L'incipit della settimana

ELABORATO TESTUALE DI TOT PAROLE: "L'antico vaso andava salvato"
STRINGA AUDIOVISUALE DIGITALE PROVENIENTE DA QUALCHE SERVER: "Youtube"
RETTANGOL CARTPLASTIC CONN'IMMAGIN STAMPAT QUAS BEN:"Perdita di tempo"
Ctrl+c, Ctrl+v, STAMP-E-PORT-LE-FOGL:"Glutammati sto sodio"

lunedì 29 agosto 2011

buon non compleanno

Cappello imbarazzante, 40 gradi e mancano ancora tre km
Tre km all’arrivo, tre km di sfide, tre km alla meta, tre km che sembran una vita
tre km son lunghi se sei una formichina o un piccolo bimbo.
Il tutto si misura in un minuto, in un attimo, in un tempo
Il tempo di un anno, il ricordo in un secondo.
La casetta è quella dell’albero e ci si entra con la parola magica. Si può essere in tanti o pochi ma ognuno deve portare il proprio cappello imbarazzante. Non ci son regole, ne restrizioni, si litiga per chi ha fatto cadere la palla, per chi deve andarla a prendere, per chi inizia a carte e chi versa il the. Si ride per le facce buffe e si sognano paesi con nomi strani. Qualcuno saluta con la manina. Dovrà partire per luoghi magici, altri invece torneranno tutte le domeniche e altri saranno sempre li ad aprire la casetta del pesco. La casetta è piccina ma abbastanza grande per le parole e le canzoni. E tutti i bimbi sono accetti anche i più vecchi.
È bastata un’idea, e in poco tempo il tutto si è concretizzato.

Mi sento una bimba fortunata. Oggi è il nostro buon non compleanno e, chi più chi meno, stiamo girando ancor tutti nella maratonda. Dove non c’è nessun che stia avanti o indietro.


L'importante è il viaggio

Cappello imbarazzante, 40 gradi e mancavano ancora 3 km. Giorgio, Piero e Antonio si erano coperti sotto larghe tese di cappelli improvvisati dalla straziante calura di quelle giornate. Giorgio procedeva davanti ai due, in sella alla sua costosa bicicletta sistemata a puntino, con lo sguardo fiero. Gli altri lo seguivano su sgangherate bici di seconda mano che parevano aver subito la prima guerra mondiale. La polvere sollevata dal primo riempiva gli occhi degli altri che spurgavano lacrime lattiginose. Antonio tossiva, fumando la sua ennesima sigaretta. “Non c'è tempo per fermarsi” gli avevano detto “dobbiamo arrivare a destinazione”. I tre ragazzi, partiti alcuni giorni prima all'avventura con il loro mezzo di trasporto a due ruote, avevano percorso ormai centinaia di chilometri. Il primo giorno avevano attraversato una grande pianura, dove il verde si perdeva a vista d'occhio. Piero aveva tirato fuori la piccola macchinetta digitale da un borsello che portava appeso sul portapacchi e aveva scattato delle fotografie all'immenso paesaggio. Piero però non era né fotografo né in grado di far funzionare un'apparecchiatura così sofisticata, infatti scoprì più tardi di averle scattate tutte con il copri-obiettivo. “Guarda lì, un aquila!” aveva gridato Antonio, attentissimo ai particolari. “Ma quale aquila d'Egitto” gli avevano risposto, “qui non è possibile vederne, non ce ne sono!”. Nessuna parola gli fece cambiare idea, rimase comunque convinto di averla vista volare in solitaria alla ricerca di una preda.
Il secondo giorno si fermarono davanti al laghetto più azzurro che avessero mai visto. Antonio fumava, come al solito, Piero fotografava senza esserne capace e Giorgio ripuliva le ruote dal fango con una piccola stecchetta di legno. Antonio e Piero lo guardarono con gli occhi sgranati. Da quando era partito, Giorgio non aveva fatto altro che pensare alla sua bicicletta. Pareva che niente lo emozionasse. Poi il terzo giorno finalmente gli occhi iniziarono a brillargli vedendo la grande metropoli nella quale si apprestavano a passare attraverso. La vista di quelle immense costruzioni che si ergevano verso il cielo, lo fecero rabbrividire pensando a dove l'uomo era riuscito ad arrivare.

Tre chilometri, ancora tre chilometri e avrebbero raggiunto la destinazione, con il loro cappello improvvisato e il caldo che cuoceva la pelle. Giorgio si levò in piedi sulla bicicletta e fece l'ultimo scatto, non ne poteva più di aspettare. Gli altri arrivarono più tardi, trovando Giorgio in piedi con le braccia distese lungo il corpo, che per la prima volta aveva appoggiato la bicicletta per terra, sul ghiaino.

“Che schifo!” disse Antonio guardando le rovine post-industriali nelle quali si erano andati a cacciare.
“Oddio, che puzza terribile!” disse l'altro odorando i liquami tossici fuoriuscire dal fondo di un barile abbandonato. Niente era così bello e affascinante come se lo immaginavano.

“L'importante è il viaggio” disse un anziano signore seduto rilassato su di una panchina. Guardava l'orizzonte con sguardo sicuro, come se non notasse l'aria squallida di quel luogo.

“Come?” gli risposero i tre, sorpresi dalla presenza di un signore così distinto, mentre ancora si turavano il naso con il pollice e l'indice della mano.

Il signore si alzò lentamente, guardò i tre ragazzi e disse: “Anch'io ero come voi. Per me l'obiettivo era tutto. Poi sono invecchiato. Vi regalo questa osservazione: la destinazione non è importante quanto il viaggio con la quale la si raggiunge. Ricordatevelo.”

I tre si guardarono l'un l'altro, con un ghigno sul volto. Si dissero sottovoce: “I vecchi ne dicono di fesserie!”.

venerdì 26 agosto 2011

in viaggio con gli occhi verdi

maledizione lo sapevo che mi avresti seguito. Adesso sali in macchina e non fiatare.

Ci mancavi pure te. Adesso siamo al completo.

La macchina era piccola, una piccola panda gialla. E stava correndo con una musica pazza verso una meta indefinita. Il conducente era il conducente, non era nè corpo nè anima, solo uno come tanti, anzi uno come tutti. Con i capelli neri, o grigi o rossi, con il naso piccolo o grande, con le mani ferme o tremanti, con la maglietta aderente o larga, verde o azzurra. E i sandali ai piedi, quelli si perchè era estate, una torrida estate. Al suo fianco una donna dai lineamenti sittili e uno sguardo deciso,, i capelli ramati lunghi fino alla vita e leggermente ricci. Le lentiggini sul naso candido e gli occchi verdi. Le mani sottili si accarezzavano il lobo dell'orecchio da cui pendeva un orecchino color oro. Il vestito era leggero, un poco stropicciato e bianco cotone fino alle caviglie da cui partivano semplici sandali castani che si incrociavano e nacondevano fra le caviglie sottili. Dietro il guidatore un ragazzino con gli occhiali scuri e gli occhi verdi, verdi anche lui. Con le mani incrociate, con lo sguardo insospettito teneva le ginocchia strette strette al petto e di volta in volta guardava fuori con fare furtivo.

la macchina si fermò a lato della strada sterrata e con una piccola franata inchiodò ai piedi della terza immagine. Un viaggiatore con lo zaino in spalla dallo sguardo furbetto, con un sorriso ammagliante e la tenda a penzoloni in una mano. Le spalle grandi di chi ne ha viste tante e non ne ha ancora abbastanza. I capelli corvini, al vento e gli occhi verdi, verdi anche lui.

"pensavo non saresti venuto" disse il conducente
La donna guardò il viaggiatore con occhi curiosi. Un forte legame c'era fra loro. Lo sentiva nell'aria. Non poteva non salire su quella macchina, pensò, non sarebbe stato lo stesso altrimenti.

Il ragazzino nel contempo non avrebbe voluto che ciò accadesse, voleva star tranquillo, con la presenzaq del viaggiatore tutto sarebbe tornato a galla. Voleva solo un viaggio tranquillo. Maledizione dissefra sè e sè.

La polvere creata dalla macchina in frenata nel frattempo si era riposta a terra e iniziò a salirte un vento tiepido che permise a tutti di respirare. un respiro di trepidazione, uno di angoscia e uno di rassegnazione.
il viaggiatore ripose la sua valigia nella panda gialla


Il conducente ripartì e sorrise. Un viaggio non era un Viaggio senza... l'Amore, la Paura e il Passato. Non avrebbe potuto liberarsi di loro, mai.

lunedì 22 agosto 2011

L'assemblea condominiale

Premessa: Il seguente DUECENTESIMO racconto non si vuole porre come incitazione alla sevizia sugli animali ma come sottile metafora della legge, divina o terrena, che spesso è inutilmente ingiusta o crudele.

“Maledizione! Lo sapevo che mi avresti seguito. Adesso sali in macchina e non fiatare!”

Assemblea di condominio, 21 agosto 2011. Vari punti all'ordine del giorno ma su uno in particolare erano tutti nervosissimi, io. All'assemblea erano accorsi ottocento sui mille millesimi di superficie abitativa che compongono l'intero stabile, tutti sul piede di guerra. Alcuni imbracciavano delle cartelline colorate, altri si erano fermati fuori a fumare, confabulando sottovoce. Arrivato l'amministratore, nominati presidente e segretario, l'assemblea era regolarmente costituita e si iniziò. In prima fila c'era il signor Pagano che durante le assemblee non aveva mai nulla da dire ma che quando incontrava qualcuno per le scale sparlava di tutti a parte della persona che aveva davanti. Poi c'era la signora Sappi, quella che “La miopia non è un difetto se l'occhiale è superchic” con appoggiati sul grembo fogli di carta finemente dattiloscritti e un piccolo codice civile versione economica. “Io porrei subito ai voti la questione del signor Arduino” disse inforcando a fondo gli occhiali. Arduino, per inciso, sarei io. “Sentiamo la questione” disse il presidente, smorzando il chiacchiericcio che si era venuto a creare intorno alla mia persona.

- “Allora, il signor Arduino, in barba a tutte le regole condominiali, tiene un animale selvaggio nella sua casa...”

- “Moderi i termini signora Sappi” dissi “selvaggio sarà suo marito che rende partecipe tutto il condominio della sua digestione, ruggendo peggio di un leone!”

Un po' ghignai sotto i miei baffi, era ovvio che quella battuta me la fossi preparata.

- “Sono d'accordo” affermò alzandosi il signor Pagano, che prima di allora non si era mai esposto “quel cane abbaia, lascia peli per le scale, disturba la quiete dell'intero condominio”

- “Mi faccia capire, ma si parla di un cane o di un cavallo?” intervenne l'amministratore “di che taglia stiamo parlando?”

Lì intervenni io. “Ma quale cavallo! Poldo è un cane talmente minuto che si potrebbe imbarcarlo in un bagaglio a mano Ryanair!”

Un condomino mai visto a quel punto sbottò: “La smetta di prendersi gioco dell'assemblea, che è sovrana, si voti subito e si starà a vedere”.

Il presidente si alzò in piedi e disse: “Bene signori, si mette ai voti la questione Arduino. Alzi la mano chi è favorevole”. Tutte mani alzate, a parte la mia.

Quelle parole risuonarono come una condanna a morte. “L'assemblea approva l'allontanamento del cane Poldo dal condominio”. Un applauso si levò dalla sala, alcuni ridevano sgraziati nel vedere il mio volto corroso dall'odio.

Tornai a casa e guardai Poldo negli occhi. “Vieni, andiamo a fare un giro” gli dissi, e lui senza porsi domande mi seguì ciecamente. Montai in macchina ed entrai in autostrada. Alla prima piazzola di sosta feci scendere il piccolo cagnetto, lo portai oltre al guard rail, in mezzo ad un campo e gli dissi “Stai fermo qui. Torno subito” e senza girarmi tornai verso la macchina. Una volta arrivato davanti allo sportello vidi una sagoma animale sul riflesso della carrozzeria, mi girai e gridai: “Maledizione! Lo sapevo che mi avresti seguito. Adesso sali in macchina e non fiatare!”

Il cane diligentemente obbedì. “L'assemblea è sovrana”, dissi, prendendo un grosso bastone dal sedile posteriore...

lunedì 15 agosto 2011

Punti di vista: velocità relative

“C'è per caso qualche legge che mi proibisca di guardare una donna?” disse Giorgio verso il suo amico che silenzioso rivolgeva lo sguardo verso l'alto, guardando la luna che filtrava fra le fronde degli alberi. Giorgio era visibilmente provato, aveva i capelli spettinati, camminava a fatica. Avrebbe ripetuto fino alla morte che era per la stanchezza, ma entrambi sapevano di aver bevuto un bicchiere di troppo quella sera. Camminavano così dipendenti uno dall'altro, mentre le ginocchia dei due si urtavano e sorreggevano a vicenda in una danza scoordinata, che ogni passo sembrava lunghissimo e cortissimo contemporaneamente. Marco, che era forse l'amico più coscienzioso che conoscesse, gli aveva risposto: “Certo che non esiste alcuna legge che te lo proibisca. Quando però guardi una ragazza come se avessi voglia di avventarti su di lei come fa il leone con la gazzella è normale che si spaventi. E se poi questa ragazza è la fidanzata di un giocatore di rugby due volte più grosso di te, è ovvio che ti becchi un pugno in faccia!”. Giorgio disse “Tze!”, sputò per terra e con la mano si accarezzò l'occhio sinistro, caldo, gonfio e livido. Quella sera pioveva leggermente, troppo poco per aprire un ombrello ma abbastanza per infastidire e bagnare i vestiti. I due camminavano ormai sincronizzati, ondulanti, si muovevano da una parte all'altra del marciapiede come se dovessero toccare tutte le mattonelle di cui era composto. Parlavano, ridevano, ripensavano alla serata. Ogni tanto Giorgio si fermava e passava un po' di pioggia fresca sull'occhio, ricevendo un piccolo sollievo. Erano lentissimi, non vedevano nemmeno la loro casa in lontananza. Avrebbero potuto metterci delle ore ad arrivarci. Ad un tratto un rumore sordo, qualcosa di piccolo che si era rotto, riecheggiò per quella vie notturne vuote. I due si fermarono di colpo e si guardarono fissi negli occhi per alcuni secondi prima di iniziare a scrutare la penombra notturna tutt'intorno. Erano davanti alla casa di Vanessa, partita pochi giorni prima per le vacanze. Che ci fossero i ladri in casa sua? Giorgio iniziò a muoversi alzando il piede dalla terra per compiere un passo, provocando un'ulteriore scricchiolio. Guardò sotto la scarpa e vide una piccola lumaca con il guscio schiacciato, ancora muoversi lentamente, per poi fermarsi, morta. Giorgio e Marco si girarono a guardarsi e scoppiarono in una fragorosa risata. “Che cosa pensavamo che fosse!” si dissero, allontanandosi alla stessa velocità a cui erano arrivati, ancora ridendo.

Billy era il più grande dei fratelli di una famiglia di gasteropodi, di lumache insomma, abitanti nel giardino della signorina Vanessa, una persona così carina che ogni giorno lasciava loro una bella foglia di lattuga fresca per sfamarli. Purtroppo era un po' che la giovane donna non si era vista, che si era dimenticata delle piccole creaturine che abitavano il suo piccolo giardino. Tutte le lumache si videro così costrette a prendere decisioni drastiche. Avrebbero dovuto lasciare quel giardino alla ricerca di fortuna altrove. “Ci vado io!” disse Billy “Partirò per questa missione lasciando voi qui, nella speranza che la nostra fonte di cibo torni”. Per Billy il mondo, fuori da quell'enorme giardino, pareva riempirsi di possibilità e di nuovi sapori da provare. Prese gli ultimi avanzi di una foglia e partì, doveva fare in fretta, la sua famiglia sarebbe morta di fame. Uscì dal giardino, si guardò intorno e notò subito che il terreno era cambiato. I grandi spazi verdi di casa sua erano ormai un ricordo lontano. Camminò molto, più veloce che poteva, quasi vedeva il paesaggio sfrecciare accanto a lui. Ad un certo punto qualcosa cadde da un enorme albero, tutto ricoperto di quelle che parevano gustosissime foglie. Doveva assaggiarle, se fossero state commestibili avrebbe portato tutta la sua famiglia a goderne. Iniziò a correre ancora più veloce, quando ad un certo punto una pressione incredibile venne esercitata sul suo guscio, da questo oggetto che rapidissimo si era avvicinato a lui. Il punto di rottura arrivò molto velocemente. Sotto il peso di questo oggetto e del suo stesso guscio, Billy si divincolava il più velocemente possibile, senza risultato. Quell'oggetto si alzò dalla sua schiena lasciandolo nudo ed agonizzante. Si guardò intorno e vide ormai vicinissima quella foglia, fonte per la sua salvezza, diventata invece la causa della sua morte.

Dio se esistesse suonerebbe la cornamusa nella Lonely Hearts Club Band del sargente Pepper

“C'è per caso qualche legge che mi proibisca di guardare una donna?”

Protestò Berto.

Il notaio lo guardò con sufficienza, misto disgusto con un pizzico di superiorità accademica.

“Certo, che vi è, nelle leggi del Signore”

Berto che si trovava alle porte del paradiso, portò ossimoricamente le braccia al cielo!

“Ma mi permetta, signor… mi permetta, io sono ateo. Cioè queste cose andrebbero dette prima…”

Il notaio divino sembrava irremovibile.

“Niente da fare. Lei non è pronto per il paradiso. Un nostro uomo la scorterà all’ascensore per l’inferno!”

Berto non poteva crederci, lui un onesto professore di arte alle scuole Medie di Pescantina sbattuto all’inferno.

Entrò in ascensore con l’energumeno celeste che lo scortava.
L’ascensore partì inesorabilmente verso il basso.

Berto provò a lamentarsi con il suo carceriere: “ Ma dico io le pare? Io sono un onesto cittadino, paga le tasse, uso la bicicletta, sono felicemente divorziato… Ma dico lei mi vede all’inferno? Sono pieno di allergie, al mare mi ustiono, sono anche gobbetto…se questa cosa di dio, inferno, paradiso, si sapesse, probabilmente i governi si sarebbero adeguati…mi avrebbero pure dato un qualche esonero, del tipo non idoneo agli inferi! E poi scusi… mi si contesta di aver guardato una donna! Ma dico, lei non ha mai guardato una donna??”

Il gigante celeste rimase impassibile, mentre Berto lo guardava con sfida: “Rimane tra me e lei...si confidi forza..”
Silenzio.
“Si ho capito, nemmeno avrà il cazzo lei, la fa facile…”
Con un gioviale tin tin di campanello l’ascensore si fermò, le porte si aprirono e come un sipario mostrarono a Berto l’atrio dell’inferno: centinaia di migliaia di persone in fila su numerosi varchi attendevano il loro turno..per cosa bene non si sa.

Berto ancora stupito trovò naturale mettersi in fila con gli atri.
Un simpatico e diabolico nanetto gli si avvicinò e con tono solenne e cantilenate gli chiese: “peccato contestato?”

“Senta mi scusi, lei che mi pare più smaliziato di quelli lassù…mi deve ascoltare, Io sono un onesto cittadino, paga le tasse, uso la bicicletta, sono felicemente divorziato… Per aver guardato una donna... se pensa che…”

“Guardato una donna! Foglio nero!”

Gli venne rilasciato un pezzo di carta di qualità con su inciso “guardato una donna”. Di un ineluttabile colore NERO.

Si guardò in torno. Davanti a lui c’era un altro peccatore che si aggirava con fare curioso per la Hall infernale.

“Eh scusi lei, peccatore, scusi, mi dica, sa qualcosa di come funziona qui? Sa sono nuovo…vabbeh tra l’altro credo anche di essere qui per errore…”

Il baffuto signore con fare cordiale parlò in siffatta maniera “ah salve! Oh, un foglio nero! Il massimo del peccato! Vediamo forse ho qualcosa per lei…frugò nella sua borsa ventiquattrore ed estrasse un peccato rosa. Oh ma è il suo giorno fortunato! Se vuole far cambio…”

Berto sempre più stupito in cuor suo, ma ormai assuefatto dalle stranezze rispose con tono da giornalaio annoiato:” beh si grazie…mi dica cosa le devo, ho forse qualche euro qui nel portafoglio…”

“si figuri, qui i soldi non hanno alcun valore…”

I due si salutarono e il baffuto scambista si rimise a girare per l’enorme atrio.

Berto girò il suo nuovo attestato di peccato e lesse “usato violenza fisica su una suora”.

“Non c’è più religione!” Si disse… “se questo è un peccato rosa…” sancì parlando come se fosse il più grande esperto di peccati.

Fatto sta che passavano le ore e si stava annoiando… Come diversivo si avvicinò ad un orchetto delle pulizie in cerca di un’informazione: “buon’orco mi indicherebbe gentilmente dove posso trovare i servizi?”

L’orco dapprima guardo negli occhi Berto poi gli si avvicino e sussurrò: “non vi è nessun bagno qui…ma so come farti uscire di qui…”

“Sarebbe meraviglioso mio caro, ma vede, la realtà è che non ho che pochi euro per pagarvi!”

L’orco rispose con fare grugnoso: “non so che farmene dei tuoi soldi, voglio il tuo attestato!”

A Berto sembrò uno scambio più che ragionevole.

Il maialetto orchetto prese l’attestato con uno sguardo misto libido-erotismo di chi in realtà sa bene dove trovare il bagno, o almeno un angolino tranquillo.

Il mostro andandosene indicò a Berto un corridoio che iniziava sul lato più corto della sala.

Berto non ci pensò due volte e ci si infilò dentro.

Berto non si rese conto di come e quando il tunnel era finito e dove era cominciata la civiltà.
Era tornato. Era vivo.

Non ci poteva credere.

Era mattina… presto. Berto felice, di essere tornato ma soprattutto di aver fregato dio e le sue leggi premedievali, si mise in cammino al lato della strada.
Dopo un’ora di cammino si ritrovò in una piazzola a lato strada…dove decise di fermarsi un attimo per riprendere fiato…in quella piazzola, bel più riposata di lui vi era una signorina dai lineamenti esotici atta a fare meretricio del proprio corpo.
Berto la salutò con un cenno della mano: “’Giorno, lei non lo sa, e forse le sembrerà una presa in giro…ma la vita è proprio bella!”

“ A me bello non sembra niente in giro, però se vuoi 20 euro facciamo bum bum”

Berto si frugò nelle tasche…”vanno bene 18?”

La bella signorina fece un sorriso a 8 denti.

Vi era intesa nell’aria.

Sulla strada tra Settimo e Pescantina intanto si aggirava un bolide germanico color senape guidato da un balordo locale che ancora ubriaco dalla sera prima sfrecciava per le strade cantando sconnesse rime su un beat sbilenco da lui stesso creato.
Entrambe le cose, le rime e il beat, gridavano in maniera lampante il fatto che tal buono a nulla non aveva nemmeno terminato le scuole medie.

“sono la vespa e le mie rime pungenti ti bucan la testa, odio le scuole medie di pescantina e voglio farmi troiettinaaaaaa!”

Fu in quel momento che il qui sopra buontempone centrò in pieno il professor Berto che redivivo stava per abbandonare la carreggiata per una siepe d’amore.
Berto fece un bel ruzzolone e cadde a terra, come corpo morto cade. Rimorendo.
Dalla siepe usci la venditrice di sentimenti urlando schifata…”ha tu uciso mio cliente!”

“Ma che vai dicendo! Aveva questo tale già usufruito della tua fica?”

“no”

“allora non ti incazzare mica! Prestazione già pagata, la prendo io volentieri. Si accomodi nel mio carro!”

LA signorina pescivendola dei cuori infranti non trovando alcuna incongruenza nel ragionamento del rapper dell’Adige sali in auto.

L’MC partì sgommando e cantando “Me ne frego dell’amoooor!”
Mentre Berto rivolava in cielo per la solita trafila.

Prima di chiudere però, volevo puntualizzare che ogni riferimento a freeriders di Pescantina è puramente casuale e che l’amore anche se ha rotto i coglioni alla fine trionfa sempre. O quasi. Ricordate che a parte tale sentimento, non c’è nulla che non si trovi nel vostro cassetto o che non si possa comprare ad un qualsiasi mercatino dell’usato.

Ps. Non sono scemo. Vedo solo tanto oltre.

E ricordatevi che odio esser preso in giro e che nessuno me la fa, altrimenti non sarei Dio da così tanto tempo.

Gli occhi dell'amore


C’è qualche legge che mi proibisca di guardare una donna?
Be caro mio non stai guardando una donna, ma la donna e forse la tua donna, se sarai bravo. Però adesso smettila dai!
Le lenzuola gialle rendevano la stanza ancora più luminosa in quella giornata estiva, l’inizio dell’estate quando si sta fino a notte fonda con le finestre aperte guardando le stelle dalle lenzuola sudate, lottando contro le zanzare e assorbendo ogni spiraglio d’aria.
Lei era sdraiata, con la pelle candida che fuoriusciva dalle lenzuola, la pelle leggermente abbronzata e un rossore sulle guance. La mano giocherellava sul materasso un po’ bitorzoluto, con le dita sottili disegnava cerchi concentrici canticchiando una melodia ad occhi chiusi. I lembi della coperta le coprivano solo il sedere e la pancia. Il seno era bello, rigoglioso, le caviglie sottili e il naso appuntito.
Lui si pose in piedi, nudo, di fronte a lei, sul lato destro del letto e la guardava con occhi assorti, quasi incantati, di un incanto invisibile ma tanto palese infondo. Il sorriso era quello ebete, tipico dell’innamorato che non sa ancora di essere tale. Ogni emozione era quadruplicata, ogni gesto era un sussulto e poi finalmente, in quel letto, tutte le paure si erano assorbite, tutto sembrava chiaro lei lui che altro sennò?
Mi prendo del succo all’arancia, ne vuoi? Posò la macchina fotografica che aveva tenuto in mano fino a quel momento per bloccare il tempo, l’attimo di perfezione e andò nell’altra stanza mentre urlava “ magari così ti rilassi un po’ e mi lasci fare qualche scatto a quel tuo corpicino...”
Lei sorrise.
Odiava essere fotografata, tanto più nuda, nel proprio letto. Ma sorrideva. Era lui che la fotografava, in fondo era un nuovo modo per fare l’amore. Una condivisione di corpi, di eternità. e poi se lui avesse vinto il concorso sarebbe una grande occasione per cambiare vita, lui finalmente con una carta in mano per diventare fotografo e lei la musa, la viaggiatrice.
Lei era li sdraiata su quello che sarebbe diventato il loro letto, luogo di giochi e amori, di risate, solletichi e pianti, grandi pianti. La loro storia sarebbe nata e finita in quel letto, era già scritto negli incassi di legno, nelle lenzuola umide e nel materasso sgualcito. Anche loro lo sapevano, ma nel frattempo la macchina scattava e lei intimidita lanciava cuscini.. lo sapevano ma non potevano far a meno di sorridere al loro amore, alle loro lenzuola e alle loro illusioni e perché no anche al concorso e alle fotografie.

Post scriptum

Per la cronaca il concorso non venne vinto. In effetti lui era proprio un pessimo fotografo e lei.. be diciamo che aveva le sue ragioni a non voler essere fotografata.

giovedì 11 agosto 2011

Marie

Gli occhi degli indigeni seguirono il dito teso
Gli indigeni occhi seguivano il mio pensiero da quando mi ero svegliato non avevo smesso di pensare a quella parola e volevo scriverla per poter vedere quelle lettere una di seguito all’altra, solo per vederle scritte per vedere il mio indice e pollice incidere i n d i g e n o. una parola assurda. Inutile. Inusuale. Fuori moda. Chi mai più pensa agli indigeni da quando il colonialismo è sparito? Eppure mi sono svegliato stamani e ho dovuto scriverla per la bellezza di vedere la i vicino alla n. niente di più sensuale di una donna dritta eretta di pensieri, vestita di nero su un pavimento bianco e il suo cameriere sul medesimo pavimento inchinato alla sua bellezza, la prostrazione era tanta che l’inchino arrivava fino ai piedi mentre il cuoco dalla pancia un po’ grassa spiava la scena da dietro lo spiraglio di una porta. Ma ecco che all’orizzonte un’ altra donna, più piccina però della prima che arrivava a passo leggero ma anch’essa perfettamente eretta con suo abitino nero su sfondo bianco per sottolineare ancor di più il suo dolce capellino posto sulla retta testa. Nel contempo la tutrice afflitta dalle pene d’amore con la mano sulla guancia paffuta rimaneva seduta sul gradino bianco a guardare il bimbo di fronte a se che si rotolava facendo capriole sul candido prato coperto di neve mentre di nuovo il maggiordomo si inchinava anche a lui per non essere da meno e un buffo cilindro nero rotolava in fondo alla magnifica casa bianca, dal bianco giardino, dal bianco scalino, dal bianco pavimento. Solo otto figure nere a interrompere questo candore.
Ernest rimase sulla sedia, maledicendo la sua mente. Da quel giorno non era più riuscito a vedere le parole per quello che erano, unite. Compatte. Erano solo un insieme di lettere che ogni volta vicino ad altre cantavano, no anzi no, urlavano la loro storia e il povero, povero Ernest non poteva più far finta di nulla ma doveva ascoltarle..
E così era fallito. Non più uno scrittore di successo di romanzi rosa ma un pazzo che non scrive più storie d’amore e follia ma è folle lui stesso. Una storia assurda che ormai andava avanti da 5 anni. I soldi erano finiti e i talenti anche. Rimaneva solo circondato dalle maledette lettere che ogni volta messe nere su bianco gridavano senza sosta e si ritorcevano finché non veniva data loro una voce. E così Ernest non poteva nemmeno più scrivere il suo nome, nemmeno prendere la penna in mano tanto il dolore lo uccideva era lui nemico e pazzo di se stesso. La prima parola era stata Marie, la maledette Marie che con il cuore si era portata via anche il suo talento, donna avida e di colori malsani lo aveva stregato e beffato, lui autore d’amore beffato dalla sacra e innominabile Marie.

Ohh Marie, Marie sacra, Marie bella, Marie dagli occhi corvini, Marie dal nome impronunciabile, Marie dalla pelle candida, Marie dai capelli lucenti, mia dolce Marie.. mia Marie come un povero uomo rimango afflitto da noi, schiavo di un corpo e una mente. Mia Maledetta Marie, menzognera, maligna Madonna così misericordiosa e misera. Uomo e non più poeta muoio di una malefica maledizione.

La penna cadde e le lettere finirono.

domenica 7 agosto 2011

L'uomo e il mare

Premessa: Questo racconto è stato parzialmente scritto con i piedi in ammollo nelle gelide acqua del mare del nord....

Gli occhi degli indigeni seguirono il dito teso di Colombo fino a posarsi su tre maestose costruzioni dell'uomo, tre imponenti navi che avevano solcato l'intero oceano prima di attraccare su quelle spiagge. Gli veniva mostrata la strada verso la civiltà, centinaia di anni avrebbero dovuto passare prima dei borghi con le villette indipendenti e i pratini in finto inglese.

"L'inizio della fine" pensò Robert seduto alla scrivania del suo cubicolo largo due metri per lato, al trentaseiesimo piano della costruzione più alta della città. Altroché ampi spazi verdi, nessun incontaminato paesaggio naturale si poteva scorgere da quella sedia girevole, se non quelli a decorare il triste sfondo del suo computer. La sensazione claustrofobica che gli provocava la vista delle persone che diligentemente facevano la fila di fronte alla macchina del caffè, per poi correre a rinchiudersi nella produttività delle proprie bare lavorative, si era fatta ormai insopportabile. Si stiracchiò sulla sedia, allungando le braccia verso il soffitto, con i pugni chiusi. Il movimento durò solo qualche secondo, ma abbastanza per provocare una secca battuta del suo capo: "Hai sonno Robert? Se vuoi da domani potresti startene direttamente a casa a dormire!". Quel cafone ignorante non faceva altro che girare fra le scrivanie, alitando sul collo di ogni singolo impiegato, in una lenta e insistente pressione psicologica. Sarà stato per il troppo caffè ingerito, o per il livello di sopportazione ormai ai minimi storici, che quella volta Robert reagì, gettandogli sul viso un paio di fascicoli raccolti dal tavolo. "Facciamo che me ne vado via adesso e che queste cartacce te le sbrighi tu, tronfio incapace!" Si alzò in piedi di colpo e uscì dalla stanza in mezzo all'ovazione dei suoi colleghi. "Tutti colpevoli nessun colpevole", avevano pensato.

Sceso in strada si allentò nervosamente il nodo della cravatta e si accese una sigaretta. Guardò in lontanaza il fiume vicino al quale passava tutti i giorni andando al lavoro, che dalla fretta non si era mai fermato ad osservare. Lo scorrere veloce dell'acqua gli aveva fatto pensare ad una goccia, che, priva di coscienza, veniva trasportata chissà dove, una fra le tante, ad occupare il suo cubicolo. Doveva fermarla, doveva dirle che era possibile andare controcorrente, che lui ce l'aveva fatta. Iniziò a seguire il corso del fiume, benché non sapesse dove l'avrebbe portato. Camminò per ore, forse giorni, finché vide dove ogni goccia andava a finire.

Non si può capire cos'è il mare senza vederlo, se ne potrebbe parlare a lungo senza provare alcuna emozione. Poi sei lì, ce l'hai davanti, e ti rendi conto di quanto piccola sia la tua quotidianità, i tuoi problemi, le tue paure. Robert si tolse le scarpe e si mise a sedere sulla sabbia, nulla gli importava di sporcare il suo nuovo e costoso completo. Chiuse gli occhi e rimase ad ascoltare lo sciabordio delle onde, respirando l'aria che con il suo infondibile profumo andava ad insinuarsi nelle sue narici. Riaprì lentamente gli occhi e vide nitida la linea dell'orizzonte. Quante storie potrebbe raccontare il mare, con le sue innumerevoli e misteriose creature. Capì che non poteva insegnare nulla a quella goccia che seguiva le altre, poiché sapeva già dove andare. L'uomo nulla può insegnare alla natura. Si distese rivolgendo i palmi delle mani verso la luce del sole, sentendo un calore e un'energia nuova diffondersi in tutto il corpo. Si alzò di scatto ed andò ad immergere i piedi nell'acqua, ricevendo un brivido freddo lungo tutta la schiena. Ripensò a Colombo, goccia nella storia che aveva trovato la giusta collocazione, il mare. Ora anche Robert aveva trovato la sua.

giovedì 4 agosto 2011

SPENSE LE CANDELINE E DESIDERO' DI...

Chissà di cosa stai parlando. Ormai non ti sto più ascoltando da almeno mezzora. Ma come potrei fare diversamente? La tua voce è così insopportabilmente bassa e altalenante. Le tue mani, così impaurite e quasi tremolanti, perchè poi? Cosa dovrai mai dirmi di tanto importante? Dovresti sembrare tenero, forse romantico? Dovrebbero impietosirmi i tuoi occhi incollati alla tovaglia? La tua gamba che trema sotto il tavolo, i tuoi capelli spettinati, le mille volte chi li hai nervosamente arruffati con la mano?
E' inutile che ti mordi il labbro, che guardi a destra e a sinistra sorridendo in quel modo ebete. Chissà quale fantastica novità avrai da offrirmi! L'ennesimo viaggio di lavoro, l'ennesima trasferta di settimane nella sede più importante del paese più importante. E io? Dovrei essere ancora felice? Dove sono io in tutto questo? A casa ad aspettarti giusto? A casa a sognare il tuo ritorno....senza domande, senza pensieri, senza dubbi.
Dio, quanto sei lontano dalla verità...
Vorrei poterti dire quello che sento davvero. Vorrei che tu sapessi perchè non riesco a parlarti, perchè ora che ti ho davanti a me ogni parola che dici non ha senso. Sento solo il suono della tua voce incastrarsi fastidiosamente tra il rumore delle stoviglie sui piatti. E questa musica lenta di sottofondo aumenta ogni minuto che passa il fastidio che provo nel guardarti. Odio questo rumore, odio questa musica, odio questo posto. Forse per te non è così, forse quello che cerchi di spiegarmi, raccontarmi e farmi vivere in questo tuo racconto su non so bene che cosa non centra assolutamente nulla con tutto quello che sto provando adesso. Ma tanto tu non te lo stai chiedendo vero? Per te è ovvio che io ti stia ascoltando e che non ci sia nulla che non vada...come sempre.
Come sei sicuro di te, come sei altezzoso, arrogante, piccolo. Chissà se ti sei chiesto anche solo una volta perchè non ho mai annuito da quando hai iniziato a parlare! Chissà perchè non hai neppure provato a chiedermi cosa ho fatto ieri. Eh? Guardati... così elegante e impettito. Così canonico e rigido nella tua dolcezza copiata a qualche serie tv del tardo pomeriggio. Non è che per caso mi vuoi dire qualcosa? Perchè questa cena? Perchè questo invito? Tu sei così certo di te, così pieno delle tue potenzialità nascoste che non ti poni neppure il problema di quello che sto pensando vero? Guardami. Sono davvero così poco attraente e interessante per te che non hai neppure il minimo dubbio sulla mia fedeltà. Sbaglio? Io sono tua perchè tu sei mio o qualche stronzata come quelle che mi dici ogni volta che torni. Ancora un fiore, ancora un bigliettino e tutto è risolto senza alcuna domanda. Perchè non me lo chiedi? Perchè non hai il dubbio, perchè non vuoi sapere con chi ero ieri sera? Chiedimelo, sbatti la mano sul tavolo, alzati, dimmi che mi odi e vattene! Ma come potresti anche solo dubitare delle tue immense possibilità? Tu, quello che può avere tutte, quello che per due sere di seguito si nasconde in bagno per rispondere al telefono lasciandomi sola come un idiota in salotto. Credi davvero che non ci arrivi? Credi davvero che sia così accecata d'amore da non rendermi conto? Tu, che pensi di farti perdonare con una cenetta fuori, due fiori e un po' di musica? Tu così falsamente imbarazzato dai tuoi limiti inesistenti.
Sono qui davanti ai tuoi occhi, mi vedi? Ti sto per dire che ti ho tradito, che non sei nulla per me che non ti ho mai amato! Sono qui. Sono davanti a te, sono la stessa che credi essere appesa alle tue labbra in attesa di un sorriso o di un tuo sguardo. Sono qui davanti a questo tavolo, questo vino e a quasta.... torta.

Claudia alza lo sguardo, velocemete scrolla la testa come a voler riprendere il controllo sui suoi occhi e sulle orecchie.

Amore, sei rimasta così stupita? Hai sentito cosa ho detto? Ora hai capito cosa stavo rganizzando in tutti questi giorni eh? Povera, sempre al telefono...beh forse l'avevi capito. Non sono bravo a nascondere le sorprese, e tu lo sai. sono pure andato a chiudermi in bagno! Che scemo... no sai che fatica farmi fare questa torta di domenica. Ma doveva essere tutto perfetto. Gli stessi fiori, lo stesso abito, lo stesso locale, la stessa musica...ricordi? Siamo noi amore mio, non è cambiato nulla! OK sto parlando troppo scusa, come sempre non ti lascio parlare. E' solo che ci tenevo così tanto che fosse tutto perfetto... anche il giorno. Volevo farti il più bel regalo di compleanno... o almeno per me lo è! Io lo so che non sono perfetto, che sono sempre in giro e che quando torno sono stanco. So che ho mille difetti e che dovrei chiedermi ogni giorno come può una ragazza come te voler stare ad aspettarmi ogni sera. Cosi dolce, così bella, così sincera. Ma ora cambierà tutto. Con questo trasferimento nella sede di Roma finalmente sarò a casa ogni sera. Niente più viaggi niente più cene di lavoro niente di niente. Sarà come volevi amore mio, solo noi due. Perchè io sono tuo e tu sei mia. Insieme. Sempre.

Michele prende l'accendino, per lei aveva smesso di fumare anni fa ma fortunatamente ce n'era ancora uno in fondo alla borsa. Accende le candeline con le mani che tremano sempre di forte e mentre alza lo sguardo le avvicina una scatolina di raso blu:

Claudia, M m m m i vvvvuoi sposare?

Lei chiude gli occhi, soffia forte buttando fuori tutta l'aria e l'angoscia che ha in corpo, e desiderando di riuscire ad essere il più credibile possibile spalanca i suoi grandi occhi verdi e sorridendo commossa risponde:

Si, lo voglio.

mercoledì 3 agosto 2011

LA TORTA DI FICHI

PREMESSA: ho trovato un antico manoscritto impolverato...

Appena riprese i sensi si accorse che non riconosceva il luogo in cui si trovava.

La vista ancora annebbiata non riusciva ad aiutarla a capire dov'era, quindi si rivolse subito al senso che tra i cinque aveva più sviluppato: l'olfatto. Cercò immediatamente di rintracciare l'odore inebriante delle spezie, che, come le custodiva lei in leggeri sacchetti di lino, sapevano sprigionare tutta la propria intensità. Nulla. Allora decise di cercare il fresco profumo di quelli che nell'arte culinaria vengono onorati della denominazione pura e semplice di “odori”, tutto ciò che crea la connotazione olfattiva di ogni piatto. Le sue erbette -basilico, rosmarino, salvia, alloro, mentuccia e molte altre- erano disposte ordinatamente in una moltitudine di vasetti colorati allineati sul largo davanzale e, grazie alle amorevoli cure che lei riservava loro, se si era nei pressi della cucina, era decisamente impossibile non sentirne l'aroma. Dunque: di nuovo niente. Ora, di una cosa era sicura: il suo naso non poteva sbagliare. Da questa meticolosa indagine olfattiva concluse che non si trovava nella cucina del suo ristorante, nel suo piccolo angolo di paradiso. Improvvisamente, forte come un pugno in pieno viso, si insinuò nelle sue narici un miscuglio di odori penetranti, lontanissimi da quelli che aveva appena cercato. Percepì nettamente l'odore malefico del disinfettante, l'aria stantia di un locale troppo poco arieggiato, il tutto mescolato all'acre odore di urina che poi scoprì provenire dalla donna adagiata sul letto a un metro e mezzo dal suo. Il disgusto le fece storcere la bocca in una smorfia.

-“Ah, ti sei svegliata!”, pronunciò una voce maschile accanto a lei.

-“Come ti senti, cara?”. Lei girò faticosamente la testa e incontrò con lo sguardo il viso butterato di chi le aveva appena parlato. Era suo marito.

-“Dove sono? Che cosa è successo?” gli chiese.

-“Non ti agitare, devi cercare di riposare il più possibile. Sei in ospedale, hai avuto un piccolo incidente in cucina, ma ti riprenderai presto.”

-“Ma come! Che tipo di incidente?”, domandò incredula, lei che era sempre così precisa e attenta in ogni movimento, sopratutto nel suo ristorante.

-“Sei caduta dalla scala mentre pulivi i vetri, tesoro.”

La donna tentò di far affiorare alla mente quello che era successo, ma non riuscì a ricordare né di aver pulito i vetri della cucina né di essere precipitata da una scala. I dolori che cominciavano a tormentarla in più punti del corpo, tuttavia, non le permettevano di ragionare, quindi, anche se un po' confusa, si affidò alle parole e alle cure del marito. Si riaddormentò. Fu svegliata circa un'ora dopo da un' infermiera che, con toni gentili, le chiese come si sentiva e le lesse la sua cartella clinica: lieve trauma cranico, uno zigomo distrutto, due costole fratturate e lividi sparsi su tutto il corpo.

-“Però. Mio marito è stato parecchio ottimista nel dirmi che mi riprenderò presto.”, pensò.

Nonostante la situazione non fosse affatto buona, la perpetua emergenza sovraffollamento negli ospedali fece si che la dimisero dopo qualche giorno, piena di fasciature come una mummia. Suo marito, stranamente premuroso, la mise a letto e la obbligò a non muoversi di lì finchè non fosse guarita completamente. Ma lei non riusciva a resistere a lungo inchiodata ad un letto. Le mancava troppo il suo mondo, la sua cucina, i suoi fornelli, le sue piantine aromatiche. Così, un giorno, sgattaiolò fuori di casa finchè suo marito non c'era e si recò nel suo ristorante, che sulla serranda recava un cartello con la scritta “Chiuso per ferie”. Ragionò con aria perplessa sulla stranezza di tutta la situazione, sulla caduta da una scala che non ricordava minimamente, su suo marito così premuroso, quando fino a pochi giorni prima si rivolgeva a lei solamente per litigare. Proprio così, il suo matrimonio stava andando a rotoli, suo marito era diventato un uomo terribilmente attaccato alle cose materiali, un universo lontano dal suo e, fondamentalmente, che ribolliva d'invidia per il grande successo, anche economico, che aveva raggiunto il ristorante di lei. Quei pensieri la schiacciavano e, contemporaneamente, ogni punto del suo corpo doleva sempre di più. Una volta attraversata la sala e aperta la porta della cucina, però, si sentì rinascere. Si lasciò inebriare dal profumo unico che conosceva alla perfezione, rapidamente si lavò le mani e, felicissima, di aver trovato alcuni ingredienti ancora freschi, si immerse nella sua preparazione preferita, il suo perpetuo innamoramento, nonché il dolce che aveva reso celebre il suo ristorante: la torta di fichi. I fichi erano decisamente l'ingrediente che amava di più, sapeva cucinare di tutto con il frutto dolcissimo la cui foglia rappresenta l'attimo in cui iniziò la fine della libertà per gli uomini. Inoltre, chissà perché, era un frutto che le assomigliava. Il celebre dessert, al contrario di quello che si potrebbe pensare, aveva una ricetta tanto deliziosa quanto segreta, dalla preparazione lunga e complessa. Ogni volta che si accingeva a creare il dolce, lei si dimenticava completamente del mondo esterno, non sentiva più niente, se non i profumi e i sapori che abilmente amalgamava.

Anche quel giorno, era totalmente concentrata nella sua cucina, immersa nella sua nuvola di aromi e piccoli segreti quando, al di là della porta, nella sala da pranzo, qualcuno si preparava a compiere una missione fallita una prima volta.


lunedì 1 agosto 2011

La legge di Murphy


Premessa: Questo racconto è stato trascritto sullo schermo di uno smartphone. Potrebbero esserci degli errori.

Spense le candeline e desiderò di dimenticare all'istante i suoi problemi, di trovarsi in una città nuova e sconosciuta. Chiuse gli occhi ma non accadde nulla. Dannata superstizione! Si sa che i desideri non si avverano mai per magia. Il giorno dopo si svegliò e con il suo compuer prenotò il primo viaggio che gli venne in mente. Arrivò nella città prescelta senza conoscere nessuno, girovagando senza meta, sapendo a malapena cosa volesse o potesse vedere. I pub disseminati lungo tutte le strade della città lasciavano all'esterno buttafuori che certo non invogliavano l'entrata. L'eroe fuggì dagli standard turistici per rifugiarsi quasi per caso in una bettola d'altri tempi laddove un'insegna recitava "Quarter Gill - A warm welcome" scritto in caratteri gotici. Due bariste segnate dagli anni erano lì ad aspettarlo. Una molto bassa, capelli raccolti e blusa da teenager, l'altra di forme più che rotonde e denti di un colore giallo smunto. La clientela di quel locale era tutt'altro che selezionata: un uomo con gli occhiali cantava e ruttava da solo davanti all'ennesimo boccale di birra locale. Alcuni anziani seduti davanti al bancone si raccontavano aneddoti per poi scoppiare in tanto fragorose quanto fastidiose risate. "Una pinta di Tennent's per favore!" La donna dietro al bancone accontentò la sua richiesta previo pagamento di £2.55.

Seduto ad un tavolo di quel malfamato locale, l'uomo si guardava spaesato intorno. Così intento ad osservare gli astanti non si accorse che un vicino gli rivolgeva la parola. Frasi incomprensibili venivano pronunciate dalla bocca alcoolica di quell'attempato bevitore. L'unica possibilità per uscirne fu, per il nostro, di annuire stupidamente.

Al piano di sopra le locandine sparpagliate sul tavolo promettevano "Musica anni 50, 60, 70, 80 e molto altro". Decise di approvvigionarsi di cotanta selezione e salì le scale fino al piano sovrastante. Là lo spettacolo non fu meno desolante. Uomini seduti sugli sgabelli di un bancone improvvisato parlavano amabilmente con un'ancora più improbabile barista mentre "Dj Alex" propinava scadente programmazione musicale da un impolverato giradischi. Mai aperitivo fu più genuino! In pochi secondi si ritrovò a ballare goffamente sotto il braccio di una malridotta ubriacona mentre i restanti presenti scandivano il ritmo della musica con scoordinati battiti di mani. Finita la canzone e salutata la distrutta partner danzante uscì dal locale non prima di aver scambiato tutt'altro che comprensibili sbiascicamenti con il signore poco prima liquidato.
Continuò il suo vagare per i vicoli e le viuzze dove giovani stavano accasciati di fianco a maleodoranti cassonetti in un trip tossico-alcoolico. Alcuni di loro sputavano per terra maledicendo la sorte, altri raccoglievano compulsivamente mozziconi spenti di sigaretta per poi fumarli. Vide addirittura un uomo rubare delle monete ad un'artista di strada, scappando, mescolandosi fra i passanti. Entrò in quella che poteva parere una rosticceria, lì una coppia di indiani si scambiava sguardi ammaliati consumando "finger food". Ordinò una delle prime cose gli parve commestibile, pagò, e salutò il simpatico venditore. Salì sulla collina, attendendo diligentemente a consumare la cena. Arrivato in cima, si sedette su un blocco di pietra a guardare la città sotto i suoi piedi. Aprì il sacchetto e vi avvicinò il naso per assaporare il cibo dapprima con l'olfatto. Scartò il pasto, il quale era tutto ricoperto da una salsa di color rosso. Fece il primo boccone. Una sensazione di calore iniziò a diffondersi in tutto il suo corpo. Quella era la cosa più piccante che avesse mai mangiato. Le sue papille gustative pensarono di essere finite all'inferno, dal caldo che faceva in quella bocca. I pompieri, presto!

Ripensò a quando il venditore gli chiese: "qualcosa da bere?" lacrimando davanti al sacchetto vuoto.

Ora

Spense le candeline e desiderò di..
non aver più paura.
Era bello quando si era bambini dove l’unica paura era quella del buio, del lupo nero e dei rumori della strada.

Ora. Ora. Ora.

Ora il cuore batte forte, gli ansimi si fanno sempre più veloci, gli occhi si rimpiccioliscono in cerca di una luce, di una vista limpida
Senza parole o ipocrisie, senza sotterfugi né inganni.

Ora. Ora la paura fa paura.

Alla ricerca dell’essere forti, impenetrabili a questo mondo sempre più sconosciuto.
Alle prossime candeline desidererò essere più vile.

Sono umana, siamo umani. Tanto vale ammetterlo.

Le Rimarchevoli paure di zia Carol che nella vita precedente fu un panda gigante

Spense le candeline e desiderò di ricevere in regalo un panda gigante.
Appena il soffio di Marco domò l’incendio che stava cremando 5 sottili candeline, dal centro della cremosa torta uscì con un movimento molto simile ad un “voilàt!” un grillo verde, molto, ma molto simile all’insetto verde omonimo e parlante introdotto sugli schermi di tutto il mondo dalla disney.
Il povero insetto fece giusto in tempo a dire “Detto Fat…” che il piccolo Marco con l’aiuto del suo inseparabile indice sinistro lo ricacciò dentro la torta.

“Appena in tempo” si disse nel pensiero.

Sapeva, a proposito, quanto Zia Carol fosse disgustata dagli insetti. Marco era infatti solito chiedere alla zia come potesse aver paura degli esseri più piccoli della terra.
Lei il più delle volte replicava con un: “non ho paura, è che mi fanno schifo”.

Ovvero, le facevano paura.

Una volta il piccolo, molto garbatamente aveva sottoposto questo ragionamento alla zia.
Le aveva spiegato tutta la sua teoria, compresa la parte dello schifo uguale paura.

La zia aveva replicato chiudendo gli occhi: “ Beh, Marco, a te, che fa paura?”

“I leoni!” Fottuta.

Fatto sta che per evitare una crisi da sala da pranzo, Marco aveva detto addio alla sua possibilità di desiderio annuale, non dando tempo al grillo delle opportunità di lavorare alla sua richiesta.

In quel momento si immaginò una cavalletta gigante che sfondando una parete entrava in sala ed emettendo un grido dinosaurico si mangiava in un boccone la zia.
Tutto questo con lo zio Frank, suo marito, che al solito, leggeva un qualche quotidiano fumando una pipa spenta. La quale rideva stuzzicata dal solletico provocatogli dai baffi dello zio.
Lui avrebbe detto: “AH RIMARCHEVOLE, DAVVERO!”

Lo diceva sempre. Per una notizia al telegiornale, per un cronaca scolastica di Marco, mentre puliva la sua pipa, assaggiando un dolce o un arrosto o sfogliando delle foto.

Lo avrebbe anche detto osservando una locusta che inghiottiva sua moglie.

Ma purtroppo o per fortuna quella era solo fantasia.

La realtà era che non avrebbe ottenuto il suo panda.

Pazienza, lo avrebbe chiesto per i sei anni. Sempre se lo vorrà ancora.
Si pazienza.
Marco guardò alla montagna di pacchetti che lo stavano aspettando… Ce ne erano di tutte le tinte e dimensioni. Compresi pacchetti piatti ( brutti regali, di solito) e regali avvolti in carta gialla (belle sorprese di solito).

Sembrava una situazione favorevole. Anche senza panda.
Ma si, poi suo padre non gli avrebbe mai fatto tenere un panda.
Con tutte le storie che aveva fatto dinanzi ad una timida richiesta di un piccolo cagnolino… “Anche se piccolo è comunque un cane che abbaia, puzza e deve uscire tre volte al giorno per fare la cacca che poi bisogna raccogliere… blablabla. E poi quegli animali blablablabla. CAPISCI Marco?”

“Vabbene, capisco papà. BLA”

Forse avrebbe dovuto desiderare un panda grande come un cane piccolo. Si sarebbe andato bene.
Forse. Di sicuro non un cane grande come un panda gigante. Quello si che avrebbe creato problemi. Molti di più di una cavalletta gigante che sfonda una parete e si mangia la zia.

Nella sala intanto esplose un fragoroso “Auguri!” che come un pesce nuotava tra applausi , “UUUUUUUUU”, “VAI MARCO!” e un indistinguibile “AH RIMARCHEVOLE, DAVVERO”.

Nessuno dei presenti però diede peso al suo indice sinistro infilato nella torta.