L'incipit della settimana

ELABORATO TESTUALE DI TOT PAROLE: "L'antico vaso andava salvato"
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RETTANGOL CARTPLASTIC CONN'IMMAGIN STAMPAT QUAS BEN:"Perdita di tempo"
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lunedì 30 agosto 2010

IL CEDRO DEL LIBANO

Devastata dal caldo di agosto e affaticata per gli innumerevoli passi già lasciati dietro di sè si apprestava, priva di ogni forza, ad affrontare la sua ultima fatica: infiniti gradini ombreggiati da altrettanti panni stesi e flebili giochi di luce le indicavano il cammino.
Finalmente era giunta all'ultimo, sudato, scalino. Qualche passo ancora e sarebbe arrivata a destinazione. La mano abbronzata apre la porta che è sempre aperta, da sempre. Nina entra in casa, tra le fresche mura in cui è cresciuta, immediatamente dimentica il caldo e la fatica di pochi istanti prima. Non ha bisogno di cercare a lungo con lo sguardo, questo si posa subito sulle due figure sedute in cucina. Come sempre, a quest'ora, suo padre e sua madre siedono in cucina, attorno al bel tavolo di legno, nel più spontaneo dei riti domestici. Rito semplice, quanto necessario. La madre prepara un tè molto forte, molto aromatico, il padre legge il giornale e commenta ad alta voce i fatti del giorno. E divertente: ogni giorno allo stesso modo il cinquantenne padre di Nina si avvilisce leggendo le ultime notizie, afferma che qualche anno prima tutto andava meglio e da vent'anni conclude l'invettiva dichiarando: "Da domani non comprerò più il giornale". E, il giorno successivo, lo scenario si ripete. Questa caratteristica di suo padre ha sempre fatto sorridere Nina e, anche stavolta, le sue labbra si allargano in un delicato sorriso infantile. Mentre il padre continua nella sua quotidiana, borbottata critica al "mondo che va a rotoli", la donna dagli occhi neri, grandi, bellissimi, stampa sulla guancia destra della ragazza appena arrivata un bacio materno. Anche quel bacio ha lo stesso calore da vent'anni, da quando è nata non cambia mai. Questo momento, il ritorno a casa, il ripetersi di movimenti e situazioni familiari avvolge Nina di una sensazione insolita, nuova, mai provata. Mai prima d'ora aveva apprezzato così intensamente, così fisicamente, la presenza delle cose semplici, quotidiane.
Il giornale di suo padre, il quotidiano An-nahar, la risveglia dal torpore di quel calore emotivo e le ricorda le coordinate spazio-temporali. Siamo a Beirut, Libano, oggi è il 26 agosto 2005. In prima pagina le solite cose: un incidente stradale, una rapina, uno sciopero. Nessun sentore di guerra.

Apre gli occhi.
C'e freddo.
La panchina metallica su cui appoggia pesantemente il proprio corpo è ciò che di più simile ad un letto ha trovato poche ore prima. O forse molte ore prima, forse giorni. Non ricorda.
La prima immagine di questo suo nuovo giorno buio è il fiume di gente avvolta nei cappotti e nelle sciarpe che cammina freneticamente e si appresta ad iniziare una nuova, stimolante, energica, piena, soddisfacente, fottuta giornata di lavoro. La mente annebbiata indugia per qualche minuto, confonde ciò che gli occhi stanno proiettando nel suo cervello in tempo reale con le immagini realistiche che le scorrevano davanti pochi istanti prima.
"Cosa succede?"
" Dove sono mia madre, mio padre?"
" Dov'è il gigantesco cedro del libano stampato sulla bandiera che occupa l'intero muro della cucina?"
Lo sguardo per caso si posa sul grande orologio digitale che domina la sala d'aspetto della stazione dei treni di Ginevra, Svizzera. I caratteri rossi come il diavolo affermano inequivocabili: è il 23 novembre 2008, sono le 7:13 del mattina. La mente finalmente realizza: era solo un sogno.
Un sogno terribilmente simile ad un ricordo.
Un sogno-ricordo lontano anni luce.
Nulla è come sembra.

uno stralcio di vita

Stradine inerpicate nella dolce brezza oceanica quasi invisibili nella moltitudine. In lontananza una piccola figura, un punto nero in mezzo alla polvere delle pietre, ai giochi di luce. il puntino si fa linea, poi quadrato, poi figura, poi donna. Una donnina esile, antica. Gli occhi di un azzurro plumbeo come nelle giornate di temporali sulla riva dell’oceano quando l’acqua prende un colore quasi irreale, di un azzurro cielo, di un cielo indeciso e triste ma immensamente arrabbiato. La donna ormai devastata dal caldo di agosto e affaticata per gli innumerevoli passi già lasciati dietro di sé s'apprestava, priva di ogni forza, ad affrontare la sua ultima fatica: infiniti gradini ombreggiati da altrettanti panni stesi e flebili giochi di luce le indicavano il cammino...
Entrò in una piccola stanza, di una piccola casa e lo trovò seduto sul tavolo.. << è finita>> sussurrò.
Il labbro gli tremava un poco e lo sguardo non riusciva a porsi su nulla, sfuggevole e sfuggente, timoroso di farsi scoprire debole. La donna le si avvicinò, avrebbe voluto sussurrare o urlare o cmq smuovere quella situazione ma pensò che la cosa migliore fosse sedersi accanto a lui e ascoltare. Le parole uscivano a intermittenza, gli sguardi erano lontani, poi determinati e quasi piangenti. Una storia d’amore come tante. E come tante fa soffrire, ma la volta in cui sei tu il protagonista tutto sembra diverso, tremendo, irrecuperabile. Ti chiedi perché, rivedi gli anni vissuti insieme e non riesci a fartene una ragione. Ormai gli orizzonti si erano allontanati, la distanza li aveva distrutti. Provò a sfiorargli la mano ma il suo dolore era solitario, irraggiungibile. Quando si ama si sceglie di lanciarsi nel vuoto con la speranza di avere un paracadute sulle spalle, a volte cadi su un terreno soffice a volte su pietre taglienti e ogni tanto hai la fortuna di fluttuare in aria per un bel po’, vedere paesi, toccare la brezza ed essere accarezzato dal sole, ti senti potente, invincibile. Poi però per un nonnulla le ali cadono come Icaro, forse perché si è ostentato troppo e ti ritrovi a vivere come un alieno fra gli uomini, frastornato, tutto sembra distante e incomprensibile;
E così accadde anche per questa storia d’amore. Un volo lungo di quasi dieci anni e poi la caduta quasi rovinosa. La donna non sapeva come aiutarlo, avrebbe voluto dirgli che tutto passa ma lui lo sapeva già, avrebbe voluto dire che era la scelta migliore ma anche questo già sapeva. È dura veder soffrire qualcuno senza poter far nulla, solo stargli accanto, senza troppe parole, lasciando che la sensazione di dolore si trasformi in estraneità, poi rabbia, indifferenza e infine nuovo desiderio.
E vedere soffrire il proprio figlio così è proprio difficile. Tirò fuori un mazzo di carte di quelli logori e vecchi e decise che di fronte ad una partita e a un buon the rosso la vita doveva sembrare già un po’ più lieve. Intanto il giorno calava e le partite non si potevano più contare sul palmo di tre mani, così decisero di fare una passeggiata al tramonto. La loro era una piccola cittadina arroccata sul mare vissuta ormai da un centinaio di persone, con grandi lastre di pietra al posto dell’asfalto che luccicavano alla luce del tramonto. Gli alberi adornavano le vie strette e inerpicate e le due figure camminavano lente inseguite da lunghe e imponenti ombre. L’uomo si voltò, vide la piccola esile donna a fianco, con il suo bastone, gli occhi color cielo combattiva quanto fragile e sorrise. Aveva vissuto tutta la sua vita in quel paesino cucendo reti da pesca per i suoi uomini del villaggio e ora sfiancata dall’età si godeva quel che rimaneva da vivere, un po’ di quiete, un po’ di lamentele, i canti delle sirene e i tramonti lungo le vie della città. E lui ? pensò, che cosa sono io in tutto ciò, cosa sto vivendo. Sorrise fra se e se sentendosi un po’ ridicolo a quarant’anni suonati a porsi queste domande da filosofo incancrenito. Fece una breve analisi di sé. Figli tre, compagna di vita una, anzi no ora più nessuna, si sarebbe dovuto abituare disse ridendo fra sé e sé. Lavoro onesto e un poco inutile uno. Viaggi pochi. Felicità.... felicità? Da troppo tempo non sapeva più che cosa significasse questa parola come se si fosse annullata nel corso degli anni, fra un turno di lavoro e un altro. Fra i compromessi, le corse , le cene e le litigate sfiancanti. Cosa avrebbe detto ai figli? Come l’avrebbero presa?
Dicono che le separazioni sono sempre dure per i figli, il senso di colpa, ste cose qui. E gli amici? Si sarebbero divisi? E le cene al sabato sera? E il natale? E le vacanze al mare? E? improvvisamente si sentì mancare.. come avrebbe potuto affrontare tutto questo? Come avrebbe potuto amare, fidarsi ancora? La madre gli prese la mano, un sorriso caldo lo invase... e dolcemente le disse << una cosa alla volta tesoro>> incredibili queste mamme pensò indovinano con uno sguardo i pensieri, come se all’inizio le avessero dato un manuale per le situazioni difficili, le parole giuste al momento giusto i silenzi, gli sguardi.. anch’io vorrei questo manuale pensò. Poi sorrise, le stradine si aprirono verso il mare, scesero sulla spiaggia di ciottoli bianchi. Lui si avvicinò al mare e un’onda gli andò incontro. Incredibile. Mi ero dimenticato del mare. Sfiorò con una mano la spuma bianca che gli solleticò i piedi. Aveva dimenticato il mare. Per anni era venuto lì d’estate e lo aveva dimenticato. Anni di finte vacanze all’ombra di un albero con il giornale in mano senza un tuffo di acqua salata, senza un’occhiata all’immenso blu. Incredibile. Immerse nuovamente i piedi e poi di nuovo. Una cosa alla volta disse.

domenica 29 agosto 2010

LA NASCITA

Devastata dal caldo di agosto e affaticata per gli innumerevoli passi già lasciati dietro di sè s'apprestava, priva di ogni forza, ad affrontare la sua ultima fatica: infiniti gradini ombreggiati da altrettanti panni stesi e flebili giochi di luce le indicavano il cammino. Ora doveva soltanto salire, avvicinarsi al cielo, dimenticare finalmente la sua pesantezza.

Prima di cominciare la salita si sedette sulla polvere, perchè quello era il momento di ricordare per l'ultima volta. Dietro di sè era la città degli uomini, la città degli dei, la città d'oro che tutti avevano additato come il paradiso terrestre e che lei, lei soltanto, aveva avuto il coraggio di svelare, di scrostare da quella patina sacrale per vedere e far vedere cosa nascondesse tutto quell'oro, tutta quella musica e quella felicità fasulla. Ecco, aveva fermato il disco, rotto la puntina della macchina, ingolfato il motore e sollevato la bella crosta che copriva tutta quella merda ed ora le esalazioni salivano dalla terra ammorbando l'aria, uccidendo insetti e volatili. Per fare questo aveva dovuto subire ogni vessazione, ogni stupro, ogni violenza. I suoi zigomi erano tumefatti, il naso come penzolante da un lato, i pochi capelli rimasti erano crespi e appiccicaticci a causa del sangue che andava lentamente coaugulando sulle ferite di quei giorni. Anche il resto del corpo era pieno di lividi, di segni profondi, di sangue scuro, di merda. Sulla spalla destra qualche sostanza acida le aveva scavato come un buco dal quale si potevano intravedere i filamenti di nervi e muscoli che ricoprivano le ossa ammaccate. Alcune dite le erano state mozzate, sia alle mani che ai piedi, ma nonostante ciò, con l'indice rimastole, andava a torturarsi quel piccolo forellino della spalla, ancora incredula nonostante il dolore, nonostante la fisicità di quella sfigurazione. Sulle gambe si erano seccati rivoli di sperma sconosciuto, e ancora in quel momento dei piccoli fiotti di seme maschile scendevano lenti dalle sue cosce divaricate e stremate, quasi insensibili ormai, anch'esse torturate e insanguinate. L'aria la accarezzava facendola soffrire ulteriormente. Ogni cosa era sofferenza aggiunta a sofferenza su quel corpo tumefatto. Continuavano a passarle per la mente le immagini grottesche di Bacon, qualche ritratto di uomo e di donna, un papa, delle scimmie. Lei era tutti loro adesso, ed era molto altro, si sentiva molto oltre ad ogni confine.

Seduta sul primo gradino di quella scala che portava alla fine di quel suo viaggio allucinato, mentre le sue piaghe rigettavano pus e sangue e inglobavano polvere e sabbia, sentiva il giro inverso del dolore, la rabbia si stava sopendo e lentamente ricordò i preparativi, il tritolo ammassato in una stanza di un immenso palazzo, le lame taglienti appoggiate al muro, le funi tese legate forti alle travi: e poi il principio della fine, il massacro. Le coppe colme di vino che tintinnavano gaudenti, il profumo della carne cotte alla brace, l'orgia che iniziava con le prime portate, l'ebbrezza di quegli uomini. E lei, i giramenti di testa che la presero in quel momento, l'insicurezza e poi la sicurezza. Aveva trasportato faticosamente il suo corpo in quella sala, preparato l'esplosivo, le trappole, come aveva visto fare nei film da quei terroristi folli, come aveva sentito raccontare nelle storie che un suo vecchio amico le leggeva, come la sua mente ottenebrata le suggeriva. Aveva sistemato tutto, ora solo un tasto avrebbe posto fine a quel regno di depravazione e violenza, di compravendita di corpi tumefatti, di organi all'asta, di sesso barattato, di morte negli occhi della vita. Il suo corpo sfigurato non la stava tradendo, lentamente si trascinò le armi, le pistole e i mitra e le lame riposte in un sacco da viaggio, entrò nel salone in penombra dove i gemiti di piacere sembravano muggiti di un dolore infernale: ancora venti minuti e tutto sarebbe terminato nel big-bang che lei aveva predisposto, lei, la nuova dea col buco sulla spalla, con gli sflinteri sfondati dalla violenza del mondo, con la fronte incrostata di sangue, con la gola bruciata di fumo. Estrasse la prima pistola e la scaricò a caso, pallottola per pallottola su quei corpi nell'atto violento e incomprensibile dell'amore: i suoi spari erano dolci, producevano un rumore e poi un odore e poi un dolore sensuale. Il sangue iniziava a schizzare ovunque, sul tavolo imbadito, sul soffitto dorato, sugli affreschi primitivi che raffiguravano scene pastorali, sugli arazzi viola appesi alle pareti. Gli uomini riuniti nel salone principale continuavano a godere, sembravano indifferenti a quell'ondata soporifera di morte, lei imperterrita sparava, gettava una pistola dietro l'altra, dopo averle scaricate completamente, poi fu la volta dei mitra, saltavano nell'aria arti inutili, testicoli inutilizzabili, brandelli di vulve oscene, si staccavano teste che rotolavano vicine ai piedi ormai immobili. Venne il momento delle spade, le impugnava entrambe, facendole roteare a casaccio, colpiva ventri duri di donne incinte, schiene tese nell'orgasmo, scalpi più o meno stupidi e stupiti: il suo corpo bucherellato restituiva ad uno ad uno ogni ferita, ogni oscenità, ogni dolore, ogni voluttà. I pezzi di carne tagliati di netto dai ventri degli uomini cadevano e subito si ammosciavano, si stringevano, talvolta sparivano lasciando solo qualche chiazza di sangue, di sperma, di sudore. L'odore diveniva sempre più dolciastro, poi acido, poi amarognolo, era odore di sesso e di morte, di nascita e di violenza, era l'odore che per tutta la vita l'aveva contraddistinta e che ora faceva parte di quel regno, di quella città di uomini che morivano mentre mangiavano e scopavano e dormivano beati.

Quando la sua furia tranquilla era diventata forsennata tranquillità si era fermata e aveva ascoltato il suono che quei corpi mutilati, tumefatti, illividiti stavano producendo: era il suono delle campane del matrimonio, del vento tra gli alberi, del coro degli stadi, era il suono dell'amore, finalmente, dell'amore che trascina via con sé ogni cosa: la mente, i sogni, le budella, le stagioni, la vita. Era l'ora di lasciare il resto del lavoro alla dinamite, al tritolo, all'esplosione e poi al fuoco. Aveva stancamente sospirato lasciando cadere le sue spade, solo qualche secondo per riprendere fiato, per arieggiare la sua mente e permettere al suo povero dito indice di tracciare dei piccoli cerchi all'interno del buco acido che fumava dalla fatica sulla sua spalla. In quel momento aveva ricordato il groviglio di corpi che Gericault aveva stipato su una zattera e quell'immagine si confuse con l'enorme dipinto di Picasso: una dolcezza mai sentita l'aveva fatta tremare. Solo pochi secondi dopo stava zoppicando di corsa fuori dal palazzo infestato da urla di terrore e dal rumore delirante dei mille orgasmi che si andavano consumando là dentro, dietro le sue spalle. Dopodichè aveva sentito il tuono, aveva sentito il fumo levarsi, aveva sentito la luce discendere, aveva sentito il calore innalzarsi. Ma non aveva pensato nemmeno per un attimo di fermarsi per godere di quella scena, la sua immaginazione le era bastata, ora voleva solo correre zoppicando. E poi, dopo giorni di marcia, quel corpo macabro era arrivato lì, lasciando una scia scura sul selciato, un odore acre nell'aria che si era mano a mano rarefatta, rinfrescata. Il dolore non aveva mai smesso di aumentare, ma lei lo sentiva come parte di sè, se ne disinteressava, era arrivata adesso: solo le scale, solo il cielo.

Si disse che aveva riposato, che aveva ricordato abbastanza, e iniziò la sua salita, perdendo qua e là goccie di sperma, di sangue, di urina, di plasma. Il cervello e lo stomaco si ribaltavano all'interno del suo involucro rovinato. Ogni gradino le pareva un'intera spedizione su di una vetta himalayana, ogni gradino si sentiva svenire, sentiva il ventre scoppiare, sentiva il taglio del sesso allargarsi e strapparsi e rilasciare liquidi schifosi. Ma gradino per gradino, come in una lotta contro tutti i gradini del cosmo, salì, senza fermarsi, senza tornare a guardare la discesa, la città degli uomini all'orizzonte, che ancora zampillava sangue dolore e vergogna.

Non era più agosto, quando finì di percorrere quella salita. Non era agosto e non era caldo, ma non era nemmeno novembre, e non era nemmeno freddo, il suo corpo era diventato come pietra per lo sforzo, il buco della sua spalla si era allargato ma appiattito, ora una sostanza verdognola le rigava l'avambraccio. Era riuscita nella sua impresa, il cuore del tutto svuotato ancora palpitava, l'ultimo gradino, il più difficile, le era costato una rotula: le era schizzata via ed era corsa giù, se n'era ritornata indietro, verso la vergognosa città da cui giungeva.

Quando fu salda in cima a quella scalinata, quando si rese conto che era nel cielo, intorno aveva solo l'azzurro che non è azzurro ma che non è nessun colore, quando l'aria fu una cosa sola con la pelle tesa sopra le sue ossa rovinate, capì che tutto era finalmente finito, capì che tutto poteva tranquillamente ricominciare. Aprì meccanicamente lo sportello della scatola di ferro che si ritrovò di fronte, un po' di ruggine le ferì il povero indice, ma non perse sangue, solo un liquido trasparente che subito divenne giallognolo. Premette l'unico interruttore che stava là dentro e, di nuovo, nacque.

venerdì 27 agosto 2010

un gelato al cioccolato. Bianco.

Devastata dal caldo di agosto e affaticata per gli innumerevoli passi già lasciati dietro di sé, s'apprestava, priva di ogni forza, ad affrontare la sua ultima fatica: infiniti gradini ombreggiati da altrettanti panni stesi e flebili giochi di luce le indicavano il cammino. Era uno di quei giorni in cui l’irrequieto fresco dichiarava un assenteismo vorticoso; giorni in cui l’echeggiare del moto delle lancette ricorda l’umana lentezza di verme nella continuità del tempo spazio-fisico. Fino a quel momento aveva creduto di potersi permettere il lusso di rivivere con malinconia certe cose, evocare nell’ora propizia e nell’atmosfera adeguata determinate storie, e poi porvi la parola fine con la stessa tranquillità con cui schiacciava la cicca nel portacenere. Ora invece se ne stava rollando una.

Era la quarta mattina di seguito che, come un settimanale rito religioso in procinto di riconoscimento, si fermava su un incostante posto-sedere di design contemporaneo, dalla borsa estraeva la custodia gialla di un tabacco ingiallito e si godeva i cinque minuti dove il fumo, sospirato in pratiche atemporali, creava scenografie di piacevole solitudine e apparente appartenenza. In tali, quattro,mattine viveva nell’illusione di quei cinque minuti, ben consapevole che solo ed unicamente le illusioni hanno la forza di muovere i loro fedeli; le illusioni e non la verità. Ma cinque minuti su ventiquattr’ore le sembravano un buon compromesso. E poi le piaceva quel posto. Seduta in quieta posizione riusciva a respirare il delicato contrasto di quella pizzetta: i panni e i gradini negavano l’accesso all’esercito vile e ondeggiante, i nevrotici sassetti, appartenenti alla famiglia ghiaia, difendevano una non riproducibilità della pavimentazione, impensabili piante, dalle mascelle aperte e serrate, assorbivano il puzzo di piscio di ospiti notturni. E poi le piacevano loro: una coppia, lei pazza, lui anche, che ,con borse di neoacquisti (sempre le stesse), puntualmente taffiava una colazione a base del peggior succo della peggior fabbrica di succhi; due vagabondi che puntualmente disquisivano sul costo-qualità del mercato di vini in cartone; ed un ragazzo, si e no quindici anni, che puntualmente e diligentemente rincorreva deficit scolastici accumulati nel setoso freddo invernale. Insomma, le piacevano gli altri adepti alla religione settimanale in procinto di riconoscimento. Certo, questa realtà non costituiva nessuna garanzia per nessuno, né per lei né per loro; era sempre presente il rischio di trasformare tale realtà in concetto, quindi in convinzione, quindi in un inutile schema. Il fatto che lei si trovasse a sinistra del ragazzino studioso, e il ragazzino studioso di fronte al duo della succosa colazione faceva della realtà almeno tre realtà; quattro considerando anche i consumatori di goti. Nella staticità, nella fermezza dell’impegno dei compagni (si badi bene, in quattro giorni nemmeno una parola tra i quattro sistemi, formatosi dagl’occupanti delle panchine) però confluivano immagini dinamiche e fluttuanti, leggi di un giuoco dalle trame e dalle leggi apparentemente assurde. Non le importava più di essere un buon alfiere o una buona torre, di correre all’impazzata in diagonale o di arroccare affinché il re si salvi (quale re? Quale credo? Quale credo?), le importava solo avere la faccia da culo da pretendere ciò che voleva. Cosa che ancora oggi non riusciva a conquistare, strattonata da scelte rimandate e continue oscillazioni. In quel periodo di gelati, spesso, le saliva alla mente il ricordo di quando, piccino, suo fratello voleva e pretendeva il super gelato ‘magnum classic blanc’solo per consumare la parte di cioccolato bianco che avvolge la un po’ inutile panna (che puntualmente poi finiva nel rostro del goloso babbo) . Lei, piccina, indaffarato nel tentativo di divorare l’intero gelato, lo odiava. Lo odiava perché non era giusto. Lo odiava perché era uno spreco. C’erano a sua disposizione la cioccolata al latte, fondente, bianca verde gialla, galack kinder milka (in età puerile, direi le migliori!), con praline o al cocco. No. Lui voleva la cioccolata bianca del ‘magnum classic blanc’semplicemente perché era la cioccolata più buona, poco importava se era solo una minima parte di un qualcosa. Ed lei lo odiava; lo invidiava perché aveva la faccia da culo da pretendere ciò che voleva e basta.

il Flusso

Vi è mai capitato di scrivere in diretta? Cioè quello che pensate, che vi passa per la mente finisce sul foglio. Direttamente senza passare dal via e senza ritirare le 20 mila lire. Ora (prima visto che ora state leggendo) sto scrivendo così, di getto senza filtrare nulla, da non credere. Credo che così facendo si possa fare a meno del tedioso confronto con tutti i fronzoli rituali e alla frustrazione che stanno dietro alla scrittura. Nessuno sa mai come iniziare, che parole usare, se il discorso diretto o quello indiretto… Io dico flusso di coscienza, aprire la mente come un melone e scrivere quello che si pensa.

Anche se poi talvolta un inizio già c’è. Vi starete chiedendo infatti dov’è l’inizio dei gradini, dei maledetti panni stessi, del caldo e della fatica. Diciamo che non c’è per ora. Diciamo che ancora non so dove andrò a finire, e quindi dove parcheggerò quelle 4 righe. Diciamo anche che potrei non usarle, appoggiandomi ad un semplice escamotage concettuale per il quale senza quelle 4 righe non avrei scritto ciò. E’ già un inizio. Oppure potrei usarlo come titolo. Avevo provato a seguire la regola alla lettera e ne era venuto fuori un racconto su una vecchia lupa che va a parlare con il Re del suo paese il quale è un orso ovviamente, e strada facendo incontra un vecchio amico, un tasso per l’appunto. Poi mi sono confrontato con la realtà. Un tasso vive 8 anni un lupo 23. Che diavolo di rapporto di amicizia potevano mai avere? In un anno di vita uno invecchia di un ottavo della sua vita ( diciamo 10 anni per noi homo sapiens sapiens occidentale) e l’atro di circa un ventesimo ( 4 anni ominidi). E poi c’erano i panni stesi. Cosa se ne fa un animale dei panni stesi? Insomma proprio non faceva per me. Anche perché l’inizio è qualcosa di intimo tra chi scrive e chi legge. E’ un asso nella manica, è la prima cosa che trasmetti. Adoro cominciare a scrivere, potrei scrivere decine di racconti senza finirli. Scriverei un libro di incipit. Fantastico. Iniziare è un’arte, mi vengono in mente alcuni inizi fantastici, ad esempio “Se una notte d’inverno un viaggiatore”. O la “bibbia”, incredibile. Sono paziente, amo gli orsi, la panna montata mi dà la nausea, non credo in nulla e amo l’incipit della bibbia. Però. Potrei usarlo come frase di apertura per il mio curriculum.

Mi piacerebbe molto cominciare un racconto parlando direttamente al lettore cercando di materializzarmi nella sua mente. Ad esempio ciao caro lettore questo racconto fa cagare per le prime 20 righe, poi dalla ventunesima tieniti forte. Il finale e scontato, ti dico già che il cattivo muore di brutto ucciso dal buono. Così ad un finale scontato abbiniamo un inizio a prezzo pieno. Meglio fermarsi un secondo ora, mi sto chiedendo se questo possa essere un racconto. In realtà il mio flusso di coscienza, che è un po’ francese si stava chiedendo quanti in questo momento mi stiano giudicando uno stronzo che non ha seguito le regole egocentrico. Beh se posso non poteva andare altrimenti. Davvero. Io ci ho messo tutta la buona volontà e un gran desiderio di portare a termine questa piccola sfida estiva. Comunque il racconto di tassi, lupi e orsi umanizzati faceva proprio cagare. E scusate il francese.

Nel principio Iddio creò i cieli e la terra. E la terra era informe e vuota, e le tenebre coprivano la faccia dell’abisso, e lo spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque.

Dalla Bibbia, autori vari, fantascienza a sfondo sportivo