Bip bip bip. Il
suono di quella sveglia si insinua nelle fessure del mio sogno
lasciate aperte dai sensi, come una lama che lentamente trafigge le
carni. Va bene, smettila, sono sveglio! Allungo una mano verso il
comodino con gli occhi ancora socchiusi e con il tatto cerco di
evincere la posizione del rumoroso dispositivo. La luce dell'alba
preannuncia l'inizio di una nuova giornata. Mi metto a sedere sul
letto, con la testa fra le mani. Alcuni secondi in quella posizione
ed inizia la routine giornaliera, ciabattando lentamente verso la
cucina.
Bip bip bip.
Sdraiato sulla branda sento il rumore provenire dall'interfono
svegliare i chiassosi “ospiti” dell'istituto carcerario. Io non
ne avevo bisogno, quella mattina avevo visto albeggiare. Perché
dormire a poche ore dal sonno eterno? Quella notte era stata lunga,
avevo riflettuto su molte cose ed ero stranamente sereno. Mi metto a
sedere sul letto, con la testa fra le mani. Recito la preghiera del
mattino, mi alzo in piedi facendo un profondo respiro.
La cucina della mia
casa era esattamente come l'avevo lasciata ieri sera. Piatti
accatastati nel lavello, avanzi di una frugale cena, briciole in
terra. Apro gli scuri della finestra facendo filtrare dapprima
lentamente, poi di colpo, la luce del mattino. Si respira un'aria
fresca e pulita. Un peso invece mi schiaccia il petto, e tutto mi
appare molto più scuro di quanto non sia. Annaspo per catturare un
briciolo d'ossigeno vitale. Forse un caffè mi farà bene. Con lo
sguardo perso nel vuoto e le spalle basse, mi dirigo verso il
fornello.
La mia cella era
sempre pulita e ordinata, del resto ci tenevo molto. I miei pochi
vestiti stavano appesi ordinatamente nell'armadietto, la Bibbia
giaceva sul tavolino, tutto era al suo posto. Mi avvicino alle grate,
guardando la luce di una splendida giornata che mi colpisce il viso
striata. Una fresca brezza mattutina mi sfiora, penetrando dolcemente
nei bronchi. Il panorama, fuori dalla cella, non è dei migliori. Una
fila di persone ordinate sta raggiungendo svogliata il posto di
lavoro nella grigia zona industriale. Guardo in alto, cerco di trarre
energia dai raggi solari. Un caffè potrebbe giovarmi. Il mio ultimo
caffè.
Il rumore del caffè
che sale dalla cucina mi risveglia dal torpore cerebrale che mi
attanaglia. Ne verso una tazzina, la bevo. Ne verso un'altra. Bevo
anche quella. Dopo la doccia e una rapida vestizione esco di casa
controllando di avere tutto. Per strada sembra che tutti guardino me,
abbasso lo sguardo, per evitare che mi guardino dentro. Un paesaggio
desolato gli si paleserebbe alla vista, l'albero della mia vita
spoglio, come in un inverno perenne. Ma cosa mi manca? Ho tutto
quello che un uomo potrebbe volere, ma a quale fine? Non riesco più
a godere di quello che mi circonda: della mia casa, della mia
fidanzata, della mia vita. Nella testa di ognuno c'è un bambino, e
il cervello è il suo parco giochi. Il bambino non dovrebbe saltare
dall'altalena, o assumere atteggiamenti pericolosi, altrimenti si
potrebbe fare male. E noi, che quel bambino lo vigiliamo, non
dovremmo portarlo a sbucciarsi le ginocchia per nostra mancanza di un
limite. Questo per dire che alcuni ragionamenti profondi sappiamo che
ci faranno male ma decidiamo comunque di intraprenderli, lasciando
ferite indelebili al nostro bambino interiore. Una sigaretta stempera
la tensione prima di entrare al lavoro.
Il rumore della
cella che si apre mi distrae dalla lenta degustazione del caffè. Un
secondino accompagna un sacerdote. Mi alzo in piedi. “Grazie, ho
già risolto i miei conti in sospeso con Dio”. Il sacerdote mi
guarda da capo a piedi, si fa il segno della croce ed esce dalla
cella. Spunta un altro secondino da dietro la porta che dice:
“Andiamo, è ora”. Allungo le mani per favorire l'ammanettamento.
Percorrendo il corridoio tengo alto lo sguardo, Dio mi ha perdonato,
non ho nulla di cui vergognarmi. Il pentimento, sincero, mi regalerà
la vita eterna in paradiso. Entro nell'ultima stanza che vedrò, un
lettino ed apparecchiatura medica ne sono il semplice arredamento.
Uno spesso vetro mi separa dalle persone che vogliono vedermi morto.
Il secondino mi chiede: “quali sono le sue ultime parole?”. Io mi
avvicino lentamente al vetro e, guardando una per una le persone
sedute a guardarmi dico:
“Padre nostro,
che sei nei cieli,
sia santificato il
tuo nome.
Venga il tuo regno,
sia fatta la tua
volontà.
Come in cielo,
così in terra.
Dacci oggi il nostro
pane quotidiano
e rimetti a noi i
nostri debiti
come noi li
rimettiamo ai nostri debitori.
Non ci indurre in
tentazione,
ma liberaci dal
male.”
Mi sdraio sul
lettino. Un medico mi dice: “Ora ti verrà somministrato un veleno
che ti addormenterà lentamente, non sentirai dolore.” Sento
entrare l'ago nella vena come una spada, il liquido iniettato mi
riscalda dolcemente. Sono stanco ma sorridente. Buonanotte.
Arrivato in ufficio,
propongo finti sorrisi abbozzati a tutti coloro che incontro sulla
strada per la mia scrivania. Mi siedo e passo alcuni minuti a fissare
il monitor spento. La realtà che mi circonda è come spine che mi
trapassano da parte a parte, la vista delle persone mi rende ansioso
quando non mi disgusta. Si avvicina un collega alla scrivania. Mi
dice: “Hai visto il giornale? Oggi giustiziano l'assassino della
tv!”. Giro lo sguardo da un'altra parte, concentrandomi sui miei
pensieri. Sento l'ago che entra nella carne, sento il dolore, sento
il cuore accelerare, sento i rumori dei macchinari, sento la notte
sopraggiungere sul giorno. Mi ispeziono. Nessuna reazione emotiva.
Penso: “io sono già morto”.