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domenica 25 novembre 2012

Dolore


Bip bip bip. Il suono di quella sveglia si insinua nelle fessure del mio sogno lasciate aperte dai sensi, come una lama che lentamente trafigge le carni. Va bene, smettila, sono sveglio! Allungo una mano verso il comodino con gli occhi ancora socchiusi e con il tatto cerco di evincere la posizione del rumoroso dispositivo. La luce dell'alba preannuncia l'inizio di una nuova giornata. Mi metto a sedere sul letto, con la testa fra le mani. Alcuni secondi in quella posizione ed inizia la routine giornaliera, ciabattando lentamente verso la cucina.

Bip bip bip. Sdraiato sulla branda sento il rumore provenire dall'interfono svegliare i chiassosi “ospiti” dell'istituto carcerario. Io non ne avevo bisogno, quella mattina avevo visto albeggiare. Perché dormire a poche ore dal sonno eterno? Quella notte era stata lunga, avevo riflettuto su molte cose ed ero stranamente sereno. Mi metto a sedere sul letto, con la testa fra le mani. Recito la preghiera del mattino, mi alzo in piedi facendo un profondo respiro.

La cucina della mia casa era esattamente come l'avevo lasciata ieri sera. Piatti accatastati nel lavello, avanzi di una frugale cena, briciole in terra. Apro gli scuri della finestra facendo filtrare dapprima lentamente, poi di colpo, la luce del mattino. Si respira un'aria fresca e pulita. Un peso invece mi schiaccia il petto, e tutto mi appare molto più scuro di quanto non sia. Annaspo per catturare un briciolo d'ossigeno vitale. Forse un caffè mi farà bene. Con lo sguardo perso nel vuoto e le spalle basse, mi dirigo verso il fornello.

La mia cella era sempre pulita e ordinata, del resto ci tenevo molto. I miei pochi vestiti stavano appesi ordinatamente nell'armadietto, la Bibbia giaceva sul tavolino, tutto era al suo posto. Mi avvicino alle grate, guardando la luce di una splendida giornata che mi colpisce il viso striata. Una fresca brezza mattutina mi sfiora, penetrando dolcemente nei bronchi. Il panorama, fuori dalla cella, non è dei migliori. Una fila di persone ordinate sta raggiungendo svogliata il posto di lavoro nella grigia zona industriale. Guardo in alto, cerco di trarre energia dai raggi solari. Un caffè potrebbe giovarmi. Il mio ultimo caffè.

Il rumore del caffè che sale dalla cucina mi risveglia dal torpore cerebrale che mi attanaglia. Ne verso una tazzina, la bevo. Ne verso un'altra. Bevo anche quella. Dopo la doccia e una rapida vestizione esco di casa controllando di avere tutto. Per strada sembra che tutti guardino me, abbasso lo sguardo, per evitare che mi guardino dentro. Un paesaggio desolato gli si paleserebbe alla vista, l'albero della mia vita spoglio, come in un inverno perenne. Ma cosa mi manca? Ho tutto quello che un uomo potrebbe volere, ma a quale fine? Non riesco più a godere di quello che mi circonda: della mia casa, della mia fidanzata, della mia vita. Nella testa di ognuno c'è un bambino, e il cervello è il suo parco giochi. Il bambino non dovrebbe saltare dall'altalena, o assumere atteggiamenti pericolosi, altrimenti si potrebbe fare male. E noi, che quel bambino lo vigiliamo, non dovremmo portarlo a sbucciarsi le ginocchia per nostra mancanza di un limite. Questo per dire che alcuni ragionamenti profondi sappiamo che ci faranno male ma decidiamo comunque di intraprenderli, lasciando ferite indelebili al nostro bambino interiore. Una sigaretta stempera la tensione prima di entrare al lavoro.

Il rumore della cella che si apre mi distrae dalla lenta degustazione del caffè. Un secondino accompagna un sacerdote. Mi alzo in piedi. “Grazie, ho già risolto i miei conti in sospeso con Dio”. Il sacerdote mi guarda da capo a piedi, si fa il segno della croce ed esce dalla cella. Spunta un altro secondino da dietro la porta che dice: “Andiamo, è ora”. Allungo le mani per favorire l'ammanettamento. Percorrendo il corridoio tengo alto lo sguardo, Dio mi ha perdonato, non ho nulla di cui vergognarmi. Il pentimento, sincero, mi regalerà la vita eterna in paradiso. Entro nell'ultima stanza che vedrò, un lettino ed apparecchiatura medica ne sono il semplice arredamento. Uno spesso vetro mi separa dalle persone che vogliono vedermi morto. Il secondino mi chiede: “quali sono le sue ultime parole?”. Io mi avvicino lentamente al vetro e, guardando una per una le persone sedute a guardarmi dico:

“Padre nostro,
che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome.
Venga il tuo regno,
sia fatta la tua volontà.
Come in cielo,
così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano
e rimetti a noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo ai nostri debitori.
Non ci indurre in tentazione,
ma liberaci dal male.”

Mi sdraio sul lettino. Un medico mi dice: “Ora ti verrà somministrato un veleno che ti addormenterà lentamente, non sentirai dolore.” Sento entrare l'ago nella vena come una spada, il liquido iniettato mi riscalda dolcemente. Sono stanco ma sorridente. Buonanotte.

Arrivato in ufficio, propongo finti sorrisi abbozzati a tutti coloro che incontro sulla strada per la mia scrivania. Mi siedo e passo alcuni minuti a fissare il monitor spento. La realtà che mi circonda è come spine che mi trapassano da parte a parte, la vista delle persone mi rende ansioso quando non mi disgusta. Si avvicina un collega alla scrivania. Mi dice: “Hai visto il giornale? Oggi giustiziano l'assassino della tv!”. Giro lo sguardo da un'altra parte, concentrandomi sui miei pensieri. Sento l'ago che entra nella carne, sento il dolore, sento il cuore accelerare, sento i rumori dei macchinari, sento la notte sopraggiungere sul giorno. Mi ispeziono. Nessuna reazione emotiva. Penso: “io sono già morto”.