L'incipit della settimana

ELABORATO TESTUALE DI TOT PAROLE: "L'antico vaso andava salvato"
STRINGA AUDIOVISUALE DIGITALE PROVENIENTE DA QUALCHE SERVER: "Youtube"
RETTANGOL CARTPLASTIC CONN'IMMAGIN STAMPAT QUAS BEN:"Perdita di tempo"
Ctrl+c, Ctrl+v, STAMP-E-PORT-LE-FOGL:"Glutammati sto sodio"

venerdì 30 dicembre 2011

Pietro cerca di spiegare a Carlo le cosce di una ragazza. Il risultato non è notevole seppur apprezzabile per lo sforzo.

(Tante voci e un forte brusìo di sottofondo. Rumori da bar, o da qualcos’altro.)

- Per la barba di Verdi e i baffi di Brahms, Pietro, stai ancora parlando di sesso?

- Non sono io che parlo di sesso, Carlo, semmai è il sesso che fa parlare di sé, non vedi?

- Vedo cosa?

- Quella ragazza seduta al tavolo, con i capelli lunghi e mori, un po’ mossi…

- Sì, vedo, dimmi.

- Vedi le sue cosce?

- Ebbene?

- Ti paiono nascoste da una fitta trama di fili di tessuto intrecciati?

- Ehm, no, posso vederle…

- Infatti. Ti paiono forse astutamente messe al riparo dagli sguardi dei passanti? Dimmi dimmi…

- Non mi paiono così, piuttosto il contrario, le possono scorgere tutti.

- Le possono semplicemente, come fosse una contingenza che esclude la necessità, o le devono, secondo te, vedere?

- Le possono, a parer mio.

- Così la pensi tu, vecchio mio, ma ho buone ragioni per credere che lei, la ragazza, non la pensi allo stesso modo.

- Pietro, accidenti, non ti capisco, sei ermetico come De Gregori, spiegati meglio!

- Vedi, Carlo, tu dici che io sono fissato col sesso. Ti dico, invece, che in quelle cosce io leggo la poesia antica che spiega tutto dalle origini, meglio, la poesia delle origini per eccellenza! Fai attenzione. Non la senti, proveniente da loro, la melodia millenaria, che ti canta i versi di una verità eterna e dal principio immutata? Ora, ti chiedo un piccolo sforzo, pur in quest’ora tarda di questa serata strascicata. Immaginati per un attimo l’uomo primitivo, prendine uno a tua scelta. Immaginatelo davanti alle cosce della sua donna primitiva. Non avrà sentito anche lui le note di questa sinfonia? Quindi immaginati l’uomo dell’antico impero dei faraoni, innanzi alle cosce ambrate della sua donna egiziana. Anche lui, non credi, le ha percepite? Ancora, il romano forte e guerriero, e le cosce della donna latina, che gli si svelano come sublimi depositarie del segreto più lontano. Anche quest’uomo, io credo, ne è rimasto incantato. Tutto questo per dirti, vecchio mio, che probabilmente quella ragazza dai capelli un po’ mossi la sa più lunga di tutti noi poveri cristi messi insieme, e solo pochi, che dico, pochissimi, se ne accorgono.

- Mah, Pietro, non saprei, forse è solamente un po’ puttana…

- Non so, in effetti la questione andrebbe analizzata più a fondo, ma hai capito quello che ho cercato di spiegarti?

- Se devo essere sincero, poco, e mi correggo, sei più ermetico di De Gregori, ma ti ringrazio lo stesso.

- Non c’è di che, Carlo. Piuttosto raccontami un po’ te, come sta andando la storia con F…

(Il forte brusìo copre la conversazione, appena in tempo.)

venerdì 23 dicembre 2011

Lettera a Carlo (o Lettera della panca)

Caro Carlo,

tu che sai ascoltarmi da vero amico, che ti prodighi nel darmi consigli ben ponderati e mai improvvisati, che ti preoccupi per me e per la mia vita, ti devo confidare una cosa, un fatto accadutomi, un evento che è riuscito a turbare giorni che credevo potessero scorrere con serenità.

Tu sai, fratello mio, che da un po’ di tempo a questa parte ero riuscito a trovare dentro di me una sorta di serenità interiore, una specie di tranquillità d’animo, che mi permetteva di affrontare le giornate a cuor leggero, senza particolari preoccupazioni, che anzi consideravo un lontano ricordo, e di cui non prospettavo un imminente ritorno.

Tu sai anche, fratello mio, che i turbamenti che più hanno segnato la mia storia di uomo, più di qualsiasi altro, sono stati i turbamenti d’amore, dei quali immaginavo, se possibile, una ricomparsa ancora più improbabile.

Da un po’ di tempo a questa parte ero, diciamo così, seduto su di una panca assai comoda, asciutta, ben intagliata e soleggiata, e mi ci trovavo molto bene.

Ecco, caro Carlo, da circa una decina di giorni, questa panca si è interamente trasformata, ed è mutata in una sorta di icona della scomodità.

Essa non è più asciutta, ben intagliata e soleggiata, al contrario è divenuta ruvida e scheggiosa, tutta ondulata, con solchi nel legno, un legno umido e freddo, che dà su di uno spiazzo buio e ombroso. Tutto questo, voglio che tu lo sappia, una ragazza l’ha causato.

Una ragazza di cui mi sono innamorato, sì, e giuro, ti giuro credevo non potesse in alcun modo accadermi una cosa simile, in questi giorni invernali così pieni di pensieri malinconici e noiose faccende da sbrigare.

La mia tranquillità, la mia serenità interiore, aah… Queste sì che posso dirle un lontano ricordo!

Ora sull’umida panca l’unica immagine che mi si prospetta costantemente è l’immagine di lei, dei suoi capelli biondi, dei suoi occhi verdi, dei suoi sorrisi, e ciò che mi turba profondamente è che da questa panca non riesco ad alzarmi, non riesco a muovere un passo.

L’unica cosa che so è che riuscirò ad alzarmi soltanto il giorno che la vedrò venire verso di me, il giorno che mi prenderà per mano e mi dirà di seguirla, il giorno che scompariremo insieme mano nella mano, e quel giorno, mio fedele amico, temo possa non arrivare mai!

Caro Carlo, questo è quello che mi è successo, e che mi sta succedendo.

So che con le tue parole saprai guidarmi nella migliore direzione.

Nel frattempo, tu che puoi, tieniti ben stretta la panca più comoda che hai, che quella scomoda arriva da sola, e soprattutto, quando meno te lo aspetti.

tuo amico e fedele compagno, B. Renoir

martedì 20 dicembre 2011

«DANNAZIONE, DATEMI TEMPO FINO A STASERA, VE NE PREGO»

«Dannazione, datemi tempo fino a stasera, ve ne prego», «Dannazione, datemi tempo fino a stasera, ve ne prego», «Dannazione, ve ve…ve ne prego…». La voce si rompeva in singulti, balbettava, non riusciva a portare a termine le parole. Marco stava in un angolo della cucina, tra il vecchio frigorifero che ronzava da qualche anno e il tavolo, ancora apparecchiato per tre. Non aveva vie di fuga, non poteva scappare dall’ira dei genitori che in quel momento erano posizionati proprio di fronte a lui, a qualche decina di centimetri di distanza. «Ve ne prego, ve ne prego»: Marco addossato alla parete, vestito di un abito che mai gli era piaciuto e che aveva comprato sua madre quando seppe che il figlio sarebbe andato a lavorare in banca; «un completo grigio, se lo avete a righe, meglio» «taglia…penso che porti quella di suo padre, una 46» «sì sì, non importa se è in lana secca, basta che non venga troppo, sa, i giovani d’oggi». Marco si era immaginato più volte la madre a comperare per lui quel vestito, forse d’occasione; ma gli stava male, soffriva le spalle larghe e la lunghezza eccessiva della giacca: dove gli arrivava? A metà coscia, al ginocchio, se avesse lasciato la camicia fuori dai pantaloni certamente i suoi responsabili non se ne sarebbero accorti. Ma in quel momento, poco interessava a Marco dove la madre avesse comperato quell’abito: addossato alla parete, la giacca si piega e si ripiega e si stropiccia in seguito ai movimenti contro il muro; i revers stanno lì, sospesi, ormai senza più forma dopo che il ragazzo fu preso poco prima dal bavero e sbattuto dal padre contro il congelatore.

«Dannazione, datemi tempo fino a stasera, ve ne prego» continuava a ripetere sommessamente Marco: ma suo padre gli era addosso, sentiva il suo fiato pesante, si guardavano negli occhi, Marco lacrimava, fissava la polo che indossava l’uomo che aveva di fronte; non riusciva ad immaginare suo padre senza quella polo, una Lacoste nera, lisa, di una ventina d’anni prima; si ricordava il padre giocare con lui bambino con quella polo, lo aveva visto nelle foto, l’aveva a quel picnic coi parenti, nella cornice in salotto era seduto – Sicilia? Spagna? Rimini? – su una sedia di paglia, un bambino in braccio… e ora, con quella stessa maglia addosso, era lì, di fronte al figlio, misurava una sberla, lo tirava dalla giacca, lo insultava. Marco non reagisce, non può, le lacrime gli segnano il viso, stringe il pugno sinistro dietro di sé e con la mano destra gratta con le unghie il muro: quel rumore, quel ronzio, quel cric-cric che la cheratina fa a contatto con gli sbalzi della vernice della parete dietro di sé gli riempie le orecchie, sente quei suoni dentro di sé.

La madre, rimasta finora a guardare, ora scompare da dietro la porta della cucina, Marco sente i passi di lei avviarsi lungo il corridoio, tac tac tac tac tac, la sente arrivare alla sua camera, si ferma, “chissà cosa starà facendo”, Marco sente oggetti cadere, “mia madre starà sicuramente cercando qualcosa”, ancora rumori, plastica su plastica su plastica, qualcosa è attutito da qualcosa di morbido, forse un pigiama, una felpa…e di nuovo quei passi: la donna ritorna, la donna entra nel locale in cui sta il resto della famiglia, Marco guarda, si gira verso di lei, l’uomo davanti a Marco non si accorge di ciò che è avvenuto, continua a minacciare il figlio. «Ma perché» Marco implora la madre «no, la prego, la prego» che tiene con le mani due, tre LP, «Dannazione, datemi tempo fino a stasera», Nick Drake, il volto fiero di Coltrane fisso sulla copertina di A love supreme; Rain Dogs… «fino, fino a stasera» ma la donna estrae con noncuranza i dischi dalla confezione e li porge davanti a sé rompendo i vinili e lasciandoli cadere a terra. Quelle copertine, quel viola, quell’uomo seduto che imbraccia una chitarra, bianco, nero, quella donna con quella giacca a quadri, tutto si mescola nelle lacrime che sgorgano dagli occhi di Marco, i monosillabi fiochi, il tremore agli avambracci.

Ad un certo punto suona il campanello. Per qualche istante tutto si interrompe. Va la madre: «Chi è?» «Giulia? …Scusi, ma cerca qualcuno?» «Come? Marco? Un attimo, chiedo». La donna appoggia il citofono, entra in cucina cercando di scansare i pezzi di ciò che rimaneva dell’album di Tom Waits; si abbassa verso il figlio, che cercava di raccogliere quei cocci neri che spaziavano sul pavimento. «C’è una certa Giulia che chiede di te. Chi è?» Marco cercò di pensare, mille volti gli vennero in mente ma non riusciva ad associare ad essi alcun nome. La sorella non poteva essere, si chiamava Sara, ne era sicuro; c’era sì quell’amica d’infanzia, Giulia Piccolomini che stava al terzo, con cui da bambino era solito giocare a pallone giù nel cortile del palazzo, ma non poteva essere lei. Alla facoltà di economia aveva conosciuto molte compagne di corso, ma di nessuna ricordava il nome. “Forse è quella ragazza che era passata dallo sportello lo scorso lunedì”, pensava, “Giulia… sì, si chiamava proprio Giulia”: una giovane non bella, almeno secondo i canoni tradizionali, timida, arrossì quando dovette chiedere a Marco delle informazioni per un prestito; lavorava come cassiera in un supermercato in periferia, aveva detto, abitava con una collega, i soldi le servivano per comprarsi un’auto, «Sai» aveva detto «ho sfasciato la mia macchina giovedì sera, tornando dal lavoro». Marco la prese subito in simpatia, sostenne la sua pratica nel momento in cui dovette presentarla al direttore della banca, e quando – dopo qualche giorno – la chiamò al supermercato per dirle che il prestito le era stato concesso, lei volle sapere il suo indirizzo per venire a ringraziarlo di persona. Marco, che si asciugava le lacrime con la fodera della manica, disse che si trattava di una cliente della banca: «Niente di importante» balbettò, «è solo una commessa della Coop che è venuta a chiedermi un prestito la settimana scorsa, ma niente d’importante, mi creda».

La madre, che stette ad ascoltare le parole del figlio con attenzione, sorrise e andò di fretta al citofono: «Signorina? È ancora lì? Ma salga, venga a salutare mio figlio, gli farà molto piacere». A quelle parole Marco si sentì mancare: il vestito tutto spiegazzato, addirittura lacerato sul colletto, suo padre aveva fatto saltare addirittura un bottone dalla camicia. Le lacrime, come le scie luccicanti delle lumache, gli segnavano il volto; gli occhi erano gonfi, le mani gli tremavano, a terra stavano i suoi dischi, a pezzi: si augurava una crisi epilettica, voleva scomparire, non poteva farsi vedere da quella ragazza in quelle condizioni. Ma dopo qualche minuto l’ascensore, accompagnato dagli strani rumori del cavo lungo il binario nella tromba delle scale, ecco giungere al suo piano; Giulia, così si chiamava, non dovette nemmeno premere il campanello alla porta: Marco sentì sua madre che le apriva, invitandola ad entrare. Passi felpati lungo il corridoio, uno due tre quattro cinque: Marco vide la ragazza, le guance rosse, un piccolo mazzo di fiori gialli nella mano, la vide fare una smorfia come di incredulità, di improvviso spasimo nel guardarlo lì, a terra, seduto contro il muro mentre il padre lo sovrastava.

Ma all’improvviso tutto scompare, un grido molto forte nella notte, un balzo in avanti nelle coperte, caldissime: Marco è sveglio nel suo letto; deve aver pianto, durante quell’incubo. I genitori, al piano di sopra, si lamentano dell’urlo, battendo con una ciabatta che risuona sul soffitto della sua camera.

lunedì 19 dicembre 2011

Divari [ A cosa servono le ali se poi vivi come un pollo?]


[Domenica sera nella fretta di correggere e stampare il racconto ho dimenticato di copiare proprio la frase contenente l'incipit. Sbadataggine. E' inserito alla fine del racconto. E tra parentesi, visto che ci siamo: il "ve ne prego" non mi piaceva molto. Il mio personaggio mentre chiede altro tempo lo fa con violenza, spezzando una penna tra le mani. non poteva pregare il suo caporedattore con quel "ve ne prego"! Gionata è orgoglioso, la sua stessa natura gli impedisce la supplica.]



Gionata pensò che ispirazione era una parola importante, formata da più lettere del consueto.

Suonava lontana e potente.

Si diceva che i grandi poeti della storia avessero agito sotto dettatura del proprio inconscio, o indotti alla scrittura sotto l'effetto di una qualche sostanza chimica che immunizzava la risposta neuronale.

Trovare ispirazione nell' aumento del prezzo della benzina o nelle manovre economiche del nuovo governo era difficile. Gionata si sentiva proiettato in una di quelle epoche future di cui molti film avevano provato a fantasticare.E pensò che di certo mancava a questi film tutto il crudo realismo a cui era stato preferito la mirabolante tecnologia.

L'era grigia aveva avuto inizio nel momento in cui la madre aveva consegnato a Gionata le chiavi di casa e il biglietto del trasporto locale, con cui per la prima volta egli avrebbe dovuto raggiungere, non accompagnato, il centro urbano.

La prima volta che mise piede sul mezzo vide schizzare la sua infanzia in un luogo remoto, remotissimo.

Entrato in uno spazio temporale che non gli apparteneva, Gionata decise di ricercare quello che aveva perso. Ovvero la visione del mondo in alta definizione. Cos'era successo al mondo? Dove erano finite le tonalità del rosso?

Il cemento aveva uniformato lo spazio comune a rischio di causare qualche incidente.

Il cielo e l'asfalto si erano uniti e Gionata, non capendo che il cielo è azzurro solo quando lo disegna un sognatore, era andato a sbatterci il naso.

Gionata per vivere scriveva, trattava tematiche quotidiane di forte rilievo, spesso si trovava a scrivere di geniali manager, famosi economisti e mirabolanti medici che salvavano vite umane.ù In realtà pensava che gli scrittori avessero salvato la sua, di vita. Un libro era un rifugio dove Gionata poteva vedersi tornare bambino, tremante alla fermata dell'autobus, stringere tra le dita il primo biglietto verso la maledizione.

Una volta sceso da quell' autobus aveva arricciato le narici, causa improvviso tanfo proveniente dal tombino su cui aveva posato il piede.

Si chiese perché li intorno non ci fosse neppure un albero. Pensò che la natura la vedi in Tivvù solo quando passano Geo and geo.

Così aveva cominciato il suo catalogo della città che non c'era, ma che ognuno avrebbe desiderato e nessuno aveva il coraggio di pretendere.

Ogni qual volta si fermasse a chiedere consiglio, convincendosi che era il caso di chiedere l'opinione di chi abitava con lui, i passanti lo fissavano con aria seccata e le mamme ritiravano spaventate i figlioli, turbate dall aspetto inconvenzionale di Gionata.

Nessuno poteva capire che ogni parola che Gionata scriveva sul taccuino di pelle nera, era un timido germoglio che spuntava dalla costosa Louis Vuitton di una passante.

Assistette stupito alla crescita di una rigogliosa pianta di prezzemolo che aveva trovato humus nell' orecchio di un imperturbabile poliziotto.

I bambini sorridevano divertiti nel vedere carote, zucchine e dalie spuntare dalle fessure dei Sanpietrini, e udirono distintamente il frastuono di uno stormo di chiurli risvegliati dalla rapidità di quella primavera.

Più Gionata scriveva, meno la gente si interrogava sul carovita ed il bollo dell'assicurazione da pagare alla scadenza del 2011.

Lo spread era una rara specie di rabarbaro britannico, il Bundt un alce rossa proveniente dalle foreste germaniche.

Gionata alzò gli occhi estasiato verso il sereno alce che placidamente brucava un cespuglio di mirtilli, ma venne bruscamente richiamato da uno squillo insistente.

"Pronto G., il pezzo doveva essere pronto per le tre!"

"Sig. R. posso spiegarle, io cercavo l'ispirazione... l'ho trovata.. ma non quella che intendeva lei...io.."

"Ma quale ispirazione bisogna trovare per un articolo di economia?Il tempo scorre e il giornale deve uscire, con o senza di lei. Le do tempo un ora, se no puo' pure pensare di non rimettere più piede qua dentro."

Il signor R. interruppe bruscamente la chiamata.

Gionata pigio' inutilmente il tasto termine di chiamata, osservò il vecchio taccuino e il fitto intrigo delle sue ultime divagazioni, e lo ficcò in borsa.

Il grigio del cielo aveva acquistato una leggera sfumatura color topo. Si morse le labbra, indizio rossastro nell' intero paesaggio del suo volto.

"Dannazione" -mormorò stringendo tra le dita la bic mangiucchiata, fino a spezzarne la plastica consumata - "datemi... tempo... fino a stasera! "

Chiuse gli occhi ed immagino che le persone che gli camminavano intorno stavano sorridendo rallentando il passo, chiacchierando amabilmente con chi condivideva lo stesso pezzo di strada, anche se non era suo amico su facebook. E neppure un followers di twitter.


Curiosità

Di notte l'unica luce a bordo era quella della timoniera illuminante i volti dei timonieri; il resto era immerso nelle tenebre. Chiunque avrebbe temuto il mare notturno, buio, profondo e imperscrutabile. Ma Andreas no. Si era imbarcato la prima volta a quattordici anni, e a distanza di dieci anni il mare notturno era per lui come una culla in cui ristorarsi.
Era mezzanotte di una fredda ma placida notte invernale, e Andreas era sul ponte, a fumare una sigaretta e a pensare. Pensava a tutti i viaggi che aveva fatto, a tutte le terre che aveva visto, alle donne che aveva conosciuto nei porti in cui si era fermato, a Ester, che gli era rimasta così impressa nella mente e nel cuore, e che probabilmente non avrebbe più rivisto.
"Ti piace il mare, ragazzo, vero? Io lo amo. Come niente al mondo. Soltanto la musica è all'altezza del mare." Una voce profonda colpì Andreas alle spalle. Il ragazzo si voltò. Un uomo, con una giacca di seta e un grande fiocco all'anarchica lo fissava. Era un passeggero, sicuramente. Nessun marinaio poteva permettersi vestiti del genere. Nonostante il suo aspetto elegante, aveva tuttavia qualcosa di insano. Era magro, quasi smunto. "Si.. mi piace..mi fa sentire a casa."
L'uomo lo guardò e annuì, gli chiese poi un pò di tabacco e si sedette sulle funi arrotolate con un fare menefreghista che irritò alquanto il giovane marinaio.
Ora che questo strano tizio gli aveva rivolto parola, Andreas voleva scoprire tutto di lui. Chi era? Da dove veniva? Dove andava? Cosa faceva? Provava una assurda curiosità per questo sconosciuto, come quando approdava in una città che non aveva mai visto e non vedeva l'ora di scendere dalla nave per scoprirla tutta.
Ma quel silenzio era fastidioso. Andreas stava per romperlo, per domandare qualcosa, ma lo sconosciuto lo anticipò chiedendogli: "dimmi, marinaio, quali luoghi hai conosciuto nei tuoi viaggi?"
Andreas prese a raccontare le assolate spiagge del mediterraneo che aveva visitato: la soleggiata e popolosa spagna, con le ragazze che ridono e ti portanoa ballare nei locali del porto, le profumate spiagge del Marocco, gli astuti mercanti dei bazar africani, la bellezza della terra d'Egitto, e la ricchezza delle antiche costruzioni della città di Istambul. Là, in quella città antichissima aveva incontrato Ester. Raccontò, a questo sconosciuto di cui non sapeva neppure il nome, di quando al mercato aveva notato una venditrice di arance dai profondi occhi neri. L'aveva conosciuta, ed amata. Ma poi era dovuto ripartire, ed aveva ignorato la parte di cuore che gli diceva di abbandonare la nave e rimanere in quella città per sempre. Non ce l'avrebbe fatta. Amava troppo il mare, l'aria salmastra che ti secca la pelle, il cullare delle onde, la profondità del silenzio notturno e la turbolenza delle tempeste.
Lo sconosciuto fissava le onde buie, ma lo ascoltava con attenzione. Andreas narrava e ogni tanto l'altro gli chiedeva di raccontargli dei particolari. Passarono ore, fino a quando non arrivò l'alba, e con essa, l'approdo nel porto di Genova.
" E' giunta l'ora di separarci mio giovane amico. Devo scendere qui, e tu devi continuare il tuo viaggio."
disse l'uomo dalla voce profonda. Andreas lo guardò, con aria mesta "tu sai tutto di me e io non conosco nulla di te, neppure il tuo nome. Dimmelo, ti prego, ché io sappia chi sei, e dove stai andando."
"Il mio nome è Albert. Dove sto andando non lo so. Dove ci siano storie da raccogliere e da raccontare."
Era chiaro. Non servivano altre spiegazioni per Andreas, aveva compreso.
I due amici fumarono l'ultima sigaretta insieme e poi si separarono, con un ultimo sguardo di intesa, consci del fatto che solo il Destino avrebbe potuto farli riincontrare.

devo fare la pipì

Lasciatemi fino a stasera ve ne prego, il sole è ancora alto e filtra dai vetri appannati, ricade sulle sue gambe e sul suo grembo. È cosi bella quando si abbandona fra le lenzuola, con le mani si stropiccia gli occhi e si inumidisce le labbra, piene, carnose, rosse. Mi guarda e sorride. Dio se è bella, candida e cosi innocente, si apre al mondo con fiducia disarmante. Come vorrei che fosse un’usurpatrice, una despota, invece mi sussurra nelle orecchie parole dolci e mi guarda con amore. Mi disarma. Datemi fino a stasera ve ne prego. Come posso guardarla in faccia e dirle che non la amo? Come posso dirle che il mio cuore è di un’altra? lei cosi dolce, cosi pura, cosi...
«A cosa pensi?»
«Io? Nulla... perché? »
« Avevi uno sguardo strano..mmm ok mi alzo e vado a fare due uova ?!»
Nuda se ne va in cucina, sulle punte dei piedi perché il pavimento è freddo, chiude la porta dietro sé e apre il frigorifero, il telefono squilla, lei risponde..
«Si Monica, sono io, si, ma non adesso, dammi fino a stasera te ne prego. Si lo so, ma dovevi vederlo questa notte, cosi dolce, cosi amorevole. Lo so, glielo dirò lo prometto, solo lasciami vivere questo momento ancora una volta come se nulla potesse mutare. Si ok, ok adesso devo andare. »
Lui entra in cucina, anch’egli nudo, la bacia sulla fronte.
Tutte le domeniche nudità, uova, pane, burro sole e infine caffè.

Almeno fino a stasera.

sabato 17 dicembre 2011

ATTESA

Un giorno di metà novembre il professore Dino Malvasia, ordinario di letterature comparate dell’università di Verona, si recò con la moglie presso un nuovo ristorante-tavola calda in periferia per provare il filetto al pepe verde consigliato da alcuni colleghi. «Troverai posto sicuramente» avevano detto i giovani compagni «il grill è in zona industriale e il parcheggio è molto grande». All’ora di cena i posti auto erano effettivamente molti, ma tutti occupati: il professor Malvasia parcheggiò la sua Mercedes in doppia fila con le quattro frecce giusto il tempo di aspettare che qualcuno partisse; la moglie, che lavorava come analista nel laboratorio di enologia della facoltà di biotecnologie, si chiedeva, torturando la pochette di Hermès, se il vino che potevano avere in un luogo così frequentato e un po’ anonimo (da fuori il tutto le dava l’idea che i gestori avessero rilevato una fabbrica e l’avessero trasformata senza molti accorgimenti in un ristorante) sarebbe stato un buon accompagnamento ai piatti di carne che tanto erano stati pubblicizzati dai collaboratori del marito. Ma non importava: ridendo sia lui che lei, un’utilitaria rossa se ne stava andando proprio davanti a loro; Malvasia parcheggiò con facilità e i due entrarono per cenare.

Un enorme salone davanti a loro, a destra e a sinistra altri ambienti, certi più piccoli, taluni più grandi. Tutto è ricoperto dal legno, immense travi al soffitto, parquet a terra, i tavoli in mogano sono disposti con perfezione lungo una sorta di direttrici “cardo-decumano” che portano dalla cucina all’uscita e dalle sale laterali fino al bar. Alle pareti un mondo di chincaglierie del passato è appeso con ganci e stratagemmi del fai-da-te ammiccando alla clientela: maglie da calcio irrispettose dei ruoli che furono (Socrates verdeoro accanto a Vieri: il professor Malvasia impallidì) sono inchiodate ai tramezzi di legno; al di sopra della porta di ingresso campeggia una vecchia Due Cavalli color carta da zucchero (probabilmente privata di motore ed assali per poter vincere la personale sfida di resistenza con il muro portante che la regge); un’enorme canoa con due remi è fissata sopra le teste degli astanti in una saletta completamente occupata da giovani coppie; una Lambretta con targa inglese è parcheggiata con un supporto speciale in mezzo ai tavoli del salone principale: molti bambini attorno, alcuni si limitano ad osservarla, uno tocca i pulsanti del manubrio, l’altro vorrebbe smontare la ruota di scorta montata sul portapacchi cromato; nessuno tenta invece di salirci: i proprietari del locale hanno pensato di posizionare sulla lunga sella un perturbante manichino in legno vestito con parka verde, completo a righe, Clarks marroni, che nemmeno in un libro di Jonathan Coe.

I due coniugi vennero fatti accomodare a sinistra della grande sala all’ingresso: accanto a loro varie famiglie, alcune numerose – poppanti, bimbi in età scolare e adolescenti – mentre i figli unici a tavola coi genitori si annoiavano e giocavano coi loro Game-Boy. “È un peccato non aver portato anche Mario” pensava la signora Malvasia, ma il marito, ben sapendo che il giorno dopo il tredicenne avrebbe avuto un compito sulle civiltà precolombiane, aveva deciso che sarebbe stato a casa con la nonna per poter andare a letto presto. «Ma guarda le strane divise che hanno in questo ristorante» rise il professore, indicando con un veloce cenno dello sguardo una cameriera che camminava con un vassoio straripante di bevande. Una camicia bianca con la manica a sbuffo è accompagnata da un foulard rosso annodato al collo alla maniera del lupetto boy-scout; un grande grembiule grigio gira attorno alla vita, e uno strano cappellino a visiera larga lascia scoperti i capelli sulla sommità della testa. La ragazza inciampò distrattamente salutando un conoscente ad un tavolo e un po’ di Coca Cola le si rovesciò addosso: Dino Malvasia sorrise della poverina e a lui si aggiunse la moglie; la cameriera, accorgendosi dei due, arrossì – timida – e appoggiò il suo vassoio al tavolo a cui le bibite erano destinate: distribuì i bicchieri ai clienti e se ne andò, accelerando il passo davanti ai due coniugi colpevoli di quella sottile derisione.

«Ma tu guarda che figura…» subito la donna ammonì il marito, in cuor suo dispiaciuto della brutta impressione che poteva aver lasciato su quella cameriera; «Lo so, lo so…ma io ridevo per la strana uniforme, e poi a tutto si è aggiunta anche quella mezza caduta». La moglie guardava Dino quasi volendolo rimproverare, ma il professore raggiunse lentamente la mano di lei e la accarezzò, raggiungendo nuovamente l’intesa che se ne era andata per un fatto così futile. Intanto, il tavolo accanto a loro si liberò; una cameriera arrivò per riscuotere il pagamento della giovane famigliola, e prese l’ordine dei Malvasia: «Due filetti, per favore, un’insalata mista e un piatto di verdure cotte». «Da bere?» «Una bottiglia di Cabernet Sauvignon, grazie» disse la donna con fare insicuro ma deciso: la cameriera prese l’ordine, sorrise ad entrambi e se ne andò. Aspettando le portate, la signora Malvasia approfittò del tempo per raccontare al marito l’ultima marachella del figlio: Mario da un po’ di tempo aveva preso l’abitudine, secondo lei piuttosto macabra, di cacciare farfalle per poterle poi collezionare in un’apposita bacheca di vetro che teneva nella sua cameretta. La mattina di quel giorno, allontanandosi nell’ora di ricreazione dai suoi compagni per raggiungere il piccolo orto nel cortile della scuola, riuscì ad acchiappare chissà in quale maniera una satiride appoggiata ad una margherita: in classe, le raccontò la professoressa quando andò a prendere il figlio, aveva attaccato la farfalla ad un pezzo di cartone con delle puntine da disegno confitte nelle ali, e rimase, quasi estasiato da quell’impossibile movimento, a guardare il piccolo insetto morire. Il professor Malvasia, che ricordava ancora quando, preparando il suo nuovo corso sulla vita e la poetica di Vladimir Nabokov, lesse al figlio le pagine in cui Fëdor Konstantinović

cercava invano di occupare quel tempo gonfiato, esagerato. Una farfalla rara, catturata un paio di giorni prima tra i mirtilli della torbiera, non si era ancora essiccata sullo stenditoio; continuava a toccarle l’addome con la punta di uno spillo: ahimè, era ancora molle, e dunque non poteva ancora togliere le striscette di carta con cui aveva intieramente ricoperto le ali che era così impaziente di mostrare al padre in tutta la loro bellezza,[1]

non sapeva se sentirsi responsabile di questa deriva perversa del figlio oppure essere contento per l’approccio letterario che il ragazzino aveva dato alla sua nuova attività. Ma in quel turbinio di pensieri arrivò una cameriera con il vassoio, due calici, la bottiglia di rosso e la notizia che per il filetto bisognava aspettare ancora a causa di un disguido nelle prenotazioni.

Le farfalle nella mente di Dino Malvasia prendevano il volo nel momento dell’assaggio del vino, che giudicò buono con un impercettibile gesto della mano, e che versò alla moglie appena la giovane se ne andò; i due coniugi presero a parlare d’altro e sgranocchiavano intanto del pane che si trovava in un cestino sulla tavola: commentavano l’abbigliamento delle signore sedute al tavolo di fronte al loro (ma che differenza tra le due donne! L’una forse troppo sobria nella scelta di abiti comperati con ogni probabilità in uno di quei negozi nel vicino centro commerciale…ma l’altra in tutta la sua esuberanza – indossava forse un Cavalli? Un Moschino? – risultava, nel contesto di tutto il ristorante, addirittura inadeguata, un po’ comica), discutevano sull’educazione dei figli altrui, erano soddisfatti per la scelta di un amico professore del dipartimento di anglistica di chiedere un trasferimento a Brighton.

«E il film di Allen che hai visto con Barbieri, ti è piaciuto?» chiedeva distrattamente la moglie dopo una buona mezzora di attesa per i due filetti; nonostante l’entusiasmo del marito, che cominciò a parlare della bontà attoriale di Owen Wilson e la trovata del regista di far rivivere l’ “intellighenzia americana degli anni venti” in una “Parigi fotografata splendidamente”, la donna decise di recarsi in bagno per assumere il suo farmaco contro l’emicrania, che cominciava a farsi sentire già da alcuni minuti. Si alzò dalla sedia scusandosi col marito e chiedendo al personale dove fosse il bagno: davanti a lei altre quattro signore, due si conoscevano e si scambiavano i numeri di telefono cellulare. Sembrava non si vedessero da molti anni: “strano incontrarsi in posti come questo”, pensava dal canto suo la signora Malvasia con l’astuccio in mano.

Al tavolo, il professor Dino intanto vedeva la goffa cameriera che prima aveva involontariamente ridicolizzato avvicinarsi con due piatti. Salutò, e con il suo sorriso sembrava essersi dimenticata di quel piccolo screzio compiuto dallo sconosciuto cliente; appoggiò i due filetti e se ne andò. Malvasia si versò dapprima un altro bicchiere di vino, giusto per aspettare la moglie che non arrivava; dopo alcuni istanti si decise a tagliare la carne: «È un peccato», disse, «quando Luisa tornerà la troverà ancora più fredda».



[1] Vladimir Nabokov, Il dono, Milano, Adelphi, 1963, 2010, pp.163-164.

martedì 13 dicembre 2011

«PERCHÉ MI HAI ABBANDONATO?

Di notte l'unica luce a bordo era quella della timoniera illuminante i volti dei timonieri; il resto era immerso nelle tenebre. Gesù Cristo appoggiato al parapetto della piccola barchetta, unico essere umano sul ponte dell’imbarcazione, a braccia conserte guardava il mare orizzontale: già da molto tempo si chiedeva chi avesse reso pubblico il numero di telefono del suo appartamento italiano. Frequentava sì molti circoli mondani, i magnati americani lo invitavano ai tavoli del Rotary di Chicago a discutere sulle possibilità di istituire piccole comunità di mormoni all’interno dei reparti “montaggio e verniciatura” della Ford Motor Company; allo stesso modo in Europa fu spesso invitato ai principali festival cinematografici da filosofi e docenti di prestigiose università in tavole rotonde che affrontavano tematiche come “La morte nel cinema di Bergman: una possibilità di redenzione?”, [1] oppure la recente “Ateismo o ebraismo? La Torah nei fratelli Coen”: [2] ma nessuno degli intellettuali e ricchi industriali che incontrava poteva aver dato ad estranei il suo contatto privato.

Lo scorso mese il Cristo diede un party vegano nella sua abitazione milanese con gli amici dell’adolescenza – i coniugi di Cana, l’antipatico Giuda Iscariota, i dodici con cui da giovane faceva trekking fino al Cranio, la sensuale Lisa, la facile Maddalena dalla “erre moscia” – e il giorno dopo, svegliatosi solo (si sentiva ancora – seppur impercettibilmente – avvolto nei fumi alcolici dell’ottimo Barbera che aveva fatto sgorgare a fiumi dalle crete e dai vasi in maiolica del soggiorno) si recò nel bagno per togliere i rimasugli di una serata a conti fatti riuscita che stavano sui lunghi capelli e sulla folta barba. A torso nudo, il fallo e le cosce avviluppati in un asciugamano da ospiti in spugna bianco, le rughe profonde riflesse nello specchio ovale davanti a sé, sentì il telefono squillare: il primo cittadino di San Vito Lo Capo gli chiedeva uno dei miracoli che solitamente faceva davanti a capi di stato, magari accompagnato dal Papa. Si trattava di moltiplicare la quantità del pescato nel golfo di San Vito per vincere una sfida lanciata al sindaco della cittadina di Mazara del Vallo, da sempre uno dei centri più pescosi nell’intera Italia meridionale. Il Cristo, la cui agenda fitta fitta non permetteva appuntamenti di così poco richiamo internazionale, rifiutò cortesemente; fu però all’ora di pranzo che chiamate simili a quella precedente si fecero più insistenti e sempre più ridicole: un pastore sardo di Villaputzu cercava un aiuto divino per rintracciare la sua unica pecora nera, dispersa nelle montagne a ridosso del litorale; una ricca signora tedesca chiese a Gesù di poter resuscitare Gesundheit, un orribile gatto Sphynx che, per la rigida educazione ricevuta, miagolava appena sentiva un umano starnutire; un settantenne francese con la passione per la corsa di resistenza chiedeva di essere risparmiato dalle usuali contratture muscolari a livello vertebrale (si legga: “colpo della strega”) che lo falcidiavano quando, misero, tentava audaci piegamenti per allacciare le nuovissime Nike Lunarglide da ben 12 passanti regalate dal perfido genero. Il povero Cristo da quel momento non ebbe più libertà nelle sue giornate: e oltre alle telefonate ad ogni ora del giorno e della notte, vide affiggere in ogni via di Milano cartelloni che andavano ben oltre la discrezione usurpata dai manifesti contro cui Pier Paolo Pasolini manifestava il suo disprezzo il 17 maggio del 1973; [3] le pubblicità milanesi, di fatto annullando il diritto alla privacy, annunciavano miracoli suggerendo il numero fisso del Cristo stesso. Alla televisione non si parlava d’altro, tutti i talk show della rete nazionale trattavano della scelta giusta o sbagliata nel poter godere di un aiuto divino (in sovrimpressione il fatidico 02.884.62167).

Passarono poche settimane e la situazione per il figlio di Dio divenne insostenibile. Rinunciò a viaggi aerei per potersi spostare in un’altra città, anche extraeuropea: il solo pensiero che al check-in avrebbero controllato il suo passaporto lo mandava in panico; disdisse tutti gli appuntamenti ufficiali con alti prelati e uomini politici; la sera non si recava più alle feste e ai salotti della borghesia illuminata di Milano: dall’agenda in pelle martellata con cui venivano rivestite le più belle e costose Bibbie in vendita alle Librerie Paoline furono banditi i vari Fichera, Passera, Mattiuzzi; ben nascosto sotto cappucci ed abiti alquanto scuri si rassegnò a mescolarsi tra i giovani che ballavano al Tunnel e al Leoncavallo. Nemmeno andò più a fare visita a Sant’Ambrogio, che abitava nelle vicinanze dell’affollata Piazza Duomo.

Un giorno che si recava con la metropolitana a Gorgonzola per incontrare un eccentrico ma fidato critico d’arte, Gesù (nascosto sotto abiti stranamente kafkiani nel loro apparire allo stesso modo brutti e anonimi) sentì che tra i cittadini milanesi e dei comuni limitrofi [4] era in atto una sorta di insurrezione per attaccare il suo appartamento, bloccare lui e fargli esaudire qualsiasi prodigio che fosse stato richiesto da ogni uomo. Il Cristo, impaurito, se ne tornò a casa guardandosi bene le spalle e, finalizzato che nessuno lo aveva seguito, decise che sarebbe scappato dalla città per dirigersi verso il nulla assoluto, lontano dalle luci e dal frastuono urbano. Chiamò a sé il bandito Giuliano e Renato Vallanzasca, i soli che, per fisionomia e carattere, gli ricordavano i due ladroni che aveva a fianco quel giorno in cui venne messo in croce, e li costrinse a creare un equipaggio per fuggire sulle correnti del Lambro, in modo tale da incrociare l’Adda ed infine sgorgare sull’imponente Po, diretto al Mar Adriatico. Fu così che, dopo un viaggio tutt’altro che monotono,[5] il battello navigava quella sera spedito sul Po, in prossimità del mantovano: Gesù Cristo stava sul ponte, pensando agli imprevisti che gli erano capitati recentemente; guardò le insenature su cui giovani improvvisavano feste con strumenti musicali all’ombra di un falò. Si stupì del silenzio attorno a sé: gli alberi erano spiriti che oscillavano i loro rami nell’oscurità e le onde sbattevano lentamente ogni tanto intrattenendosi con la brezza fluviale; infine il Cristo si commosse nel vedere come quella notte l'unica luce a bordo fosse quella della timoniera illuminante i volti dei timonieri; il resto era immerso nelle tenebre.



[1] In occasione della proiezione della pellicola restaurata de Il settimo sigillo al Festival di Berlino nel 2004.

[2] La conferenza fu indetta dal filosofo ed ex sindaco di Venezia Massimo Cacciari per la vittoria della Palma d’oro 2009 di A serious man: al convegno, anche Emanuele Severino, Matteo l’Evangelista, Gianni Vattimo, Philip Roth, Alberto Asor Rosa, l’apostolo Paolo e il regista americano Woody Allen.

[3] Si intende l’articolo “Il folle slogan dei jeans Jesus” dapprima inserito nel Corriere della Sera e poi nella raccolta di saggi Scritti Corsari del 1975: l’intellettuale italiano rifletteva sulla reclame avente come protagonista un fondoschiena femminile inguainato in short di jeans della marca Jesus su cui stava la scritta “chi mi ama mi segua”.

[4] Questi secondo l’elenco telefonico meneghino i “comuni limitrofi”: Cormano, Bresso, Novate Milanese, Cusano Milanino, Baranzate, Buccinasco, Assago, Corsico, Sesto San Giovanni, Cinisello Balsamo, Bollate, Cesano Roscone, Rozzano, Paderno Dugnano, Pero, Opera, San Donato Milanese, Cologno Monzese, Vimodrone, Senago, Nova Milanese, Settimo Milanese, Basiglio, Muggiò, Segrate.

[5] Ci riferiamo alla conformazione del paesaggio fluviale nel lombardo-emiliano: ricco di rapide, passaggi navigabili e molte zone secche: in questi casi la ciurma si ritrovava, come nel celebre film di Werner Herzog Fitzcarraldo, a trascinare la barca mediante funi su binari improvvisati con detriti lasciati sul letto del fiume.

lunedì 12 dicembre 2011

puzzle berlinese

Penzolano dalla barba gocce condensate di birra , maledetto il freddo di questa città.
Perchè i senzatetto scegliessero proprio una città dall'ossatura così fredda, proprio non si capiva, loro che per le vie erano i padroni notturni, sarà quel suo cielo, quell'immensa sfera che copre ogni superficie alta, quelle nubi così rapide! nubi beffeggianti dei passi, che invece si scambiano così lenti.
Il suo nome se l'era scordato, nemmeno lo sapeva e poi nessuno lo chiamava per nome, ormai da più di 50 anni almeno, e la memoria non scavalcava gli anni d'infanzia ai quali il ricordo poteva attingere.
Si ricordava solo il suono del suo nome, era un suono corto e duro...sh.. beh poco importava, nessuno lo chiamava, chi ha interesse a pronunciare il nome di un clochard nudo di patrie?
Camminando tra i viali di Berlino, tiene lo sguardo basso per poter poi volgerlo di repente in alto, e giocare di nuovo con la velocità delle nubi. Si diverte, bimbo d'animo!
Conta sul terreno i numerosi tappi di birra incastrati nel cemento, reperti dell'alto stato alcolico di Belino, e li maledice: “ tutti questi tappi privi di bottiglie, dannazione!”.
Scruta ai bordi dei marciapiedi, ai piedi dei bidoni, tra i canali sotterranei della metro, vuoti di bottiglie che equivalgono a 8 centesimi cada uno.
Quando la giornata era fortunata e gli dei meno indifferenti e frivoli, riusciva a riempire il suo carrello della spesa quasi fino all'orlo, più di un centinaio di vuoti, quasi otto euro, benedizione.
Questa sera il bottino è esiguo, il carrello raggiunge solo i due quinti della capienza, niente bocconi freschi oggi, maledizione.
Cavalca a passo deciso il vialone verso kroizberg e le orecchie si inumidiscono di jazz. Il suono proviene da un club all'angolo che chiude il passaggio al viale. Si appresta rapido con lo sguardo dritto questa volta fregandosene dei tappi schiacciati al suolo.
Il naso infreddolito si appoggia alla vetrina, il jazz stringe le note, si alza d'intensità e la voce calda di una donna graffia mentre la batteria allegra sembra non risentirne.
Scorge un viso tratteggiato di spesse rughe e meraviglioso, il più luminoso di tutto il bar, del pianeta intero, la madonna! E' il viso di una vecchia, forse centenaria, forse preistorica, forse eterna, che lo sconvolge. Il nastrino nero legato ai pochi capelli secolari, le fessure degli occhi sottili e le labbra come morse stringevano una sigaretta.
Quella donna è dio, è aurea, è vita, è poesia.
Il jazz incalza di nuovo, il clochard non stacca la sua musa, la fissa nel cuore tra i reperti storici del sua animo. “ Donna senza tempo, donna del tempo, ora sei mia sposa”.
Il naso del clochard si stacca dalla vetrina d'umanità, e lo sguardo torna basso a contare i tappi, ora sono legato per sempre, pensa, quella donna mi ha in ostaggio.
Poco distante dal locale uno scultore peruviano di pochi centimetri d'altezza rappresentava il suo tempo attraverso una scultura di cemento, una barca con i personaggi della vita nel grembo. Tutti i visi diretti all' orizzonte, uno solo sembra titubante e timido, rappresenta la nostalgia,spiega. Ciro crea la sua arte a Berlino da prima della caduta del muro, e ha un'aria allegra, l'allegria della non realtà, ah poveri artisti! La DDR portava meno sventure!
Le sue opere sono alle sue spalle, in un atelier, al terzo piano di una casa occupata appesantita dai graffiti e da vetri di bottiglia agli angoli, sotto continua il jazz.
Gli stanno portando via il suo atelier, vogliono distruggere l'edificio per poterci fare un hotel a cinque stelle. Ciro sputa, una pata al culo al capitalismo de mierda! Figlio di Incas, gode della sua natura meticcia facendone follia, il nonno paterno Italiano si chiamava Ginocchio, ci ride sopra, e la nonna in linea materna era una sciamana africana, grande e larga madre d'africa.
Ciro voleva nascere storto e l'ha deciso fin dal principio lasciando uscire dal grembo materno prima i piedi e solo per ultima la testa. Si decide di vivere, non si nasce, puta la mierda! Brindiamo!
Si scende al bar dell'uomo con il capello nero, da scalette nascoste quasi volessero essere dimenticate, e così si arriva con pochi gradini alla tana dell'uomo del capello nero, che annuisce senza parlare, agli ordini di birre.
Ecco ancora gli occhi, palle immobili che sembrano capir tutto, tutto all'istante, col solo getto dello sguardo. Oste solitario, in quali turbini si arrotola la tua testa? La moquette sudicia ha le sembianze del cemento, le ragnatele sembrano far cornice ai quadri, gli sputi delle candele sui tavoli creano geometrie di cera rossa, e l'uomo dal cappello nero mangia le succose ghiande del suo pensiero.
Ed infine ecco lì, seduto al tavolo un normale ragazzo europeo, dai lineamenti gentili in esilio temporaneo nella sexy Berlino. Deposita la sua anima all'officina del fabbro più sapiente, il mondo. Casualità dei fatti, temibili circostanze! Racconta la sua storia dell'orecchino e della luna. Perde l' orecchino appeso al lobo, simboleggiante la luna. Amici di passaggio, gli insegnano che il ciclo lunare è al termine, e che presto Berlino sarà ancor più avida di freddo. Poi incontra lo sguardo caldo di un guru dalla guancia tatuata di luna e ritrova quello stesso sguardo tra un incrocio affollato di metro, e di nuovo la luna. Se di luna si tratta, il ragazzo sarà costretto ad essere schiavo del sole, ad essere il suo più armato nemico, ma a Berlino la luna è regina per più ore, mentre il sole se ne sta al lato, vittorioso di altri cieli.