta” hanno un lieto fine o una morale. Questa no. C'era una volta il futuro. Ora non più.

La bellissima (e nobile) e il povero

C’era una volta in un regno, che ora difficilmente si riuscirebbe a collocare su di un’odierna cartina geografica, una principessa.
La sua bellezza e la sua bontà d’animo furono così leggendarie, che ad oggi, vengono ancora narrate e oralmente tramandate di padre in figlio.
Tale immensità, però a fatto in modo che alcuni tratti di questa persona siano andati perduti.
Perduto risulta infatti, il suo nome.
Chiaro invece è di fatto, la vicenda che lega lei al suo amato.
Di seguito la vicenda.

Quando ancora era poco più che tredicenne, la bellissima principessa fece un sogno che cambiò la sua vita.
Ella sognò di un giovane. Bellissimo e gentil d’animo.
Appena fu sveglia la giovane donna chiamò a se il pittore di corte affinche, seguendo la sua descrizione, disegnasse un ritratto, il più fedele possibile, del suo amore.
La principessa rimase chiusa nelle sue stanze con il pittore per 40 giorni, nei queli l’artista, tra i più rinomati e conosciuti dell’epoca, fece su descrizione della nobil donna, piu di 100 ritratti.
E se il secondo risultava una miglioramento rispetto al primo, cosi come il terzo sul secondo e così via, potete ben immaginare la perfezione ritrattistica del centesimo dipinto.
La principessa allora visibilmente soddisfatta ringraziato a dovere il pittore, fece eseguire quattro copie del ritratto e le diede ad altrettanti messaggeri.
I quattro messi, scelti tra i più fedeli e abili dal Re in persona, partirono per i quattro punti cardinali del mondo con la missione di trovare tale uomo entro il diciottesimo anno d’età della principessa, giorno in cui lei si sarebbe dovuta sposare.
Le quattro stafette partirono con i cavalli più veloci del regno.
Intanto gli anni passavano e l’innocente principessa aspettava.
Dopo quattro anni arrivò il primo messaggero.
Non l’aveva trovato.
Così anche il secondo e il terzo dopo pochi mesi.
Quando mancavano solo poche ore all’alba del giorno del diciottesimo compleanno della principessa, il quarto messo arrivò.
Portava un uomo con se.
Portava quell’uomo. Il frutto di anni di ricerche.
Il giovane in questione era in effetti un uomo molto bello. Era però di umilissime origini e così dedito al lavoro da non essere mai venuto a conoscenza della disperata ricerca della principessa.
Quando la mattina seguente fu portato a cospetto della donna ella scoppiò in lacrime…lo guardò e pianse per ore. Lo aveva riconosciuto, bello, gentil d’animo..poco le importava se era di umili origini e poco importava pure al Re, suo padre, il quale non vedeva sua figlia sorridere da cinque anni oramai.

La principessa disse allora al giovane uomo: “E’ una vita che ti aspetto…dentro di me è eplosa la primavera, dopo un lungo autunno che mi stava uccidendo…finalmente ritorno ad amare, a sorridere… resta con me tutta la vita, divieni Re e mio sposo.”

Lui alzò lo sguardo e i suoi occhi incrociarono le stupende perle azzurre della bellissima principessa.
Allora la sua espressione mutò. La serietà, aveva lasciato spazio ad un sorriso e per la prima volta parlò dicendo:

“No”.

venerdì 25 febbraio 2011

L'illustre negozio

Il canto del gallo di paglia. Entrai. La stanza era la solita, oggetti ovunque in un disordine perfetto, libri accatastati, una pipa mai fumata, un tappeto rattrappito e infreddolito dal tempo.. e lui sempre al solito posto, alla solita sedia in vimini di chissà quale epoca e storia.
Mi piaceva andare a trovare quel vecchio perchè era proprio come vorresti che fosse un vecchio, affascinante, enigmatico e burbero, con la barba bianca e gli occhi azzurri, lo sguardo vivo e le membra morte.
Mi avvicinai quasi saltellando, pronto a sentire la nuova storia di oggi. Il vecchio mi gelò in un istante, come se con i miei passi avessi bloccato il suo illustre pensiero. Il vecchio era lunatico come tutti i vecchi e quindi ben presto mi pentì di essere entrato così spensierato, senza le dovute cautele del caso. Ma ancora una volta mi sbagliai, col vecchio questa era una cosa normale. Lui continuò a guardarmi e borbottò "stupidello di un finto adulto, siediti, fammi una carità e ascolta. quante volte sei stato qui?? No non rispondere, fammi una carità, te lo dico io. almeno 50, le ho segnate su quel legno laggiù! e porca la madonna ti sei mai chiesto cosa vende il mio negozio??! il famigerato negozio il canto del gallo di paglia? certo che no, poveretto mio piccolo uomo.
Io vendo idee. Ma nessuno ormai vuole comprarle, quindi ora mi tocca regalarle, ne ho così tante che se non le racconto mi scoppia la testa. Le mie non sono storie ma idee giovinastro. Quindi siediti e ascolta. Questa è la madre delle mie idee. Ci sono due generazioni di giovani: una che crede che il canto del gallo di paglia sia solo il suono del pupazzo di legno e paglia sulla mensola d'entrata di questo illustre negozio, un'altra che lo sente tutte le mattine, che apre gli occhi e sa che ormai è diventato adulto e le parole pericolosamente rischiano di diventare realtà. Che si indigna e fa del bene comune il proprio, che scruta nei vicini dei nuovi compagni di battaglia. la seconda generazione suona musica davvero,balla la vita ogni giorno e non smette mai di sognare perchè sa cosa vuole raggiungere. la seconda generazione si reinventa ogni giorno e si mette in discussione, cade, ride e piange ad alta voce, guarda indietro per non cadere in avanti e sorride con forza. L'altra generazione ha troppi impegni per svegliarsi e una coltre di ruggine le cade addosso ogni volta che fa un passo finchè non sarà solo un cumulo di se stessa. Questi dicono che il tempo è denaro, che di tempo ce ne è poco e bisogna correre, non importa dove ma correre e realizzarsi e pensare a se stessi perchè noi siamo la cosa più importante. La discussione è lontana e le chiacchiere scialbe sono costanti, il chiacchiericcio è bibbia e la noia giorno.
Ragazzo, sei arrivato al bivio. solo ora puoi scegliere cosa diventare. sei grande abbastanza per diventare adulto. Ora esci da questo negozio e torna solo se sentirai gridare il gallo di paglia"

Il ragazzo uscì, sentì un forte urlo, si guardò intorno, non capiva se proveniva da se o dall'esterno. si voltò e chiese: voi lo sentite?

lunedì 21 febbraio 2011

Il gallo rivelatore

Il seguente racconto si pone come modesto finale integrativo del racconto "Il cuore rivelatore" di E. Allan Poe.

Quella volta l'avevo sentito distintamente, era il canto di quel dannato gallo di paglia che da anni giaceva sulla mia credenza impolverata. Come avevo detto ai medici blateranti che mi tenevano in cura all'ospedale psichiatrico, io non sono pazzo, il mio udito è solo diventato più sensibile e riesco a sentire cose che altri non sentono. Il perché avessi ucciso quel vecchio avvocato lo sapete, era a causa del suo maledettissimo occhio vitreo che non riuscivo più a sopportare. La prima comparsa di questo insano potere la ebbi quando la polizia entrò rumorosamente in casa mia, chiamata da un vicino spaventato dalle urla gracchianti. In quel momento non sapevo ancora che i due tutori dell'ordine non potessero sentire quello che stavo sentendo io, il cuore di quel vecchio pulsare ancora sotto le assi scricchiolanti del pavimento. Mi portarono davanti al giudice, il quale decise che la mia condanna potesse essere la cura in manicomio fino al completo rientro delle mie facoltà mentali. Poveri stolti, mi hanno evitato la prigione e il manicomio mi ha rilasciato dopo soli tre mesi.

Quel gallo però... Il gallo non poteva cantare, era una scultura inanimata di paglia che mai avrei pensato potesse fare di più che scolorire negli anni e lasciarsi depositare la polvere. In quel momento, un esplosione di suoni iniziò nella mia testa la quale cominciò a farmi veramente male. Questo coltello di suoni mi tagliuzzava il cervello ed ogni volta che giravo lo sguardo verso un oggetto esso iniziava ad emettere un rumore. Cominciavo a sentire così tanti dolori che quasi individuai la porzione di cervello che li emetteva. Un'idea malsana si fece spazio fra tutto quel frastuono, dovevo toglierla. Aprii il cassetto della cucina e ne estrassi il rompighiaccio più lungo e affilato che possedevo, cercai davanti allo specchio di prendere la mira, ma....

In quel momento mi svegliai, capii che ero stato anestetizzato, mi trovavo nel manicomio, e ora tutto era chiaro. A seguito dell'omicidio del vecchio il giudice decise per una lobotomia, che era proprio quello che i medici stavano eseguendo su di me in quel momento. Probabilmente questo sarà l'ultimo mio pensiero logico, purtroppo però non riesco a distogliere l'attenzione dal rumore intollerabile degli oggetti di quella stanza.

UPDATE: Mi sono accorto di aver citato involontariamente la famosa scena di un meno famoso film http://www.youtube.com/watch?v=aulRoQTK5HY

L'addio

Il canto del gallo di paglia. Lo aveva sentito distintamente nella sua testa.
E’ il segnale.
Fu il vecchio Lin che gli parlò per la prima volta del gallo di paglia. Marco gli aveva chiesto quando sarebbe stato il momento più opportuno per lasciare la Cina. “Quando nella tua testa sentirai cantare il Gallo di Paglia. Allora sarà il momento.”
Quindi era il momento.
Sarebbe tornato a casa. A Venezia.
Dopo 17 anni.
E’ l’alba, del suo ultimo giorno in Cina. Entro il tramonto sarebbe partito. Non c’è quindi tempo da perdere. Il tempo di lavarsi e prepararsi per la colazione con Kublai Khan. Forse troverà il tempo per scrivere una o due pagine sul suo diario. Prima di lasciare le sue stanze.
Ora si guarda allo specchio. E come se fosse la prima volta da 17 anni. Si vede diverso. “Mi riconosceranno a casa?” e poi “Non vale la pena scrivere per avvisare, arriverei comunque prima della mia lettera”.
Si infila i vestiti con cui è arrivato. 17 anni fa. Li sente scomodi e rigidi in confronto alle pregiate sete orientali che ormai era abituato ad indossare.
Scende per la colazione, come ogni giorno Kublai Khan lo sta attendendo.
Come ogni giorno lo accoglie con un sorriso.
Come ogni giorno.

“Kublai Khan”
“Buongiorno”
“Buongiorno”
“Kublai Khan, amico”
“Ti ascolto, parla”
“Entro il tramonto, carissimo, io sarò partito.”
Silenzio. Breve. Ma pur sempre silenzio.
“Capisco, torni alla tua amata Venezia”
“Si”
“Temevo questo momento. L’ho sempre temuto. Ogni mattina nascondevo la mia paura. Dietro un sorriso.”
“Non so che dirti, il tempo mi ha rapito, la magia di questo posto. L’odore. Di tutto. Lo senti?”
Un silenzio che vale un si, forse un no. Non importa.
“Il tempo non ci riguarda Marco.”
“Lo so. Il tempo non ci riguarda ormai, ne me, ne te. Ma l’uomo appartiene al tempo. E noi siamo uomini.”
“Noi siamo dei Marco. Per alcuni lo siamo. Ho sudditi che fanno sacrifici in mio onore. E gli dei? Anche loro hanno i loro dei. E così via.”
“Kublai, noi non siamo dei. I tuoi sudditi si nutrono di speranze e non ci sono divinità o misteri in grado di sfuggire al tempo. E’ impossibile. Ogni epoca rincorre la sua porzione di ignoto. I nostri antenati pregavano il dio fuoco. Noi i confini del mondo. Un latino diceva Il tempo libera l'uomo dagli affanni.”
Silenzio. Ancora.
“Tornerai?”
“Non credo”
“Che lo spirito di Gengis Khan ti accompagni allora.”
“Ti ringrazio”
Silenzio.
“Non proverò nemmeno a comprare la tua presenza qui. Anche se la desidero sopra ogni cosa, amico.”
“Mi conosci bene”
Silenzio. L’ennesimo. Gli occhi parlano. E non servono orecchie per sentire.
“Lascia solo che ti chieda una cosa uomo di poche parole.”
Silenzio, di Marco stavolta.
“Tu che hai fatto del viaggio la tua vocazione, dove sono i confini del mondo che tanto rincorri?”
“Non è dato saperlo.

Non è dato saperlo.
Almeno non ancora”

domenica 13 febbraio 2011

petra senza virgilo

La persona che odio di più al circolo infernale è un mago dai lineamenti concavi e dal naso convesso..” Petra iniziò così la seduta dal dottor Orlandi.

Lo svuotamento narrativo dei sogni di Petra ormai aveva preso una piega consuetudinaria.

Ogni martedì , dalle 18 alle 19, in via Zanari, ufficio del dottor Orlandi, primo campanello a destra.

Sotto l'influsso dei convincimenti minacciosi della madre, Petra aveva iniziato a frequentare lo studio del dottore ormai da più di due anni.

Non che lei avesse mai dimostrato squilibri psicologici eccessivi, ultime parole definitive di una giovane vita, tagli ai polsi... no no quello mai.

La madre aveva razionalizzato le emissioni sensoriali di Petra in maniera affrettata, quasi con la stessa volgarità di qui osanna il ruolo catartico della psicologia ..quale materia addetta alla cura di anime perse, un po' scivolose dal concreto. Questo ridurre a normalità ogni divergenza emotiva, questo compito di imbrigliare le manifestazioni del diverso, a Petra stava proprio sui nervi. E poi, si chiedeva, che cos'è mai questa normalità a cui tendere?

Per stanchezza e per rinuncia, Petra rese la madre tranquilla, e iniziò gli incontri.

In realtà Petra sapeva la causa del suo mancato inserimento nel “normale”. Si trattava del suo amplificatore emozionale interno che la portava a crisi di panico improvvise, e poi c'era la sua ossessione per i dettagli. Lei si definiva un osservatrice eccellente, scienziata dei visi, esponente illustre della cultura del dettaglio.

L' incrinazione di una bocca, i tagli del freddo sulle mani, il battito delle ciglia, le parole sbrodolate.. si fissava sempre sull'invisibile, mentre fuori dai suoi occhi si stendeva una massa atomica, confusa, intorcigliata e piacevolmente multiforme.

La persona che odio di più del circolo infernale è quel mago, tutto avvolto nel suo mantello..” riprese Petra.

il mio sogno inizia sempre con quella figura di gomma, un immagine non fotografica.. sospesa tra argini di fuoco. Alle piante dei suoi piedi ci sono anime infernali che ruotano velocissime che si graffiano le guance, aggrappati alle loro pene.”

Che sentimenti vivi in quelle riprese?” interviene il dottore snocciolando le dita.

Non provo paura perchè i miei occhi sono la cinepresa e vedo tutto per mezzo di una lente. Ma sento l'inquietudine di chi sta progettando una fuga da un luogo di malessere..tutto è ovattato nell'onirico.”

Petra arrotola i pensieri con fatica ( odia le interruzioni) e riprende il filo:
“non mi soffermo molto dinnanzi a quel mago.

Sebbene l'odio e l'amore siano i sentimenti più difficili da adottare, sento una repulsione aggressiva. Mi allontano, Muovo i passi poco più in là inserendomi nel circolo del purgatorio. Qui sono tutti più instabili, condannati a non sapere la durata del loro soggiorno. Ne carni, ne pesci. Hanno i visi tagliati a metà da una linea netta che spartisce la luce e il buio. Sto vivendo l'iter dantesco senza nessun Virgilio. Sono scossa ma curiosa. Provo ad interrogare un anima ma mi rendo conto che non posso comunicare, che sono invisibile a loro.

Non esiste la misura temporale dei sogni, non ricordo quanto rimasi in osservazione.”

Il dottore incalza: “ Riconosci dei volti del tuo quotidiano tra quelle maschere?”

No.. mi appaiono come fluidi senza riconoscimento. Poi la scena cambia e ad un tratto entro in una bolla bianca. Mi siedo sotto una quercia di candele e ritraggo il benessere. Una schiera di donne lunghe, alte, austere, protese verso l'alto. Sono belle. Sento il succo dolce di mela nel palato. Risuona alle pareti una melodia lenta di un pianoforte spogliato di dita...”Petra sospira.

L'ora della seduta risucchia gli ultimi minuti. Il dottore si accinge all'operazione di decodificare interiormente le risultanze del sogno. Rispetta l'accordo di Petra, la quale si era assicurata fin dal principio di rimanere immune dalle opinioni del dottore.

Arrivederci” Petra saluta con il cappotto in mano già sull'uscio.

Cavalca il marciapiedi verso casa. Migliaia di dettagli si incamerano nei suoi fori encefalici. Raschia le tempie con della tempera gialla e si rende conto di non poter pretendere nessuna coerenza finale.

La pretesa di comunicare ciò che è immune da comunicazione è opera degli ingenui più nobili e dei sognatori più impavidi.

Il punto alla fine di un discorso non è mai pensabile.

Siamo tutti ritratti verso l'interno, almeno nel tempo libero

martedì 8 febbraio 2011

Sedici scarpe non bastano

Stavo pensando alle mie scarpe, sedici, per la precisione. Ognuna di esse, non necessariamente appaiata, rappresenta parte della mia vita. Non so precisamente quando nacque questa sciocca tradizione, ma le più vecchie che possiedo le conservarono i miei genitori, erano le scarpe dei miei primi passi. Da quel momento ogni fase importante della mia vita fu contraddistinta dall'acquisto di un paio di scarpe. Alcune ora sono vecchie e maleodoranti, come quelle che usavo per il calcetto con gli amici, altre ancora lustre e profumate di pulito, come quelle che indossai il giorno della mia laurea. Ma le scarpe a cui sono tutt'ora più affezionato sono quelle che indossavo al nostro primo appuntamento. Mi ricordo quel giorno come se fosse ieri, io avevo passato tutto il pomeriggio a prepararmi, stirando e ristirando i vestiti. Avevo la testa da un altra parte quella sera, perché sebbene piovesse avevo dimenticato l'ombrello. Ti vidi arrivare da lontano, con i tuoi fluenti capelli mossi leggermente bagnati, anche tu l'avevi dimenticato. Improvvisai una riparo con l'ormai fradicio giornale che portavo sotto il braccio e tu mi spiegasti che eri sovrappensiero in attesa di vedermi. Fu una serata bellissima, come si vedono soltanto nei film, eravamo talmente felici che non ci accorgemmo dei vestiti bagnati e delle mie scarpe, talmente maltrattate dalle avverse condizioni del tempo che iniziavano a scolorire. Quell'insulsa collezione di scarpe mi aiuta a ricordare tutte le fasi del nostro rapporto, dal nostro matrimonio fino alla nascita del nostro bambino.

La scarpa però che mi provoca più sofferenza in assoluto è quella che indosso quest'oggi mentre ti do l'estremo saluto.

Questa è la scarpa che indossavo quando scoprimmo della tua malattia, e quando i dottori ci dissero che la medicina non è ancora pronta a questo tipo di malattie. Sarei falso se ti dicessi che future scarpe non mi potranno ricordare momenti belli, ma ciò che ti posso assicurare è che la tua scarpa di quella serata piovosa rimarrà per sempre fra le mie.

pazzia scarpolina domenicale. [prova anche tu].

Se dici scarpe, non importa che siano sedici, né tanto meno che siano appartenenti al nutellone di Nanni Moretti, se dici scarpe dici semplicemente scarpe. S c a r p e. Ok. Visto il panorama storico nel quale siamo inseriti, ovvero 1111 d.C., si dice scarputum scarputis. Banalità. Wendy raccontava storie. Wendy soffiava agl’alberi. Wendy sapeva già di Nanni Moretti, di Michael Gorbaciov e delle degustazioni di salumi e formaggi in Valtellina. Il dentifricio, ovviamente (se non per bischerate della storia) , non esisteva. Ma Wendy odiava le persone che premono il tubetto del dentifricio dal basso. Era un’assassina di bussole; considerava l’incertezza storica uno stato lirico. Per questo ci navigava, nel tempo dico, nel per cursus ancestrale. La voce del villaggio starnutiva illeciti amori di Wendy con gl’alberi, sostenendo che l’orecchio della giovine era la meta delle radici della flora. Poco importano queste dicerie: la carne astorica sorrideva e solleticava, potente ammaliatrice di storie. Raccoglieva uditi e ascolti come si possono raccogliere le margherite in un prato di margherite in piena stagione primaverile. Ed è così che un giorno, di totale libero cazzeggio nerd, successe:

Avanti, stop, avanti, alt, stop, avanti, stop, avanti, alt, stop, indietro. L’esercito vile, ondeggiante, le mascelle aperte, serrate, gli standard. Il piccolo uomo a colpi precisi di lingua lecca un minuscolo poligono intorno alle scarpe di Superman. Era sulla collina, era maggio, e nelle vigne in fiore si muovevano delicati i viticci come serpentelli microscopici verde chiaro. E il vecchio si tuffava lasciando fuori la coda bifida e poi si girava a gambe all’aria dentro la schiuma mostrando i capezzoli ricoperti di peli grigi e le pieghe della pancia e l’ acqua gli colava dalla barba perfettamente rasata e dalle sopraciglia fatte. E lui sghignazzava.

martedì 1 febbraio 2011

Il circolo d'incastro.

La persona che odio di più al circolo è la numero 307. E’ incredibile ogni qual volta che si esce insieme cercano di metterci vicini, esterne mani urtano nel convincimento d’incastro di anime, ma nulla. Niente che io abbia contro il numero 307 ma la condizione della forzatura associativa me lo rende completamente ostile. Nella mia esistenza già infelici accostamenti di altri numeri erano stati provati ma la serialità dei tentativi sventurati del 307 occupano primati spaventosi.

307 è un amante maldestro e insistente. Essendo pur lui appartenente al cielo, vanta di tonalità e sfumature equiparabili al mio modo di apparire, ma la sua non armonia nello scardinamento dei miei angoli, l’insensibilità per le mie curve e la voglia di riempimento disonesto delle mie cavità accentuano in me sentimenti di odio e disprezzo.

307 ha la capacità solo di vedere la mia totalità e non la mia tipicità: solo pochi amanti notano il mio voler essere terra, solo pochi altri del circolo si concordano con la coda della mia sinuosità che parla di sabbia.

307 tende al bigottismo primitivo incurante della mia marginalità, nonostante anche lui abbia problemi d’integrazione con la totalità.

307 non è una persona, vi ho mentito. 307 è una tessera: è la tessera del puzzle di cui faccio parte. Un puzzle di 450 pezzi, sulla quale scatola v’è scritto ‘Il circolo’.