L'incipit della settimana

ELABORATO TESTUALE DI TOT PAROLE: "L'antico vaso andava salvato"
STRINGA AUDIOVISUALE DIGITALE PROVENIENTE DA QUALCHE SERVER: "Youtube"
RETTANGOL CARTPLASTIC CONN'IMMAGIN STAMPAT QUAS BEN:"Perdita di tempo"
Ctrl+c, Ctrl+v, STAMP-E-PORT-LE-FOGL:"Glutammati sto sodio"

lunedì 30 gennaio 2012

Chiavi in tasca. (Un età che non passa mai)

Il faccino più bello della Renania usava sollazzarsi nelle giornate odorose di margherite e Lillà, lungo il torrrente che correva oltre le mura della sua tenuta di campagna.

Ivi portava con sé le sue ancelle, adornate delle migliori trine e trame d' oriente e d' occidente.

Il suo liuto poggiava svogliatamente sul grembo. Era stato costruito con i migliori e più pregiati legnami del paese, odoroso di mugo selvatico.

Se appoggiavi l'orecchio alla noce pregiata potevi udire distintamente il vento che ancora carezzava delicatamente le cime degli abeti neri.

E poi Il suo volto.. il..suo...sguardo di frontiere sconosciute e inavvicinabili..



S. attendeva con ansia il momento in cui questa stronzata avrebbe finalmente abbandonato i suoi pensieri.

Tamburellava le dita agitate sul volante, controllando sul cruscotto i minuti fuggitivi che la separavano dalla destinazione.

Gli ac dc erano decisamente monotoni, nati per inibire il sistema nervoso centrale e rimbecillire i padiglioni auricolari. Abbassò con un gesto infastidito il volume, aprendo la via al silenzio che proveniva dalle piantagioni di kiwi della campagna circostante.

La nebbia procedeva lenta,lasciando spazio al buio dei prati infiniti a cui faceva da grigio confine.

-Merda- urlò S.

Ancora una volta quel viso di porcellana si ripropose, ghignante e malizioso.

Perfetta Bambola, nella delicatezza dei capelli che ricadevano graziosamente attorcigliati sulle spalle.

Magnifica grazia con cui i suoi piedi toccavano il terreno senza produrre rumore.

Sovrana della perfezione,incarnazione dell' arte pura e fine a sè stessa.

La mano di S. giaceva ripiegata sul petto.

IL suo seno cadeva verso il basso, noncurante del vestito che aveva sicuramente previsto mammele dritte sull' attenti come soldati alla guerra.

Passò un dito sotto l' occhio sinistro, e si accorse del dolorante punto di gonfiore.

Il mascara metteva in risalto i suoi grandi occhi marroni, ma non era riuscita a farla diventare una donna.

“Baby Dolls fashion” professava Dior. “Cat eyes style” prometteva Maybelline new york.

Ma Battendo le ciglia impregnate di poltiglia scura e puzzolente nello specchietto destro, vedeva sempre e solo lo stesso quadro.

E il seno di lei. E Le sue mani sulla chitarra. La gola tesa di usignolo che incantava un pubblico solo.

Così, nel bel mezzo del nulla, la sua vecchia macchina decise di spegnersi prima di arrivare a destinazione.



O sarebbe meglio dire che S. prese le chiavi e le mise nella tasca.

E aspettò che tutto passasse, rassicurata dall'aria calda che sputava fuori la sua twingo a gasolio.

La serata sarebbe proseguita senza S.

Perchè Bisogna esserci predisposte, a fare la regina.

fabbisogno energetico.

Mi trovavo nel bel mezzo del nulla, quando la mia vecchia fedele auto decise di spegnersi definitivamente. Bene. Esclamai. Molto bene. E adesso? Provai a rimetterla in moto. Nulla. Insistei ancora e ancora, ma nulla di nuovo. L’idea di mettere mano a motori e olii e marmitte aveva il gusto di inutilità e possibile sterilità a vita della mia fida compagna auto. Cosicché m’ accomodai in posizione comoda e rilassata, e mi misi in attesa. Qualcuno prima o poi sarebbe passato: la possibilità di essenza del nulla era stata già falciata dalla mia presenza; l’inesistenza aveva perso la sua verginità e, da che mondo è mondo, la purezza, una volta sporcata, dimentica prestissimo il suo candore. Qualcuno sarebbe passato. Si trattava solo di aspettare. E l’attesa è di gran lunga più morbida e confortevole di un cofano sporco e fumante.

Con testa incappucciata, corretta dal finestrino, immobile, cominciai a immaginare la configurazione del futuro e sicuro buon sammaritano: un scuolabus di suore che m’avrebbe portato direttamente alla redenzione eterna e un pulmino di fricchettoni che dall’Andalusia andava in India, passando per la Patagonia, erano, rispettivamente, al terzo e secondo posto della classifica incontri-salvezza eccezionali. Il primo posto era occupato (per simpatia non per altro) dalla ragazza bella e provocante, ereditiera di film porno di una certa e quantomeno indiscutibile fattezza, , con 2 puppe che escono dal porta tette di due taglie in meno rispetto a quelle richieste (senza considerare il fatto che, in una giornata urtata dall’inverno, il bikini striminzito fosse di certo l’equipaggiamento più consone alle passeggiate domenicali nella terra del nulla). Immaginavo la scena: l’ abbassamento del finestrino accolto con un bel ciaoooo bel maschione. Hai problemi?. Si pupa. Tu invece hai delle belle poppe. Il mio problema è che ho la cappella in fiamme. E dopo questo scambio d’intellettualità affini, manifestazioni di gestualità erotiche ripetute e ripetute.

Inutile dire che tutto ciò non avvenne.

Intanto il tempo scorreva. E il disegno di ombre umane permaneva sogno. Orami avevo la consapevolezza, o l’illusione, di conoscere in ogni sua parte il sistema formato da auto e me medesimo: conoscevo il mio mondo in qualsivoglia suo particolare: avevo dialogato e ridiscusso con Ella Fitzgerald, unica audio casetta presente in macchina, avevo già nove pezzi da poter incidere in un sensazionale ipotetico Lp, dove la musicalità prodotta dalle meccaniche dell’auto era unica voce e poli strumento, avevo già tracciato di tratteggi e schizzi l’asfalto del nulla con gli sputi. Ciò dava sicurezza. In che modo avrei potuto lasciare questa sicurezza? Lasciare il certo per l’ignoto? Ma che cazzata.

Restavo ancora lì. Passarono giorni e settimane. Le proprietà del conosciuto duellavano con la noia. Ero diventato irrequieto scontroso insensibile. Immobile nell’attesa. Ma perché diavolo non passa nessuno? Perché? L’attesa porta sempre a qualcosa no? A quanto pareva l’unico incontro promosso dall’attesa era con la signorina autocommiserazione: quel velcro che t’abbraccia e t’attornia e t’ingloba. Ti regala la sensazione di dispiacere senza che esso si manifesti, poichè indossatore di vestiti silenti e trasparenti, brutali.

Dopo settimane, il sistema sicuro fornito dall’auto dominava sulla mia persona, oramai priva di qualsivoglia spinta vitale.

Sarà stato spirito di sopravvivenza. Non so. So che ad un certo punto mi strascicai fuori dall’auto, e iniziai a camminare, abbandonando quella struttura che mi partorì ma che voleva anche il mio assassinio.

M’accorsi che nel camminare mi stavo ri-creando: i muscoli atrofizzati rioccupavano l’accento della loro funzione, gl’occhi si liberavano dal monoteismo e l’immaginazione reiterava la sua fertilità. Crea marco. Crea! Ri – creati marco! Ri-creati! Promuovi una tua visione marco! Cosa vedi? Cosa vedi marco? Ogni gesto è una tua ri-creazione è una tua visione! Che bello marco! Che bello! Continua si così. Hai la bacchetta magica marco. Tutti l’abbiamo. Dopotutto anche dio provò la noia. E decise di creare.

domenica 29 gennaio 2012

Peggy

Si trovava nel bel mezzo del nulla, quando la sua vecchia fedele auto decise di spegnersi definitivamente. Provò a rigirare la chiave, ma niente. Scese e le tirò due calci per spronarla, ma ancora nulla. Allora passò a metodi più spirituali. Prima bestemmiò e poi pregò, nell'ordine:

santa Giuditta, patrona della marmitta

san Sebastiano, protettore del freno a mano

e san Costante, protettore del volante.

Ma niente, nemmeno coi santi c'era nulla da fare.. quella maledetta Peugeout non voleva ripartire. Certo, un po' gli scocciava dover cambiare macchina all'improvviso, ma ormai c'era da aspettarselo perché quella carretta aveva quasi vent'anni. Così si arrese e chiamo il carroattrezzi. Fine.

Per Peggy quella era proprio la fine. Sì, perchè lui non stava solo chiamando un carroattrezzi.. stava dichiarando la morte di Peggy, ma questo lui non lo immaginava nemmeno lontanamente. Gli uomini non si rendono mai conto delle conseguenze delle loro azioni”, fu il pensiero di Peggy agonizzante. Peggy comunque era pronta e non aveva paura della morte perchè sapeva che la sua era stata una vita onesta. Non aveva mai lasciato a piedi il suo guidatore ed era sempre stata onesta nel segnalare per tempo quando la benzina stava finendo, in modo da non provocare sessioni di bestemmie che avrebbero negato il paradiso al suo guidatore. Nel giro di un'ora arrivò il traghettatore di anime meccaniche (che noi chiameremmo carroattrezzi) a prendersi la Peggy. Il meccanico accompagnò a casa il guidatore e poi traghettò Peggy oltre l'Archeronte, posandola tra una Panda del 92 ed una Golf che non era evidentemente morta di vecchiaia. Il meccanico parcheggiò il traghettatore al suo posto e se ne andò, lasciando le automobili sole finalmente libere di esprimersi. Un vecchio furgone Westfalia, che ormai stava da anni nella rimessa ed era la guida spirituale del gruppo, diede il benvenuto a Peggy benedicendo la sua anima. Tutti sapevano che per lei quelli erano gli ultimi istanti, certe cose tra simili si capiscono. E così le lasciarono tutto il tempo di cui aveva bisogno per esprimere le sue ultime volontà.

Peggy parlò con quel poco di fiato che le restava, ringraziando l'esistenza per la bella vita che aveva avuto e chiedendo alle sue compagne di avere cura di ciò che restava di lei. Poi, quando la luna calò sul parcheggio, Peggy spirò. Nel parcheggio fu un gran sgambettare di tergicristalli per scacciare via le lacrime che rigavano i vetri di tutti, poi il vecchio Westfalia ruppe il silenzio. “Ragazzi, sono poche le cose che possiamo fare in casi come questo. Noi siamo solo delle particelle nell'universo infinito della meccanica e per tutti noi è previsto un destino.. quindi non dobbiamo essere tristi per la partenza della nostra sorella Peggy, perchè sicuramente per lei è già stato segnato un itinerario nella grande autostrada della vita..” come sempre, poi, il vecchio Westfalia divagò ricordando i gran bei tempi in cui accompagnava ai raduni hippie i suoi guidatori. Tutte le altre auto, che ben conoscevano i suoi sermoni, smisero di ascoltarlo dopo il primo quarto d'ora anche perchè non è che credessero molto a quelle storie sul destino e l'autostrada della vita. Molti infatti erano convinti che per tutte loro non ci sarebbe stata altra vita che quella della loro resistenza meccanica. Il vecchio Westfalia continuò la sua filippica fino ad addormentarsi, cosa che gli altri mezzi avevano già fatto da un po'.

Calò la luna e sorse il sole sulla rimessa, quando quel menagramo della Mercedes E190 longuette (che noi chiameremmo carro funebre) svegliò tutti con un colpo di clacson. “Ragazzi – annunciò con la flemma che gli era propria - guardate: Peggy non c'è più.” Dalla rimessa si levò un vocio indistinto e incontrollato perchè ognuno stava dicendo la sua:

la Panda, che era appartenuta ad una dolce vecchietta di indubbia fede, gridò al miracolo citando un certo Gesù ed un tale Lazzaro;

il Furgoncino dei surgelati, che invece era notoriamente un freddo e lucido ateo, sostenne che erano tutte cazzate, che non c'erano né miracoli, né resurrezione e che semplicemente Peggy era stata demolita;

la Cady (che da giovane era stata una gazzella della polizia e dal suo servizio aveva ereditato l'atteggiamento tipico del poliziotto) disse “non c'era mica da stupirsi di questi tempi: saranno stati gli zingari a rubarla.. quelli pur di avere un tetto si fregano anche le macchine defunte.”

Il vecchio Westfalia tirò due colpi di clacson per calmare la anime e tutti si zittirono: anche se nessuno di loro condivideva a pieno le sue idee da hippie, tutti nutrivano per lui un certo rispetto e gli erano grati per aver portato un po' di spiritualità tra quelle lamiere ammaccate. “Fratelli miei, non agitatevi - esordì – avete tutti ragione e avete tutti torto. Il grande spirito ci ha sorpreso anche questa volta: durante la notte è successo qualcosa che va oltre le nostre capacità di comprensione. Peggy è stata prelevata dal meccanico ..” “Bello stronzo!”, gridarono dalle retrovie. Il vecchio Westfalia riprese: “uomo di poca fede,tu laggiù! Il meccanico è venuto all'alba, ben sapendo quel che faceva. Lui, che ci conosce e sa quello che pensiamo, ha scelto proprio la nostra Peggy per darle la possibilità di reincarnarsi.” Il silenzio generale calò sulla rimessa. Quando il vecchio Westfalia parlava per enigmi in questo modo nessuno riusciva a ribattere, anche se nessuno poteva avere la certezza che quella fosse la verità.

La risposta arrivò qualche settimana dopo. Era un giorno come cento altri e, come sempre la moglie del meccanico venne a portargli il caffè di metà mattina. La signora era all'ottavo mese di gravidanza, ma il bambino aveva una gran voglia di nascere e così la signora ruppe le acque. Suo marito, preso dalla gioia e dal panico, chiamò l'ambulanza .. che in cinque minuti fu lì col suo bel carico di paramedici. Finchè i soccorritori armeggiavano tra le gambe della signora, l'ambulanza aspettava nel piazzale tra le altre auto posteggiate. Il vecchio Westfalia la saluto e le chiese come stava, si vedeva che infatti aveva subito da poco dei trapianti di pezzi che l'avevano rimessa a nuovo. Mentre l'ambulanza raccontava, il vecchio Westfalia sorrideva perchè sapeva già quello che gli altri avrebbero capito dopo poco. L'ambulanza raccontò infatti che era stata salvata proprio da quel meccanico, ma che doveva la sua salvezza al destino che aveva fatto arrivare proprio poco prima una Peugeout, dalla quale espiantare i pezzi. Il pensiero di tutti volò a Peggy e tutti finalmente capirono cosa aveva voluto dire il vecchio Westfalia con “reincarnazione”.

lunedì 23 gennaio 2012

L'ultima foglia

Cade l'ultima foglia dall'ormai spoglio e rinsecchito albero che mi sovrasta con le sue enormi fronde. L'ultimo acceso colore d'autunno lascia il posto al grigiore d'inverno. Fisso la foglia che lenta si deposita sulla terra, insieme a quelle che già hanno subito la stessa sorte. Le venature dorate ne segnavano tutta la superficie bruna, quasi accartocciata su sé stessa, fredda, morta. Un debole raggio di luce si faceva spazio fra le nubi, colorando tutto di un tenue color rosso/arancione preannunciando l'imbrunire. Seduto sull'umida panchina che ormai aveva macchiato il datato impermeabile che indossavo, componevo nella mia mente il puzzle della mia vita ormai in conclusione. Con la punta del dito seguivo la lunga ruga che partiva da sotto al mento e finiva proprio sopra la tempia. È curioso come apprezzi ora le mie rughe, quando a quarant'anni già mi crucciavo della loro prima comparsa. Forse oggi mi ricordano gli attimi felici e quelli tristi, le giornate di sole e quelle di pioggia. Alcuni ricordi riaffiorano da quelle trincee sul mio volto dove il tempo ha svolto la sua guerra. La mia prima barba, con il rasoio di mio padre, mentre lui mi teneva la mano. La pelle pareva lacerarsi sotto quella lama affilatissima, doloroso punto di svolta del mio futuro, peluria destinata a crescere in eterno. “Sei un uomo ora”, mi disse, accarezzandomi il volto con un caldo asciugamano bagnato. Da quel giorno sempre più spesso mi trovai di fronte a quello specchio, impugnando saldamente un rasoio. La soglia del dolore di quel gesto si abbassava sensibilmente ogni anno di più. La pelle, per quanto tentiamo di proteggerla, rimane esposta alle intemperie che ne tolgono sensibilità, ma che la rinforzano. Guardando al tempo trascorso alle mie spalle, mi sembra che sia passato un battito di ciglia da quei momenti a questa panchina. Ho tentato quanto più possibile di mantenere aperti gli occhi, lacrimanti dalla fatica, ma alla fine il fisico ha ceduto, ho sbattuto le palpebre ed ero vecchio. Quante volte ho visto sorgere il sole o tramontare, lo faceva prima e continuerà a farlo senza di me. Ho sempre creduto nell'evidenza dei fatti, che palese si manifestava alla mia vista, mai ad un ingannevole dio onnipotente che prima si affatica alla creazione e poi si cela dalla vista del suo creato. Dove non poteva arrivare la logica deduttiva ci arrivava il buon senso. Alla mia dipartita, questo albero si rinfoltirà per poi spogliarsi nuovamente, come se la mia presenza non abbia mai fatto alcuna differenza per lui. Anche se tutto questo quindi non ha avuto molto senso, un po' mi dispiace di essere giunto al capolinea. Gli attimi felici con Laura, seppur effimeri e volatili come la nostra esistenza, sono proprio i momenti che mi piace ricordare, per sviare il pensiero che vorticoso nella mia mente grida che non abbiamo via di scampo. Chissà cosa penserà, quando l'abbandonerò a vagare alla ricerca di un'ultima disperata risposta, che puntualmente sarà che non esiste risposta. Quanto dolore proverà nel petto, quando apprenderà l'infelice notizia? Sebbene anche il cuore subisca le intemperie dei sentimenti, rimane all'interno, riparato, personale, e non sarà mai totalmente insensibile. Una lacrima sgorgherà dai suoi occhi, rimpiangendo il giorno in cui mi disse di no, respingendo il calore delle mie braccia. Se poi non piangerà, poco male, non sarò qui per subire questa crudeltà. Questa debole brezza di una serata appena iniziata mi sta penetrando nelle ossa, richiamando a galla tutti i dolori che sono sorti in vecchiaia. Tento di stiracchiarmi, passo una mano sugli occhi, stropicciandoli. Li riapro e sono ancora in quel bagno, con mio padre che mi toglie l'asciugamano dal volto. “Sei un uomo ora”. Ed effettivamente ora lo sono. La pelle si inspessirà e diventerà più dura del cuore. Oggi vedrò Laura, alla quale mi dichiarerò. Guardo fuori dalla finestra l'ultima foglia staccarsi da un ramo. È inverno. Ma non per me.

mercoledì 18 gennaio 2012

il tema di marco

"...un coltello, una forbice, o forse un taglierino. Accidenti, non so mai cosa usare in questi casi!" questa è stata una delle ultime frasi che ha gridato mia mamma l’altro giorno e poi è morta. Siamo arrivati al centro commerciale con la familiare verde di mio papa la volvo che abbiamo da 21 anni è talmente felice di possederla che ogni volta che parcheggia riesce a strisciarla contro qualche palo di ferro o qualsivoglia tubo che sporge dal muro. In realtà lui la vorrebbe cambiare auto ma mia mamma glielo impedisce. Dice che non ci sono i soldi per farlo e lui allora pensa male di lei e continua a scontrare la fiancata destra perché lui pensa che probabilmente la porta prima o poi verrà giù. Più volte in macchina con lui mentre alla domenica andiamo a messa nella chiesa del paese dove va anche mia nonna mi ha detto che lui non vuole più bene alla mamma finchè lei non gli lascia vendere la macchina e comprarne un’altra. Ma mia mamma non gli lascia vendere l’auto e così gli tocca andare al lavoro con la vecchia volvo verde che si è comprato molti anni prima che io nascevo. Ma mia mamma spesso va via con la volvo e l’ha presa su anche l’altro giorno quando siamo andati al centro commerciale. Abbiamo caricato anche la sorella di mia mamma che ogni volta che vede me e mia sorella ci chiede se andiamo bene a scuola e ci dice che siamo belli e sembriamo due angeli. Nostra zia non ha figli e penso che riversi il suo amore per i bambini proprio su noi due. Arrivati nel parcheggio mia mamma ha girato molte volte tra i posti occupati cercando un posto libero ma di qua e di là c’erano dappertutto macchine parcheggiate e mia mamma dopo un po’ ha cominciato a dire parolacce alle ragazze che non sanno parcheggiare e occupano due posti con la loro utilitaria e poi si è accesa una sigaretta perché quando è nervosa sente il bisogno di fumare poi mia zia ha tirato giù il finestrino e noi abbiamo potuto respirare ancora. Io e mia sorella ci siamo messi a fare le linguacce a quelli che passavano vicino alla nostra auto parcheggiata in doppia fila che attendeva che qualcuno arrivasse e che andasse via. Dopo un po’ ci siamo stufati e abbiamo giocato con i cd di mio papà lanciandoli ai posti davanti come se era un boomerang come faceva il protagonista di un film coi coccodrilli che ci ha fatto vedere il papà. Poi un uomo è andato via con il furgone bianco vicino alla porta di entrata e mia mamma ha riacceso il motore facendo rumore con le ruote sul pavimento e si è parcheggiata lì e per sbaglio ha preso dentro a un carrello della spesa che due sposi hanno lasciato un po’ spostato dalla loro macchina. Mia mamma si è scusata con loro perché loro erano molto gentili e così lei ha detto “scusate” “scusate” e loro gli hanno detto “niente paura” “niente paura”. Poi mia mamma ha fatto scendere sua sorella perché la maniglia l’aveva rotta parcheggiando male mio papà e poi ha fatto scattare la sicura dei posti dietro e siamo scesi anche io e mia sorella. Siamo andati tutti quanti dove ci sono le porte che si aprono da sole se tu ti metti sotto di loro con il piede ma mia mamma ci ha chiamati perché doveva finire la sigaretta e poi la zia gli ha messo a posto la frangia e gli ha abbottonato la giacca e intanto io e mia sorella abbiamo fatto la gara a chi arrivava per primo al baule della macchina per poi tornare di ritorno e gridare “arrivato” e ovviamente sono arrivato prima io perché questi esercizi ce li fanno sempre fare a calcio dalla porta che c’è in fondo fino alla linea di centrocampo e se non riusciamo a farli il nostro allenatore ci chiama e ci mette in un angolo e ci dice di fare 20 palleggi con il pallone di cuoio durissimo perché i palloni di calcio della nostra squadra sono sempre gonfiati tantissimo perché il vecchio che aiuta a tenere il campo apposto ha sempre un cerotto sul dito perché si taglia con la macchina che mette il gesso sull’erba e non riesce a togliere la valvola dal pallone quando è abbastanza gonfio e si può prendere anche con il collo del piede senza farsi male e fare gol come il mio amico Marco che gioca in attacco con la maglia numero nove. Dopo che io ho vinto mia sorella ha un po’ fatto il muso ma poi gli ha passato e siamo entrati e mia mamma ha tenuto per mano la Sara perché ha detto che ci sono tanti zingari in quel supermercato che rapiscono i bambini e li tagliano per darli da mangiare ai loro cani. Io spesso ho paura quando mia mamma dice così perché anche noi abbiamo un cane che sembra buono e però diventa cattivo e salta addosso a mio papà quando gli da mangiare e spesso va a prendere il mangiare in garage e penso che lì ci sono tanti bambini che lui ha comprato dagli zingari del centro commerciale. Ma non ci ho pensato più e siamo entrati finalmente e siamo andati sulla scala mobile e io avevo davanti mia mamma e mia sorella e dietro avevo mia zia e poi dietro c’erano due signori anziani con una pianta in mano. Mia sorella all’inizio della scala mobile si è girata e mi ha pestato le scarpe. Mia zia l’ha sgridata e gli ha detto di stare ferma. Lei si è girata e guardava avanti ma poi un po’ più avanti si è girata verso di me e mi ha di nuovo pestato le scarpe. Io allora non ci ho più visto perché anche se voglio bene a mia sorella odio quando mi fanno male le bambine e così gli ho dato un calcione forte con la punta del piede dietro dove si piega la gamba. Lei si è fatta male ha cominciato a piangere e mia zia mi ha mollato una sberla dove c’è il dietro della testa ma io non mi sono accorto che quando ho tirato il calcio a mia sorella per sbaglio mi sono tirato il laccio della scarpa con quell’altro piede che è rimasto per terra e poi il laccio è finito nella scala mobile e non me ne sono accorto fino alla fine della scala mobile quando mia mamma ci ha detto “stupidi adesso si scende attenti a non farvi male proprio ora”. Ma quando toccava a me di alzare le gambe per scavalcare l’ultimo gradino il laccio si è bloccato nell’incranaccio e poi mi ha tirato in giù il piede e io ho provato a tirare su il piede ma non ci riuscivo e sono andato addosso alla zia perché la scala mi tirava in giù. Io ho avuto sempre più paura e mi sono messo ad urlare “mamma” “mamma” e i due vecchi hanno lanciato la pianta per terra e sono caduti addosso a mia zia perché non riuscivano a tornare indietro. Mia mamma quando si è accorta di quello che è successo è tornata indietro e si è messa a gridare anche lei “aiuto” “aiuto” e tanti sono corsi lì ma tutti stavano a guardare e io avevo paura di morire perché ho visto una scena simile nelle puntate del dottor house ma lui ha dovuto tagliare la gamba alla vecchia che si era incastrata nella scala mobile con la calza di nylon che aveva addosso. Io mi faceva male tantissimo alla gamba e la gamba era tutta storta e i gins erano strappati dove c’è il ginocchio e c’era tanto sangue e addirittura si vedeva l’osso che usciva dalla gamba perché mia zia era riuscita a liberarsi dalla presa della vecchia che l’aveva tenuta per non cadere nel vuoto e lei gli aveva staccato le mani dalle sue spalle ma scavalcandomi mi aveva pestato il ginocchio e me lo aveva rotto. Mia sorella mi guardava e piangeva tantissimo e sembrava una cascata. Mia mamma intanto aveva preso la borsa e aveva tirato fuori varie cose le chiavi le sigarette lo specchietto i santini di santantonio e aveva rovesciato tutto per terra ma era molto agitata e per fortuna aveva un po’ deciso di lasciare da una parte un coltellino che diceva sempre che lei avrebbe usato se faceva un incidente perché poteva tagliare la cintura e scappare e lasciare lì la volvo che bruciava e magari l’assicurazione poteva pagare anche la macchina nuova a mio papà che sperava che succedeva questa cosa a mia mamma e poi ha tirato fuori l’accendino e la forbice che mi tagliava le unghie prima di andare a scuola e mi faceva male perché lei voleva che mi venivano rotondate ma mi prendeva solo la carne e io piangevo. Mia mamma poi ha detto “"...un coltello, una forbice, o forse un taglierino. Accidenti, non so mai cosa usare in questi casi!" e mentre tutti la guardavano e urlavano lei ha preso il coltellino e mi ha tagliato il laccio e poi mi ha tirato verso di lei dal braccio e mi ha fatto male perché avevo la gamba rotta e poi ha salvato anche i due vecchi e ha tirato in qua anche il vaso con la pianta che avevo ancora un po’ di terra addosso. Io ero per terra e poi anche i vecchi stavano a terra e mia mamma poi si è alzata e ha detto a un signore che aveva male al cuore e poi si è distesa e è morta.

Timothy e le forbici

"...un coltello, una forbice, o forse un taglierino. Accidenti, non so mai cosa usare in questi casi! Cazzo, davanti alla pianta carnivora vado sempre in crisi. Forse,se scelgo il taglierino, non riuscirò ad ammazzare la pianta. Il coltello no, perchè quello uccide i mostri non le piante. E allora.. forbice!”

quello era stato il pensiero di Timothy negli 0,2 secondi che intercorsero tra il disegnarsi della pianta carnivora sullo schermo e la pressione del suo pollice sul tasto X del joystick. il personaggio pixellato che le sue dita comandavano stava per essere mangiato dalla pianta carnivora e Timothy sperò con tutte le sue forze che le forbici fossero state la scelta giusta per salvare l'ometto sullo schermo. Non poteva assolutamente sbagliate: quello era l'ultimo mondo per finire quel maledetto gioco di ruolo alla playstation dal quale si era lasciato risucchiare la vita nell'ultimo mese. Non che la sua città non offrisse possibilità per uscire o che non avesse con chi divertirsi, era lui che aveva scelto la solitudine e che teneva nelle sue stesse mani la causa e l'effetto di quell'isolamento. Nel frattempo il suo personaggetto sullo schermo aveva estratto dalla sua saccoccia un paio di forbici con le quali aveva trafitto a morte la pianta assassina.

evvai - esultò- ti ho fregato, sporca pianta carnivora!”. Timothy si alzò dal divano sul quale aveva passato le ultime tre ore a giocare, spense la playstation e andò in cucina a farsi un caffè. Notò solo allora che l'orologio segnava le tre di notte e gli sfuggì un'imprecazione. Il giorno dopo sarebbe stata una giornata importantissima e lui aveva sprecato tutta la sera su quel maledetto gioco senza preparare nulla per il giorno dopo. A dire il vero, né in quello né in tutti i giorni precedenti aveva fatto molto per prepararsi all'incontro previsto per l'indomani. E non si era preparato per un motivo tanto semplice quanto terribile: non aveva idee. Cosa che, dato il suo lavoro, avrebbe significato licenziamento immediato. Timothy infatti faceva il creativo. Era stato assunto un anno prima in una casa di produzione che si occupava di cinema, pubblicità e televisione. Per i primi mesi era stato molto produttivo e sfornava jingle, spot e sceneggiature a rotta di collo, ma nell'ultimo mese si era come spento. Non che il suo lavoro non gli piacesse più, era solo che aveva bisogno di sentirsi un po' più libero: non era semplice essere creativi e nel contempo non uscire dalle ferree leggi dello showbiz. Proprio per questo suo calo, era stato convocato dal direttore creativo in persona per un colloquio fissato per il giorno dopo alle nove. Aveva si e no cinque ore di sonno davanti a se e zero idee da presentare allo squalo che l'avrebbe licenziato se l'avesse trovato impreparato. Così, stanco e preoccupato per il suo destino, abbandonò l'idea del caffè e si buttò a letto nella speranza che il sonno lo cogliesse in fretta. Almeno in quello, le sue preghiere furono esaudite perchè il calo di adrenalina dovuto alla vittoria tanto sudata lo fece finire in un sonno di piombo che fu interrotto solo dall'insistenza della sveglia la mattina successiva.

Timothy si alzò svogliatamente e si trascinò fino al bagno, ma doveva muoversi perchè aveva solo mezz'ora di tempo per farsi una doccia ed andare incontro al suo destino professionale ed umano. Si vestì in fretta e si specchiò nello schermo della tv spenta. Sistemandosi il ciuffo pensò a quanto tempo aveva sprecato dentro quella televisione, quella televisione era stata la causa e l'effetto della vita che viveva.

Arrivò al grattacielo che faceva da sede alla sua casa di produzione e salì direttamente al trentaduesimo piano, dove stava l'ufficio del direttore creativo. Bussò alla porta sperando di non ricevere risposta in modo da recuperare qualche minuto per inventarsi qualche cazzata. E invece da dietro la porta arrivò l'invito a procedere. Era ora. Entrò e fu invitato a sedersi, poi superati i primi convenevoli il direttore creativo arrivò al punto. “Allora Tim,mi hai portato qualcosa?” Timothy non aveva assolutamente niente da dire e così inizio ad arrampicarsi sugli specchi raccontando che il suo calo creativo era solo dovuto ad un periodo e sarebbe passato presto, ma vedeva benissimo che il direttore non credeva ad una parola di quello che si stava inventando. Timothy si vedeva già uscire dall'ufficio con in mano la scatola che conteneva i suoi effetti personali, quando suonò il telefono. Il direttore si alzò dalla sedia per rispondere e così facendo permise a Timothy di vedersi riflesso nel vetro del quadro che stava appeso dietro le spalle del direttore. Ecco,l'idea: intanto avrebbe temporeggiato parlando di se. Bene, stavamo dicendo?” incalzò il direttore tornando a sedersi.

Si,ecco, la storia che ho in mente per il prossimo film da scrivere riguarda un ragazzo che è molto solo e che ha delle difficili relazioni con il mondo esterno. È un ragazzo molto buono ma che fatica a trovare una sua dimensione nella realtà in cui vive ..” “che cazzo stai dicendo,Tim? Questa qui è una storiella da soap opera!” lo incalzò il direttore. ma no,direttore. È diverso perche il nostro personaggio è lui stesso causa ed effetto di questa solitudine e di questo isolamento. Non è una storia da soap, è un'altra cosa.. proprio tutta un'altra cosa..” Timothy si stava attaccando a tutti gli specchi possibili, cercando di rigirare la frittata pur di far credere al direttore che aveva un'idea. Nel frattempo la sua mente viaggiava alla ricerca di una svolta e si malediva per aver sprecato tutto quel tempo su quel videogioco. Una lampadina gli si accese al pensiero del videogioco. In fondo, quello di fronte a lui era una pianta carnivora,quindi.. disse: si ecco direttore, le dico che il mio film sarà diverso da tutti perchè il protagonista conserva in se stesso la causa del suo isolamento.. lui, al posto delle mani,ha delle forbici!”

il direttore restò impietrito e sbottò:”come cazzo è possibile che ti vengano delle idee del genere? È un punto di vista geniale! È un nuovo genere.. visionario!" e finchè esultava chiamo la segretaria al telefono:”Sandy, preparami il contratto del sig. Burton!” Timothy,dal canto suo, tirò un sospiro di sollievo e pensò al suo omino pixellato.. le forbici lo avevano salvato ancora un volta.

sabato 14 gennaio 2012

"Aveva fatto del sesso il suo pensiero fisso"

Marco stava seduto nelle ultime file dell’aula Castiglioni, al primo piano della facoltà di lettere di Bologna; attorno a lui, su piccole piattaforme in plastica che si aprivano a mò di banco sulle sedie in legno, erano disposte decine di pagine intonse appartenenti a block notes e a quaderni con spirale pronte ad essere separate dalla zona strappabile per venire intrappolate dagli anelli metallici di colorati raccoglitori. Penne biro e qualche matita stavano sparpagliate qua e là sui tavolini, una gomma esagonale Stabilo usata sin dagli anni del dopoguerra per cancellare l’inchiostro stava curiosamente roteando verso il vicino piede della cattedra.

Alcuni compagni di Marco stavano seduti, altri chiacchieravano e i loro discorsi non potevano che atterrire la buona propensione del nostro protagonista nell’allacciare adeguate relazioni sociali con i propri simili: ma che poteva importare ad uno come Marco quali fossero le abitudini alimentari dei chihuahua a pelo liscio di rampanti starlette della tv nostrana? Effettivamente, le due ragazze che stavano solitamente sedute alle postazioni centrali nella lunga fila di seggiole sagomate erano, anche per altri studenti del corso di poesia del novecento, troppo “altre” – forse ritenute alquanto “superficiali” ed addirittura “inutili” dallo snobismo che s’alzava perenne non appena le due aprivano bocca. Marco, nonostante questo, non riusciva a scambiare parola nemmeno con i restanti compagni di corso: non gli interessavano affatto i discorsi di quel gruppetto che si infervorava nel quotidiano confronto dedicato al disco del mese o al concerto più bello visto nel fine settimana. Altrettanto inutile per il personaggio di questo racconto era il discutere con il compagni di nozioni cinematografiche, tra l’altro non sopportava il piccolo circolo che si formava quotidianamente davanti alla porta d’ingresso dell’aula: accenti ferraresi e meridionali, talvolta intervallati da qualche provincialismo veneto, apportavano materiale utile a ricerche linguistiche lanciandosi in lunghi sproloqui su filmografie di registi e pellicole d’essai negate alle sale italiane; questioni che sembravano vitali vista l’infiammata partecipazione degli “aventi diritto” erano spesso accese da scontri sulle interpretazioni di film date dai diversi compilatori di dizionari cinematografici: e così Marco scoppiava spesso a ridere quando quelli si insultavano a causa delle divergenti vedute d’un Tarantino date dal Mereghetti o dal Morandini.

Probabilmente Marco non parlava coi compagni perché la sola amicizia che aveva e che preferiva mantenere era quella con la letteratura. Ciò che lui vedeva come un amore solido, e che continuava ad alimentare con continue attenzioni alla sua peritura fede, era vista dai genitori semplicemente come una relazione scomoda, e come spesso ragazze di cattiva impressione sono indicate come la peggiore delle scelte dei figli da parte di parenti che vedono nella femmina sconosciuta l’apocalisse – misteriose Giuditte pronte a fare delle teste dei figli sanguinolenti soprammobili accanto a volgari riproduzioni di borsette di Prada, ecco che la letteratura veniva additata dai familiari di Marco come la principale responsabile della volontaria esclusione dalla società del ragazzo. Ma, poiché prima di battere il fatidico martello nella storica trasmissione giudiziaria delle reti Mediaset, anche il leggendario giudice Santi Lichieri annunciava ai due litiganti (e per mezzo delle telecamere, anche alle nonne a casa intente a non bruciare il sugo nella vecchia padella) che la verità sta nel mezzo, e nessuna delle due parti la può possedere per intero, si può pensare che pure i genitori di Marco avessero ragione: non solo in passato il ragazzo aveva, a suon di urla e martellanti salti a talloni uniti contro il pavimento, tirannicamente obbligato la famiglia ad accettare alcune sue scelte fin troppo esuberanti nel nome dell’amata musa (egli infatti aveva personalmente firmato, per esempio, più di un contratto annuale a nome del padre con svariate catene di approvvigionamento di testi di narrativa solo con lo scopo di veder aumentare le ore di lettura non tanto sue, ma dei familiari…), ma si poteva presupporre che i due coniugi fossero preoccupati per le derive psichiche di Marco, che già da qualche tempo si era costruito – all’età di vent’anni compiuti – un amico immaginario a cui aveva dato il nome di Pier Vincenzo, richiamando alla memoria di ogni lettore ferrato di Montale, il grande critico Mengaldo.

Per tutta la vita Marco si era dedicato allo studio e alla lettura; nei primi anni dell’asilo decise di imparare l’alfabeto per poter decifrare i misteriosi biglietti che la madre appiccicava sul frigorifero di casa; alle elementari, quando gli altri bambini stentavano a rimanere concentrati sulle parole impresse nel testo ed erano costretti a tenere il segno col dito indice, Marco riusciva già a finire libri dedicati a ragazzini più grandi di lui: spesso la maestra lo vedeva, esile e alto meno di un metro, armeggiare con dizionari e vocabolari intento ad approfondire lacune terminologiche che nascevano da insoliti interrogativi lasciati aperti da oscure pagine. Alla fine delle medie, un grave lutto segnò l’adolescenza di Marco: gli amati nonni materni, che un giorno gli regalarono – illustrata e finemente rilegata – la bellissima opera omnia di Salgari edita da Skira, morirono di vecchiaia; il nipote, atterrito da quell’evento, si chiuse per tutta l’estate nella vasta biblioteca familiare e riuscì a costruire, anche grazie ai numerosi volumi del Club del Libro e di Mondolibri, una sua personalissima interpretazione al “Pessimismo cosmico” di Giacomo Leopardi. Divenne famoso; alla tenera età di quattordici anni per la verità non ancora compiuti, incendiato da un sentimento negativo verso la Natura, si cimentò in un commento allo Zibaldone: la vittoria in un concorso letterario istituito dal settimanale Topolino dedicato a giovani studenti delle scuole inferiori gli fece ritornare il sorriso; da quel momento Marco decise di dedicarsi anima e corpo alla Letteratura.

Gli anni del liceo trascorsero veloci; Marco rifiutò ogni tipo di amicizie e come Petrarca trovò conforto solo negli scrittori morti. Il latino e il greco gli fecero conoscere svariati personaggi con cui passare interi pomeriggi a chiacchierare, cercando di comprendere pensieri che ogni altro adolescente della sua età avrebbe definito “vetusti”. Il passare ore intere curvo sulla scrivania gli procurò una preoccupante flessione della colonna vertebrale; cominciò ad accusare problemi agli occhi: e come ogni buon giocatore che, davanti ad una slot machine in un bar di paese riesce a spendere il suo intero stipendio centesimo per centesimo, così Marco vedeva la sue diottrie sparire una per una dietro a lenti da vista sempre più spesse. Alla fine del liceo, dopo aver passato la prova finale con un elaborato incentrato sulla figura del poeta nella Venezia premoderna, decise di iscriversi senza dubbi alcuni alla facoltà di lettere di Bologna.

E così ora ritroviamo Marco seduto nelle ultime file dell’Aula Castiglioni. Si guarda intorno, minimizza i discorsi su cani, musica, cinema che sente arrivare da ogni parte dell’aula. Guarda i quaderni sui banchi, i cappotti a ridosso delle sedie, un giovane in prima fila che aspetta come lui l’arrivo del professore di poesia. Voci di sottofondo nel corridoio, gente che entra in classe. Due ragazze che si siedono nella fila davanti a lui. Entra anche il professore, appoggia la cartella sulla cattedra, raccoglie la gomma al suolo e saluta. Mentre sistema la propria giacca sull’appendiabiti, ecco entrare un ragazzo. Ansima, forse ha corso. Passo svelto, guarda verso Marco, si dirige verso di lui, gli chiede se il posto vicino al suo è libero. Marco risponde affermativamente, e il giovane dal montgomery marrone e dagli occhiali neri dalla montatura spessa gli si siede accanto. «Ciao, sono Nico» dice quello a Marco, che ricambia la presentazione. Nico apre lo zaino mentre il professore introduce l’argomento della giornata, ed estrae il suo quaderno, una matita a scatto e un foglio. «Guarda» dice a Marco, «questo è l’invito di alcuni miei amici a scrivere un racconto sulla base di un incipit. Loro sono di Verona, ma se ti va, puoi mandarlo via internet. Tieni pure il foglio, si sa mai!». Marco prende il foglio, gli da una letta veloce: un piccolo circolo letterario dal nome insolito, Atelier Discreto, esortava effettivamente a scrivere racconti aventi come incipit una frase scelta da uno dei partecipanti. Quale occasione per uno come Marco, che viveva per la letteratura! Avrebbe – pensava – scritto già il pomeriggio stesso, era pronto a prendere il treno fino a Verona la domenica seguente per andare a leggere il proprio elaborato. Ma quale sorpresa lo attendeva nell’incipit di quella settimana.. “Aveva fatto del sesso il suo pensiero fisso”… Marco, poverino, davanti a quel foglio datogli dallo sconosciuto compagno, si trovò forse per la prima volta nella sua vita stupefatto nel non saper cosa scrivere, nel non aver niente da dire, ignaro delle strane sinestesie provocate da quella parola che allitterava tre sensuali esse.

lunedì 9 gennaio 2012

CIGARETS

Una serata come tante, tempo uggioso, al solito pub si consuma una commedia ben studiata e conosciuta, Marco con la sua camicia a scacchi tiene salda la sua rossa doppio malto e guarda di traverso Dante, che sta prendendo il suo pacco di tabacco.
“ Proprio non capisco, per tanto tempo sei stato solo con lei, ora non fai altro che passare da un letto ad un altro. Sembri un’altra persona!” Sbottò Marco, alzando leggermente la voce alla fine, ricordando che era la terza pinta. Dante lo guardò un attimo di traverso, con il pacchetto a mezz’aria.
“ Vuoi riprendere la solita discussione?”
“ Che sia mai! Figurati se non ti capisco, io! Lo sai che ho avuto molte donne, ma te, c’è qualcosa che non va, ecco.” Dante osservò lo sguardo leggermente preoccupato dell’amico, poi con un gesto secco srotolò il pacchetto.
“ Ora vedo di spiegarmi, le relazioni sono come una sigaretta.” Dante sorrise vedendo lo sguardo torvo dell’amico e poi continuò:
“ La prima cosa è sceglierla, trovare qualcosa che aggrada, che dia piacere. Non puoi prendere un tabacco a caso, potrebbe essere troppo forte o troppo delicato, la scelta stessa è essenziale e parte del piacere. Dopo di che si apre il contenitore e si apprezza l’aroma, la fragranza unica e irrepetibile, che ti fa assaporare l’attimo, che sollecita il desiderio.” Con semplici e rapide mosse Dante aprì la pacchetto, annusò l’aroma socchiudendo gli occhi.
“ Continua sfuggirmi il motivo.” Interruppe Marco, Dante lo guardò con una strana fiamma negli occhi.
“ Lasciami finire, non te ne pentirai.” Dante prese nel frattempo la cartina e il filtrino.
“ Ora che l’aroma ti ha riempito le narici, facendoti immaginare il piacere prima ancora che esso possa esistere, prendi il tabacco, lo accarezzi, lo accompagni verso la forma perfetta fino a catturarla con la cartina; infine fai scivolare la lingua per tutto il bordo, prima sfiorandola appena, e poi in modo deciso.” Dante mostrò la sigaretta ben fatta all’amico, con un sorriso.
“ Capisco, ma non vedo cosa centri.” Con un gesto della mano Dante sembrò allontanare quella considerazione.
“ Il piacere non è solo l’atto più crudo, l’attesa stessa può esserlo, anzi, deve esserlo.”
“ E ora?” Chiese Marco.
“ Ora? Ora mi fumo la sigaretta.” Dante prese lo zippo e accese la sigaretta, con un lungo e lento tiro, il fumo iniziò ad uscire dalle sue labbra.
“ Ma perché?” Chiese Marco.
“ Perché.. Perché no? Qual è il momento più bello di una relazione?”
“ Indubbiamente l’inizio.” Proruppe Marco
“ Esattamente, non è forse insito nell’uomo prendere il meglio? È così strano che io voglia fare questo?” Marco ridacchiò e agitando il bicchiere, disse:
“ Non me la racconti, come puoi assaporare una relazione se poi la fai finire presto e quando vuoi tu? Non mi venire a dire che c’è del sentimento perché non ci credo, il tuo è un vizio.”
“ Esatto.” Rispose semplicemente Dante.
“ Esatto cosa?”
“ Il mio è un vizio e, come tutti i vizi, è splendido e infernale allo stesso tempo.”
“ E tutte le donne che fai soffrire? Non hai rispetto per loro?”
“ Certo”
Marco fece una smorfia e disse: “ Non sembrerebbe.”
Dante mostrò la sigaretta, ormai arrivata al filtro, lentamente la portò al posacenere e la spense. I due si guardarono per un lungo istante, Marco svuotò il bicchiere e, ormai con gli occhi lucidi, sentenziò:
“ Temo che tu sia la sigaretta, in fin dei conti.”

Biancaneve

Aveva fatto del sesso il suo pensiero fisso .. ma non poteva dirsi che ciò fosse colpa sua, perchè lei in quell'ossessione c'era caduta dentro per errore, solo a causa della sua debolezza di fanciulla. Fino ad una certa età Biancaneve era prosperata tranquilla (si fa per dire!) tra una fuga dalla regina cattiva ed un pasto preparato ai sette ometti che vivevano con lei. Presa dalla sua vita piena, non si era mai interessata agli uomini .. ma ciò era anche abbastanza normale considerato che gli unici due tipi di uomini che aveva incontrato nella sua vita erano stati rozzi cacciatori col compito di ucciderla e nani buffi che tutto fuorché la sua sessualità potevano animare. Si potrebbe quasi dire che fino a che il destino non la mosse facendola inciampare dentro un'occasione, lei nemmeno si fosse accorta delle sue potenzialità di donna.

L'occasione arrivò una mattina che lei era a casa a cercare di riassettare il casino che tutti i giorni quei sette lasciavano in casa, prima di andare a lavorare. Stava rifacendo il letto di Eolo, quando suonò il campanello. “Arrivoo!”, gridò dalla camera da letto rispondendo al campanello e si avviò verso la porta intuendo, dal modo di scampanellare deciso, che fosse la postina con l'ennesima raccomandata. Certa com'era di sapere chi era, non si preoccupò di mettersi qualcosa sopra il misero abitino da casa che indossava per i fare i mestieri. Aprì la porta distrattamente, perchè il suo sguardo ero stato attirato da una ragnatela che stava nell'angolo opposto.

“Signorina!” la sua attenzione fu richiamata da una voce che non poteva essere certo quella della postina. Girò di scatto la testa e vide che di fronte a lei, in piedi sullo zerbino stava un ragazzo, un venditore porta a porta. Era già pronta a chiudere la porta al grido di “Nonciservenientegrazie!”, ma lui aveva già messo il piede nella porta per impedirle di chiudere. “Non mi chiuda la porta in faccia, non sa nemmeno cosa voglio proporle. Mi dia solo 5 minuti!”, le chiese lui con una certa indelicatezza. Lei, educata e dolce per costituzione,non potè mandarlo via e così lo fece entrare ma si ripeté mentalmente che sarebbero stati solo 5 minuti perché c'erano ancora sei letti da fare.

“Bene, signorina, vedo che lei è intenta a fare i mestieri di casa. Immagino che per riassettare una casa tanto grande ci metta almeno mezza giornata. Bene, io sono qui per offrirle il prodotto che le cambierà la vita: con Splendor dimezzerà tempo e fatica. Le offro il prodotto che le darà la possibilità di usare meglio il suo tempo: un'ora per la casa e tutto il resto per lei. Cosa le piace fare, per esempio?”. Biancaneve non riuscì ad emettere più che un rantolo: non sapeva rispondere. Il venditore colse l'incertezza della ragazza e la sfruttò per fare l'affondo finale, elogiando tutte le qualità del suo prodotto : “splendor è l’idro-elio-criopulitrice piu potente al mondo che igienizza e lava ogni angolo delle sua casa con la forza del vapore e la delicatezza di una domestica filippina..”

Lei continuava ad annuire senza ascoltarlo e, sempre senza ascoltarlo, firmò il contrattino che sanciva l'acquisto di quel coso.

Biancaneve era al settimo cielo. Non per il suo nuovo Splendor, ovviamente .. ma perchè quell'uomo sconosciuto si era interessato a lei e a quello che le piaceva. Un uomo mediamente bello, spigliato ed alto più di un metro (vivendo coi nani, anche questo le sembrava straordinario) si era interessato a lei. Quella domanda sui suoi gusti, chiaramente, non era altro che una tecnica di vendita da imbonitore alle prime armi.. ma la sua ingenuità ed il suo bisogno di calore umano non le permisero di capirlo.

Nel frattempo il venditore si era avviato verso la porta e le stava tendendo la mano per salutarla, lei si alzò tendendola a sua volta ma mossa da un'energia nuova, quando lui le strinse la mano, lo tirò a sé e gli si avvinghiò addosso. Lui resto impietrito per un millesimo di secondo, ma poi pensò che era stata lei a buttarsi su di lui.. e quindi lui era autorizzato a cedere alle sue “avances”. E poi non era così brutta, quindi perchè non approfittare di tanta fortuna? Biancaneve non sapeva esattamente cosa stava facendo ma l'energia che pulsava dentro di lei la guidava ed aveva capito dallo sguardo del suo partner che stava facendo la cosa giusta. Consumarono il loro rapporto in piedi, appoggiati alla porta fino a quando lui non se ne andò senza nemmeno lasciarle un biglietto da visita. Biancaneve, rimasta sola, si sistemò e si costrinse a continuare i suoi mestieri .. ma la sua vita era cambiata per sempre.

Non riusciva più a stare concentrata su un lavoro a lungo, perchè c'era sempre il ricordo di quel giorno che la assaliva: quando pensava al momento in cui lui era entrato in lei, le tremavano le gambe. Ormai ogni sera prima di dormire cercava di immaginare quello stesso piacere, ma non riusciva nemmeno lontanamente a ricreare quella sensazione così intensa. Non c'era niente da fare, per arrivare dove voleva era necessario che trovasse un uomo.. ma non era semplice perchè dove viveva lei, oltre ai nani e a qualche raro questuante, non c'era molta altra gente.

I mesi passavano ed il desiderio la consumava, ma non c'era mai l'occasione o la compagnia giusta per soddisfare la sua ossessione e placare il suo pensiero. Il suo tormento era ogni giorno più insostenibile,la spingeva a fare cose assurde: una mattina che stava in giardino a fare il bucato, si era messa a fare pensieri osè anche su Brontolo. Per fortuna fu distolta dal suo pensiero da una vecchia che se ne andava in giro regalando mele rosse. Lei non aveva per niente fame, ma pur togliersi dalla testa quell'idea sul nano prese una mela dalla vecchia e l'addentò.. la mela era buonissima ma lei, che era troppo stordita dai suoi pensieri, se la fece andare di traverso e stramazzò al suolo.

I nani la trovano in giardino quando tornarono per cena: non rispondeva agli stimoli, ma non sembrava morta. Era davvero un mistero quello stato catatonico in cui l'avevano raccolta ed infatti la notizia si sparse in fretta, arrivò anche qualche troupe televisiva locale. Fu proprio grazie ad un servizio al telegiornale che il principe, un ragazzotto dal sangue blu al quarto anno di medicina, ebbe notizia della cosa. Incuriosito e spinto dall'interesse scientifico per un caso tanto strano il principe si recò a casa dei nani. Come in una visita in ambulatorio, il principe volle scrutare le pupille della malata per verificarne la reattività e quindi si chinò sulla povera Biancaneve, proprio a pochi centimetri dal suo viso. Il naso di Biancaneve si animò, tutte le sue papille fremettero: aveva finalmente percepito l'odore di un uomo su di lei. Biancaneve si alzò di colpo dal letto su cui giaceva come fosse stata miracolata, baciò il suo salvatore.. e dopo pochi mesi lo sposò. Solo così sarebbe stata certa di avere sempre accanto un uomo che soddisfasse la sua ossessione.

Anche questa sera Biancaneve è a palazzo e più o meno a quest'ora sta per andare a dormire col suo uomo. Tutto il mondo crede (e forse anche qualcuna di noi ha creduto finora) che il loro fosse l'amore da favola: che fregatura.

prima delle definizioni il desiderio

Aveva fatto del sesso il suo pensiero.
Le natiche erano il suo chiodo fisso. Aveva sempre pensato che non avrebbe mai voluto farselo mettere dentro.
Ma ma ma c’era quel maledetto ma nella sua testa.
Il pensiero di un corpo nudo indefinito, di una mano che
dai capelli pudici scendeva e si contorceva scavalcando il petto perbenista schivando l’ombelico odorante di paura, saltellava imperterrita verso il suolo pubico mai cosi aperto ad una pubblica vista, l’idea perversa che le dita fuoriuscissero dal tracciato sempre battuto, dal percorso tradizionale sporgendosi maliziose verso luoghi più remoti e mai vagliati lo faceva rabbrividire.
Che fosse diventato omosessuale? Che a 35 anni si fosse accorto sol or ora che i suoi occhi andavano a inconsueti desideri?
Che le piccole tettine, le grandi poppe, il seno sbirciato per anni dalle scollature provocanti dei cocktail noiosi non gli facessero più effetto?
Eppure se pensava a quel fior fior di donna della notte scorsa dal seno profumato nel quale aveva perso anche l’ultimo battito regolare be di certo omosessuale non poteva dichiararsi, senza pensare il piacere sottile, intenso e poi sempre più diabolico, spasmodico e incontrollato dell’atto della penetrazione, quando le tirava i capelli con dolcezza in un momento di possesso puro dove nessun avrebbe capito se a possedere eran la mano o il capello imbizzarrito.
Lui rimaneva seduto li assorto nei suoi più alti pensieri senza esser sfiorato dall’idea che prima delle parole c’era il desiderio e prima delle definizioni l’istinto, avvolto da una copertura di socialità seccante, quasi soffocante. La guancia sulla mano, la mano sul gomito e il gomito sul tavolo.

Un altro po’ di caffe?
Si grazie
E la vita ricominciava.

Tieni Duro!

Campagna Modenese, 1936 anni di profonda crisi, povertà e odore di guerra.

Quel mattino il piccolo Piero si svegliò con il pisello bello ritto. Era già successo. E non ci diede molta attenzione li per lì, il suo compagno di banco Martino, che certo era un po’ tardo visto che lo avevano bocciato ben tre volte, al Piero ci aveva infatti detto qualceh mese fa che è normale la mattina che ti viene il pisello tutto duro a volte. E Piero si fidava di Martino, che certo non era sveglissimo ma la sapeva lunga: c’aveva ben 3 anni più di lui: “Tranquillo Piero. Quello ti diventa come un sasso se vedi certe cose delle donne ma anche la mattina quando ti svegli. Vedrai che se aspetti si molla tutto. Fidati. Anche per me era così quando c’avevo la tua età!”
Quello le ha fatte tutte alla mia età, pensava Piero ogni volta, visto che Martino era solito chiudere così ogni discussione.
Piero però quella mattina aveva anche aspettato più del solito. Ma il suo arnese non mollava un millimetro.
L’imbarazzo non durò molto. Quando vivi nella campagna modenese e tua madre ha passato la sua fortunata vita a sfornar figli – eccoti 8 pargoli - e quando per grazia di Dio le preghiere del padre che vuole un maschio vengono ascoltate fin troppo - eccoti quindi 8 ometti – e quando lo stesso padre lavora un giorno si e quattro no – eccoti che i figlioli dormono tutti nella stessa camera; eccoti insomma che l’erezione del piccolo Piero, 10 anni, viene subito notata dal Matteo, 16 anni che subito fa eco agli altri: “ Guardate ragazzi il Piero c’ha l’erezione che buca il lenzuolo!” E Ilarità generale che scoppia nel dormitorio: ride Franco 17 anni, ride Matteo 16, ride Alvaro 14, ride Primo quarto genito, Ridono i gemelli Marco e Paolo 11, ride pure lo stesso Piero “che tanto ormai che mi hanno scoperto!” Pensava.
L’unico che non ride è il piccolissimo Alberto 4 anni che è nato terribilmente tardi. E poi mica sa cos’è un’erezione.

Piero, sempre bello durello, ma decisamente disinibito esce dalla suo letto e si infila i calzoni. Duro o non duro c’aveva proprio voglia di far colazione.

Entrato in cucina, a parte il piccolissimo Alberto erano già tutti a tavola a pasteggiare con caffelatte e panbiscotto: i fratelli compressi sui due lati lunghi del tavolo e Giovanni suo padre a capotavola. La madre, che era in orbita fornelli si girò verso Piero.
Notò immediatamente che il Pierino aveva i calzoni a metà caviglia “ Ma su Piero, figliolo, che hai preso per caso i calzotti di tuo fratello piccolo? “Non aveva notato il tronchetto sul pube perché era una donna umile che viveva a testa bassa e che aveva fatto 8 figli.
Fischia.
Beh torniamo a noi: “Mo non vedi che ti stanno a mezza caviglia?”
Ecco il previdente intervento di Alvaro, il terzo: “ Ma mamma guarda che c’ha il cazzo duro! E’ per quello!” Ed ecco previdente anch’esso l’intervento del babbo che ci molla un ceffone sul coppino di Alvaro : “ ma guarda che certe parole mica le voglio sentire ! Dopo ti porto da don Mario sai? Mica ci metto tanto!”
“Non ci vado dal prete!” E una bella pernacchia.
“E mo ti prendo a bastonate!”
Eccolo Paolo il gemello:” ma quale bastone? Ma nemmeno la legna per accendere il fuoco c’abbiamo!”
E ora l’altro gemello, Marco: “ ma papà prendigli il pisello a Piero, che è come un tronchetto, vedrai che la mamma poi ci fa la zuppa tutta la settimana e tu ci bastoni pure Alvaro!”
E ora le risa e le minacce che si perdono nel vuoto e una madre che si fa il segno della croce.

Calati gli entusiasmi, da Alvaro in su con il papà nei campi e dai gemelli in giù a scuola compreso il piccolo Piero che per evitare di creare altro scalpore si infila il pisellino pietrificato sotto la cinta dei pantaloni, bello aderente al suo pancino.
Il piccolo Alberto rimane a casa invece. Non che a nessuno interessi ovviamente.

Arrivato a scuola Piero non perde un attimo per sottoporre la questione al Martino. Il quale non solo c’aveva 3 anni in più era anche un’incredibile esperto di piselli, peni, e cazzetti : “Boia Piero! Capitava anche a me alla tua età. Se qui però aspettando non ti molla ci dobbiamo trovare una donna.”.
A Piero tutto ciò pareva sensato e poi si fidava di Martino. “ Ci sono. Dobbiamo andare dalla Sandrona: quella ha le cosce che fanno per te. Ti basta che le guardi: poco eh. Vedrai ti passa tutto.”
Piero sempre pieno di fiducia non obbiettò. Decisero di marinare l’ora di religione di suor Franca. Niente di grave, visto che una volta i due discoli avevano scritto sul vangelo della stessa sulle pagine del miracolo dei pani e dei pesci “SUOR FRANCA STRONZA”, sollevando un polverone senza però venir scoperti.
I due sapientoni raggiunsero quindi e di soppiatto la postazione della giunonica Sandrona, ovvero la bidella: 50 anni, larga come due vacche grasse e alta come un cespuglio basso.
Il donnone era intento a fare un qualcosa a maglia e come previsto dall’illuminato Martino le suo poderose cosce erano all’aria, vista l’impossibilità della gonna , seppur lunga di contenerle.
“Guardale Piero! Guardale! Prima che ci scopra qualcuno. E fatti ammosciare quel tuo pisello!”

Piero Osservava. Fissava. Guardava. E sognava di tuffarsi in quella carne, in quella calda abbondanza. Il suo pisello però non accennava a ritirarsi. Anzi. Lo sentiva pulsare come un dannato. Gli pareva pure li li a fargli saltare la cinta.

Ma ecco che come un bel sogno viene bruscamente e amaramente interrotto dal risveglio, questo idillio di carne venne squarciato dall’arrivo del fascistissimo preside che lesto afferrò i due per altrettanti orecchi.
“A voi due! Delinquenti! Adesso vi schiaffo una bella nota! Che ci fate fuori dalla vostra aula! Marsh marsh!” Disse trascinandoli in ufficio.
I due minacciati a dovere non ci misero molto a confessare tutto. Ma proprio tutto.
Il preside fece chiamare i genitori dei due.
A prendere Piero si presentò il padre essendo la madre sommersa dall’imbarazzo in un qualche banco della chiesa a snocciolare rosari.
Nel frattempo, mentre la giornata volgeva al termine, e padre e figlio tornavano verso casa al piccolo Piero il cazzo si era anche calmato, tornando a dimensioni e densità accettabili.
“Eh figliolo. Sei come tuo padre! C’hai un bel temperamento! Se io ne ho fatti otto tu ne farai almeno quindici! Sono fiero di te!”
Piero non capiva molto. Il preside prima lo aveva proprio cazziato di brutto e dopo il padre invece di bastonarlo forte lo elogiava.
“Papà io mica ci voglio tornare a scuola domani.”
“E mica ci torni, da domani vieni nei campi con i tuoi fratelli grandi.”
Giovanni sputò per terra e si fermò a guardare la campagna circostante, con il figliolo al suo fianco.
Il tramonto sulla piatta pianura sagomava in controluce le due figure proiettando le loro ombre a decine di metri dietro di loro.

“Fanculo. Braccia donate all’agricoltura.”