L'incipit della settimana

ELABORATO TESTUALE DI TOT PAROLE: "L'antico vaso andava salvato"
STRINGA AUDIOVISUALE DIGITALE PROVENIENTE DA QUALCHE SERVER: "Youtube"
RETTANGOL CARTPLASTIC CONN'IMMAGIN STAMPAT QUAS BEN:"Perdita di tempo"
Ctrl+c, Ctrl+v, STAMP-E-PORT-LE-FOGL:"Glutammati sto sodio"

martedì 27 settembre 2011

Dieci minuti. Tre storie. Un sorriso.

Dopo dieci minuti di pioggia inaspettata ed incessante tutte le persone sono bagnate allo stesso modo. L’impiegato con il completo, la mamma con i bambini, il monsignore, la sposa, lo studente, ed io. La mia bicicletta cigola in mezzo a tutte quelle persone intente alle loro attività, focalizzate al loro obiettivo. Chi leggeva aspettando l’autobus, chi si riparava la testa con il giornale, chi stava attento a non inciampare nelle pozzanghere. Io sfreccio in mezzo a loro. Li guardo, silenzioso. Guardo i loro sguardi, i loro movimenti. Cosa staranno pensando?

Marco

Lo sapevo che avrei dovuto prendere l'ombrello. Se non fosse stato per quelle dannate previsioni! Bel tempo, dicevano. Probabilità scarsa di precipitazioni, certo. Metterei quel dottorone in divisa sotto questa pioggia. Devo ascoltare di più il mio istinto. Oddio! Si sta bagnando tutto lo zaino. Ecco, i miei libri saranno fradici ora. Arriverò a casa, li metterò sul termosifone, ma niente. Si gonfieranno tutti, rendendo la mia opera di tenerli in uno stato impeccabile inutile. Meno male che ho tempestivamente foderato l'iPod nella carta di giornale e l'ho riposto in fondo alla borsa. Si sa, acqua ed elettronica non vanno proprio d'accordo. Pensa alla validità della garanzia! Cosa avrà quel fesso da ridere tanto sulla sua bicicletta? Ridi, ridi, ti stai bagnando tutto!

Don Aldo

Ecco, piove. Le gocce stanno rimbalzando sulla tesa del cappello. Meglio chiudere la Bibbia, ora. La bacio. Sia lodato Gesù Cristo. Bene, ora è al sicuro nella mia tasca. Povero figliolo, quella confessione mi ha proprio toccato oggi. Piangeva come un agnello! Ed io? Cosa ho fatto io? L'ho riempito di risposte fatte, prese da un libro di dogmi. Avrei dovuto consolarlo. Si, avrei dovuto proprio consolarlo, dirgli che il Signore non è come lo stiamo vendendo. Ne ho fatte di riflessioni in questi anni, il suo è un problema solo perché l'abbiamo considerato tale. Dove ha detto che abita? Forse se guardo la mappa degli autobus mi verrà in mente. Dovrebbe essere questa, via Malaspina. Devo incontrarlo, devo dirgli che il Signore ha un progetto per tutti, anche per lui. Il peccato più grosso lo commetti tentando di cambiare quello che sei! Cosa fa quel ragazzo che ride? Avanti ed indietro con la sua bicicletta si sta bagnando tutto. Che bravo, nulla gli importa della pioggia, è felice!

Giorgia

Piove. Proprio oggi che mi sposo doveva capitare. Almeno sono riparata sotto questo ombrellino. Decorativo certo, ma qualcosa la fa. Lo strascico è già nero. Ecco il mio, fra poco, marito. Come l'hanno conciato! Tutto lindo, incravattato. Sotto la pioggia pure lui quindi. Beh, sposi bagnati, sposi fortunati. Starò facendo la scelta giusta? Sono pronta al “finché morte non ci separi?”. Un ripensamento già l'ho avuto, chi mi dice che non possa succedere di nuovo? Certo, mi ha perdonato. Nessuno ha saputo nulla ed oggi sembriamo proprio due felici sposini, anche se non è vero. Non sono sicura di volerlo. Adesso mi giro e me ne vado. Intanto mi fermo, ci rifletto un attimo. Guarda il ragazzo sulla bici, lui sì che si sta divertendo come un bambino sotto la pioggia.

Chissà cosa penseranno tutte queste persone che mi circondano, che mi guardano scorrazzare sotto la pioggia, in bicicletta. Devo fare qualcosa. Voglio interrompere il flusso serioso dei loro pensieri. Rido. Si sa, è contagioso!

CHUVA

Dopo dieci minuti di pioggia continuava ancora la pioggia. Chove chuva per l’appunto. Quando qui inizia più finisce. La pioggia cade incessante. Tic tac tic tac, sulla ringhiera, sulla strada, sui san pietrini. Esci veloce dalla metropolitana, la strada è bagnata e l’ombrello un po’ troppo piccolo e sgualcito da un lato. Ti lasci la porta dipinta sul muro con scritto “ è tao dificil guardar um rio quando ele corre dentro de nos” superi il piccolo ostello a cinque euro a notte del portoricano, cammini veloce sui san pietrini lucidi e bianchi, scivolando ogni tre passi, speri che l’autobus arrivi ma alla fine ti arrendi alla salita e inizi ad arrampicarti per giungere a rua capitan jose soares da insurreçao numero cinco. La strada si fa più strettina e la pioggia continua incessante, il vento a tratti spodesta l’ombrello e i capelli diventano sempre più bagnati, l’aria è fresca, sa di inizio estate, di umido, di caldo, di oceano. Sali le scalinate e finalmente l’ultima salita. Scivoli ancora, imprechi un poco, in portoghese chiaramente, fodes.. poi riprendi, guardando se qualcuno ne ha ricavato un sorriso dallo scivolio imbarazzante, la borsa pesa un poco perché i libri son di carta? E perché una pagina pesa così poco ma insieme diventano mille chili? Pensieri... arrivi alla meta, entri nel negozietto all’angolo una bottiglia di vino, un tonno, tre pomodori, 3, 75 obrigada. Entri nella porta ma prima il tuo sguardo si ferma sulla soglia, per terra una cassetta, un vhs in gergo un po’ più elettronico, un film, calligrafia incomprensibile, sembra di guerra, ti chiedi come qualcuno possa averlo lasciato li fuori solo sotto la pioggia. Guardi la casetta delle lettere che dopo un mese hai imparato ad aprire senza chiave, uff il cd non è ancora arrivato. Sali i 99 scalini ansimando agli ultimi dieci e ridi per le scarpe, le mille scarpe improbabili della pazza greca che mangia con te tutte le sere. Non vedi l’ora di vedere la videocassetta, magari è un segno, un presagio, un indizio.. poi entrando nella minuscola porta lottando fra te e la borsa piena di libri dove vince la borsa, ricordi che non hai una televisione e neppure un videoregistratore. E sorridi. Insomma perché non sorridere? È già un segno, un oggetto che prenderà polvere con i mille altri raccolti in quest’anno, bello solo per il fatto di essere inaspettato. Superfluo e inutile chiaro. Piove ancora. Chiaro. Non smette quando inizia. Guardi dalla tua finestra della casa mansardata, e senti il ticchettio fortissimo. Il sole è distante ma senti tramontare. E sorridi di nuovo, ebete. Ma son già le sette e la cena che dovrai preparare aspetta sul minuscolo tavolino, vicino alle minuscole sedie e speri che anche gli invitati come una magia diventino minuscoli entrando dalla minuscola soglia. Metti un po’ di musica, ma non troppo alta perché possa unirsi con il rumore della pioggia. Ti senti in pace, rilassata.

Improvvisamente la porta si apre capelli corvini inzuppati, sparati, sparaflescati entrano, occhi azzurri di lenti a contatto, sorriso smagliante e un porto-greco ostentato. Borse ovunque e gridolini, abbracci e poi urla, e saltelli, che musica è questa? No una lagna mettiamo qualcosa di più attivo, un elettro pop rock della grecia, si dai balliamo, la cena? Si dopo prima devi sapere, ti devo raccontare....

La pace è finita.
Ma sorridi, in fondo sei a Lisboa.

lunedì 26 settembre 2011

Le dita

i tuoi occhi erano neri,
come non mai.
Bastò uno sguardo per capire,
capire cos'era, sentire nella mia carne le tue dita
sui suoi fianchi,
le dita forti fra le costole e
il trepidio del fiato.
Mi bastò un attimo per capire.
le tue mani sui suoi capelli
le tue maledette dita
sui suoi fianchi. Sentivo dentro di me il calore dei vostri corpi
nelle viscere il tuo sguardo così penetrante
un senso di vomito
mi sgorgò dal naso
vattene maledetto amore
vattene maledetto essere
che la strada smetta di guardarvi
che questa luce sparisca
che questo ricordo finisca
vattene maledetto io
vattene amore,
amore che della mia vita ne hai fatto un gioco
un gioco, puramente riempitivo.

6. Tra la polvere e il cassetto

Nonostante la stanchezza del corpo, i pensieri le rubavano il sonno.

Capita a chi si vede ritornare nel dormiveglia un ricordo scomodo, e a chi al contrario ha dimenticato qualcosa. Lei semplicemente era troppo nervosa per l’imminente trasloco, e aveva lasciato da fare qualcosa d’importante. Come col boccone prelibato che indugia nel piatto fino a diventare sciaguratamente tiepidino, si era lasciata per ultima la cosa per lei più impegnativa. Forse erano anche le nuove austere parvenze delle stanze svuotate di ogni plausibile impronta umana. No, non era l’anonimato della parete bianca, erano proprio quegli ultimi scatoloni che aspettavano nel corridoio, in cui si erano ritrovati a convivere tutti gli elementi che facevano parte della categoria “RICORDI”. Avrebbe potuto appiccicare sopra ogni contenitore una bella etichetta con questo nome, e imbarcarli sul camion da lì a due giorni, ma sarebbe andata contro il proposito irremovibile di portare con lei solo lo stretto indispensabile, quantificabile in UNA scatola, esclusi i resti sottolineati e stropicciati dei testi universitari considerati fondatori della sua coscienza adulta. Una scatola, ovvero un terzo di tutte le cianfrusaglie, regali, monili, ricordini, bigliettini, appunti, dépliant, biglietti di treno e aereo, cartoline, ticket di spettacoli, portapenne a forma di struzzo che inevitabilmente ti rimandano alla persona più insuperabilmente trash che pensi di poter incontrare nella vita. Si alzò di colpo pensando “No, il portapenne proprio no, lo butto via subito”. Sapeva che l’immagine di quel piumaggio artificiale carico della polvere di anni così inutilmente presente fra i suoi ricordi l’avrebbe torturata fino all’alba, ma scìaffettando i piedi sul pavimento fino agli scatoloni per affrontare il problema si ritrovò davanti al dilemma intero. Come davanti ad un Giudizio esistenziale. Si accuccio per cercare il portapenne, e già sapeva che non sarebbe uscita indenne (né velocemente) da quell’affondare nel suo passato. Un movimento della mano, e riemergevano pezzetti inaspettati e dimenticati. A poco a poco, per far spazio alla ricerca al buio, si accumularono ordinati affianco alla scatola quadernetti, oggettini, un quadretto, dei ritagli, un cumulo di foto, delle molle, un peluche. No, un portachiavi peluche. Quello della sua prima casa. La prima “sua”, lasciando la familiare dimora per cercar la sua fortuna con la scusa dell’università. Inutile, era inevitabile accendere una luce. Proprio quello che non voleva, un click e un’onda di chiarore illuminò un cumulo imbarazzante di presenze. Ora non poteva proprio sfuggire.

Si accoccolò sul pavimento freddo, e prese in mano la prima scatola con la dolcezza con cui si scosta un braccio addormentato per recuperare il telecomando. Lì dentro c’era tutto, lei lo sapeva. La sua storia, quello che meritava di essere ricordato. E come si può imporsi di scegliere cos’è indispensabile e cos’altro no? Le guardò, tante piccole tracce dei suoi trascorsi, degli spostamenti, delle scelte fatte, degli amori, degli incontri, gli appunti dei viaggi dentro se stessa, obliterazioni di un’andata piena di pause sigaretta. Le note di idee geniali mai sviluppate, posti dove forse avrebbe potuto stare meglio, disegni dappertutto a incorniciare o immaginare forme del pensiero, incroci e bivi che aveva incontrato, aveva pensato di seguire e poi non aveva scelto. Guardò il cumulo di carta, che infestava più di ogni altra categoria quel campo di profughi. Aveva passato il tempo a iniziare romanzi che non aveva mai finito, neppure uno portato a termine. Di frasi illeggibili scarabocchiate su qualunque forma di superficie invece, un formicaio.

Tutto ciò se ne era restato conservato per anni. Perlopiù dimenticato, a ben pensarci. Per questo, ora che si approntava a un definitivo trasferimento si era riproposta di fare pulizia. Di liberare il campo, di lasciar posto, perché quando aveva visto quella marea di tasselli senza cornice si era sentita soffocare. Fantocci del passato, inermi e senza voce eppure lì, a ripescare in qualche punto del tempo e degli intrecci un momento singolare, un passaggio, un incontro, un’immagine più o meno nitida.

Senza tutte quelle cose non avrebbe più avuto un richiamo per riportarli alla sua mente. Sarebbero rimasti passato, senza sapere se mai un’altra immagine o una nuova parola avessero potuto, per casualità, portarla ad associarvi quel ricordo. Il dubbio di perdere quei momenti le aveva sempre fatto paura. Forse per questo collezionava un po’ tutto. Cianfrusaglie, le avrebbero definite gli altri. A volte sì, qualcosa. Ma la sua minuziosa attività da formichina aveva un senso ben più strategico. Forse perché aveva paura di perdere qualcosa d’importante. Forse perché temeva che si sarebbe trovata stupidamente sprovvista di qualcosa di utile, l’idea buona già in volo, lasciata sfuggire sul sospiro del vento. E invece lei l’aveva imparato, quanto sono importanti i ricordi; potersi rivedere cambiare attraverso gli eventi, gli umori, i pensieri, le espressioni, i compagni del giorno che quegli oggetti conservavano. Tanto importanti da sembrarle indispensabili, per trattenere la vita che passa.

Quel suo passato offuscato, il certificato di nascita sgualcito dal passaggio in troppe mani e la nuova famiglia, tutto cominciava là, e del prima non le restava molto. Poche foto, racconti ogni volta imperfetti e immagini raccolte tra confronti indiscreti o dentro lettere dai francobolli strani. Tratti similari e stranieri. Quelli familiari invece, così rassicuranti e diversi.

Ma adesso c’era un nuovo inizio, un altro, il suo. Un inizio che si sceglie porta con sé delle responsabilità. Forse quella sola scatola le serviva per sapere cosa voleva portare con sé. Le persone e i luoghi si lasciano andare, gli appuntamenti sfuggire alla mente, i visi sbiadire, mentre se ne conservano i simulacri. Come ancore appese a mongolfiere tra le nuvole, che dondolano piano senza mostrare il volto dietro ai cumulonembi. E tra tutto ciò, così tanti ricordi di quello che non si è potuto diventare. Le ossessioni del tempo passano solo con l’indulgenza dell’esperienza.

Finì di allineare gli oggetti, ne mise da parte alcuni, ne spolverò, accarezzandoli, pochi altri col sorriso trasognato. I pensieri scritti, lasciati in dote a calligrafie maldestre, li radunò in un angolo e cominciò a svuotare la seconda scatola. Li avrebbe letti, tutti insieme, la mattina. Lasciò andare gli oggetti belli. Di quelli non sapeva neppure più dove li aveva comprati. E lasciò anche quelli dei luoghi dove si era ripromessa di tornare: le pareva un buon incentivo a mantenere il suo proposito. Rise di tutte le idee folli che aveva avuto, conservò solo quelle che le sarebbero tornate utili sulla sua nuova strada, quelle che la facevano ridere, e quelle che un giorno l’avrebbero ricoperta di soldi se fosse diventata una pittrice famosa. Poco male se non dipingeva da anni, la faceva sorridere immaginare che se la sua vita ad un certo punto avesse preso strade imprevedibili, una di quelle avrebbe potuto realizzare i suoi sogni di bambina. Di cui non si era dimenticata.

lunedì 19 settembre 2011

Idraulica e disagio. Manuale di autocommiserazione.

“Che cosa intendi con puramente riempitivo?”

Marco stava seduto sul ciglio delle mura che circondavano il castello, che dall'alto guardava la città ai suoi piedi. La pietra dura di quella seduta improvvisata gli creava flebili crampi che salivano dal ginocchio ed arrivavano fino al nervo sciatico. Guardò l'amico Giorgio, che gli aveva rivolto la domanda, con lo sguardo sprezzante di chi ha la risposta pronta poiché l'aveva già preparata. Il buio della notte avvolgeva i due, illuminati solamente da un piccolo lampione che gli regalava giochi di luci ed ombre sul volto. Marco, schiarì la voce con un colpo di tosse e disse:

“Puramente riempitivo. Ogni uomo è come un tubo dell'acqua bucato. All'inizio il tubo gocciola impercettibilmente, poi la pressione interna allarga il foro rendendo il compito di richiuderlo sempre più complicato. Ecco, quando ci si accorge del buco troppo tardi si tenta di ostruirlo con un tappo piccolo. Informazione aggiuntiva: esiste un solo tappo della giusta dimensione del tuo foro. Se lo trovi presto, il tappo cresce, e lo tura per sempre. L'uomo che guarda questo problema con superficialità, cercherà con la stessa superficialità una soluzione. Si accompagnerà solo con donne facili, che ugualmente a loro non hanno trovato ancora la propria identità. Come quelle che vogliono idratare l'aridità del proprio cuore con l'effimera felicità di una bottiglia vuota. Le donne che passano ore davanti ad uno specchio per poi disfarsi il trucco così difficilmente costruito nel sudore di una pista da ballo piena, nel groviglio di altri corpi che in preda a spasmi incontrollabili agghindano tristi e solitarie coreografie.
Io semplicemente non ci riesco. Non mi accontento di momentanee soluzioni dettate dal caso e dallo stato di ebbrezza. Non voglio chiudermi ogni sabato sera all'interno di capannoni adibiti a mattatoi per l'intelligenza. Non voglio dimenarmi come se non ci fosse un domani. Non voglio puntare una preda con la smania di un cane nel periodo dell'accoppiamento. La mia ricerca sarà lenta e minuziosa. Sebbene il tempo allargherà la falla del mio cuore, io non smetterò mai di cercarne il giusto riempimento. Scusa se sfogo la mia frustrazione con te, ma non ne posso più di vedere uomini di alcuno spessore morale e culturale giacere ogni sera con donne altrettanto vuote.”

Marco prese un profondo respiro, poi soffiando lentamente l'aria dalle narici. Giorgio nel mentre si era alzato, e gironzolava smarrito intorno all'amico che l'aveva inondato di parole. Aggrottò le sopracciglia e si rivolse a lui, che sconsolato aveva abbassato lo sguardo.

“Non fa nulla, ogni tanto fa bene sfogarsi.” - prese un attimo di pausa - “Beh, ma tutto questo per dire cosa?” - gli disse, timoroso di un'altra risposta prolissa.

Marco fece una smorfia di disgusto, scosse le spalle e sputò per terra. Disse:

“Anche stasera non ho rimorchiato. Sono sbronzo, portami a casa.”

martedì 13 settembre 2011

Miele di capra.

Nonostante la stanchezza del corpo, i pensieri le rubavano il sonno. I pensieri. Siamo sicuri che si trattasse di pensieri? Se i pensieri prendono consistenze mediterranee, dei mezzo dì estivi, allora si, la capra Marta non riusciva a dormire per i pensieri. Stesa, come dormono le capre, semplicemente sudava e puzzava.

Irrequieta s’alzo di scatto e dalla posizione abbandonata sul vinile blu del ponte si ribaltò in attitudine stravaccata ma seduta.

-Dai Pier, vammi a prendere un bicchiere di acqua salata con il ghiaccio e erba fresca?

La capra Pier, imbalsamata sulla sedia di plastica dalle molestie piacevoli del sole, non dava cenno di risposta. Occhiali da sole contro il sole, se ne stava lì, immobile e astuto.

-Pier! Dai andiamo a prendere un bicchiere d’acqua salata! Non c’è la faccio più! – insisté belando la capra Marta – Come fai a stare così? Come cazzo fai?

-Esplosione sorda di corvi al tabacco di biciclette – esordì improvvisamente la taciturna capra Tony, facendo rilevare la sua presenza altrimenti d’estetica non percepita, e così intervenendo pesantemente al venir meno delle condizioni iniziali di stabilità.

-Tony che cazzo hai detto? Oh mio dio. Tony che cazzo hai detto? Tony anche tu! Ma porca capra! Qui voi state impazzendo! State impazzendo! State impazzendo! Ma non riuscite a rilassarvi un po’? Non riuscite a star buoni seduti e osservare pensare godere della vostra inutilità? – sbottò al richiamo di follia la capra Pier. Una capra irrequieta si, due capre pazze no.

-Tra timidezza e sfrontatezza d’esistenza; l’incontro; tra trascinarsi dietro e l’adattarsi.- la capra Tony era partita. Decisamente.

-Dai Tony, basta. Da quanto soffri di aerofagia vocale? – in improvvisa calma questionò la capra Marta. – e tu Pier? Dimmi che cacchio dovrei osservare? Qua non c’è altro che cielo e mare, mare e cielo! Tutto blu azzurrino celeste. Anche sto merda di pavimento che sa di piscio è blu! Dai andiamo al bar a prendere un po’ d’acqua salata!

- Se vuoi vai. Io sto qua. Ma dai Marta! Guarda che ficata.. la nave! Perché non riesci ad ammirare l’ accozzaglia caprina che s’affanna per voler ammazzare il tempo? Tutta concentrata oppressa in 100 metri quadri, non vedi? Tutte le capre ordinano al tempo il suicidio. C’è chi bruca e bruca, c’è chi dorme c’è chi prende il sole c’è chi prende l’acqua salata al bar. Guarda Marta! Che ridicoli che siamo! Anche noi! Non vedi che qui c’è un mondo uno stato una repubblica! Repubblica democratica della nudità oscena. E ridicola. E allegra. Come fai a non riconoscerlo? Guarda che brutale immagine!

-Pier, che pesante che sei. La vuoi o no quest’acqua salata? Io vado a prenderla.

-T’ho detto di no. Irrequieta Marta, dai stai qua con me e la pazza capra Tony. Come fai ad non essere libera di fronte a questa consapevolezza? La liberazione dal pensiero? Tu cosa fai capra Marta? Vai a prenderti quest’acqua salata. Tu cosa fai capra Tony? Deliri come le mosche al vetro o caghi palline merdose. Io cosa faccio? Prendo il sole e osservo, mi rilasso. In realtà, Marta, stiamo facendo la stessa cosa, io te Tony loro. Aspettiamo. Aspettiamo di passare il mare, di sbarcare e poi boh. Pascoleremo, ci monteremo, e cacheremo. Come sempre. Che spettacolo! – concluse la capra Pier.

- Insomma alla fine sta acqua salata? nulla? Alla fine la bellezza sta nella semplice nuda attesa? O quanto meno nella consapevolezza di essa? – Arresa la capra Marta domandò sospirando. E nel farlo girò effettivamente lo sguardo sull’area navale che riempiva la sua prospettiva. Non migliori, non nulla, lo stato delle cose per ricerca della roulette della Russia caprina o per uno stato di volere casuale, poneva le tre capre fisicamente al di sopra del resto del gregge. La balaustra sulla quale le tre appoggiavano le distese e corte zampe, dava sul ponte principale della nave: era quella parte di nave chiamata dog’s village, il luogo in cui i cani andavano a pisciare e fare le loro cosette, che si poneva un piano superiore rispetto al ponte principale dove piscina bar e piccolo prato artificiale fornivano le armi alle capre per massacrare il tempo. Tutto ciò componeva un quadro di meravoglia che impediva la tossicodipendenza di vuoti.

-Forse hai ragione Pier. E’ proprio bello. Alla fine di noi, domani, una volta sbarcati, rimarranno solo le sfere merdose che produciamo. Che ficata. Potremmo tirarcele addosso queste palline. Che dici? – esplose di gioia la capra Marta dimenticando per un momento, ma solo per un momento, l’acqua salata.

-Già- con malinconia riprese Pier.

Nelle chiacchiere tra la capra Marta e la capra Pier, Tony s’era distaccato, con la calma di un folle aveva preso della vernice bianca trovata lì e aveva scritto sul pavimento blu:

‘ Necessità di trovare del miele in questa puzza claustrofobica’.

-Cazzo.– affermò allibita la capra Pier, non vedendo più la capra Tony.- Vuoi vedere che quel coglione ha scambiato il mare per miele-.

Il mio Uccello, il mio capo

Nonostante la stanchezza del corpo, i pensieri gli rubavano il sonno.

Quella storia del suo capo che se ne andava in pensione gli teneva in moto il cervello. Cazzo. Cazzo e cazzo.
Chi prenderà il suo posto?
Se inizialmente Barney sperava non fosse x a divenire il suo capo, per la sua troppa spocchia, o y per il semplice fatto di essere una donna, con il passare delle ore insonni e con il metabolizzare dei suoi ragionamenti, cominciò a considerare il fatto che la nuova speranza non fosse quella di non vedere x o y come suo nuovo capo, ma che invece il posto potesse essere proprio suo.
In effetti x prendeva troppo poco per diventare il nuovo amministratore delegato, esattamente un terzo di Barney (come anche stava uno a tre il livello di spocchia).
Per non parlare di y, l’idea di avere un boss donna lo avrebbe costretto ad una dose quotidiana extra di masturbazione compulsiva e di certo non avrebbe retto. La soluzione però anche in questo caso era lampante, infatti y era, per l’appunto, una donna.
Quindi lui.
Quindi LUI?
Davvero?
Davvero.
Non che gli importasse gran che di divenire capo.
Diciamo che era meglio per gli equilibri dell’ufficio…Con il vecchio cialtrone fuori uso, le possibilità erano o lui o un terremoto che avrebbe potuto distruggere il suo piccolo habitat lavorativo, di cui era sovrano.
Preferirebbe di gran lunga che nulla cambiasse.
Cazzo.
Avrebbe potuto, o dovuto, o voluto vagliare altre opzioni…fatto sta che si addormentò.

L’indomani Barney entrò in ufficio come al solito in perfetto disorario, ovvero un calcolato 10 minuti di ritardo, abbastanza per marcare superiorità e non curanza ma troppo poco per un richiamo.

Arrivato alla scrivania la sua segretaria le portò caffè e giornale. Era nuova…una bella ragazza sulla ventina, bionda e provinciale, piuttosto ignorante e riservata.
Se la sarebbe scopata volentieri, anzi da quando era stata assunta, non vi era giorno in cui non si immaginava di affondare la faccia in quelle tettine da campagnola.
Purtroppo non vivendo in un film o su un romanzo, dove i maggiordomi sono assetati di sangue e le segretarie sono affamate di cazzo, Barney, nonostante il suo bell’aspetto, non era mai riuscito ad ottenere da lei nemmeno uno sguardo di languido desiderio.
Poco importa, avrebbe potuto ricorrere al caro vecchio fai da te, una bella trastullata all’uccellone e via in attesa che il suo capo lo chiami per annunciargli che sarà il nuovo amministratore delegato.

Si mise al centro del suo ufficio e si calò i pantaloni fino alle caviglie.
Aria fresca per il mio pennuto! Si disse e cominciò a far girare il pene a mo’ di elicottero roteando il bacino.

Proprio nel mezzo della rotazione squillò l’interfono. Lo raggiunse zompettando con le caviglie bloccate dai pantaloni.
Era la sua segretaria, il capo voleva vederlo.

Barney rimase a braghe calate per qualche secondo, con le braccia piegate sui fianchi come un Leader fascista: fissò il suo uccello penzolante: poi fiero davanti a se e poi nuovamente il suo volatile amico.

Non ti preoccupare, il diletto è solo posticipato mio caro cazzuto.
Si rimise i pantaloni.

Entrò nell’ufficio di colui che voleva mettere a repentaglio i suoi ben oliati ritmi di lavoro, colmo d’odio, ma con un sorriso splendido stampato in faccia.

Il suo boss lo adorava. Anche se non aveva mai fatto niente ma proprio niente per meritarsi questa fiducia.

Dopo i convenevoli, caro Barney, carissimo Alan, si giunse subito al Clou, ovvero l’annuncio del ritiro: l’età, voglio stare con i miei nipoti, una barca, un camper il barbecue…e altre 20-30 menate che Barney non ascoltò.
Quando venne il suo turno di parlare, pensò una bestemmia, ma disse un goditi la pensione per poi condire l’aria con una pacca sulla spalla accompagnata dall’immagine mentale di lui che con un colpo di karate staccava la testa al suo capo creandogli una fontanella di sangue dal collo: lui si imbrattava di sangue e con un calcio abbatteva definitivamente il corpo dello stronzo emettendo un urlo animale.

Il suo quasi ex-capo continuò a parlare, Leonard, x lo spocchioso, e Anne, la donna “donna”, già sono al corrente delle mie disposizioni, e altre cazzate riempitive, chi mi succederà sarà Fred, mio nipote, già lo conosci?

Merda.
Merda.
E ancora tanta tantissima altra merda.

Si’, disse Barney, aggiungendo, ma solo nella sua testa quello stronzo cacacazzi di Fred Russo, il peggiore tra i peggiori gendarmi della storia, l’antibarney in breve.

Non avrebbe potuto lavorare un secondo con quel soldatino. Cazzo. Il vecchio rincoglionito l’aveva appena inculato duro con il numero della saponetta.

Sorrise.

Anche Barney sorrise.

Vado a chiamarlo, aspettami qui. Ah serviti pure, ho aperto per l’occasione una bottiglia di Whisky d’annata, invecchiato 19 anni. Una bottiglia da 90 dollari! Davvero delizioso…

5 minuti al massimo.

Non mi muovo di qui AL! Con uno splendido sorriso ammiccante.

Barney rimase solo nel quasi ex ufficio del vecchio stronzo.

Avrebbe dovuto cercare un altro lavoro. Santa puttana!

Merda. Non se ne sarebbe andato così… non a testa bassa.

Eh no.

Prese allora la bottiglia di whisky, se ne fece giusto un goccio dal collo bella bottiglia e poi la appoggio stappata, sulla scrivania.

Si calò le braghe.

“E’ ora di farsi quella maledetta sega” si disse e cominciò a menarsi l’uccello pensando alle tette della sua segretaria.

La bottiglia di cristallo

Nonostante la stanchezza del corpo, i pensieri le rubavano il sonno"
Sapeva che doveva smettere di pensarci, che se lo avesse saputo sua madre l’avrebbe disprezzata. Lei donna dai sani principi, capelli di un riccio corvino perfetto,il naso appuntito e le mani sempre incrociate sul grembo come in perenne preghiera. Lei era una donna savia, una donna responsabile, con il portamento severo e lo sguardo impeccabile. I suoi vestiti color beige e le sue gonne non mai più corte delle ginocchia. Riusciva sempre a rendere tutto perfetto, invidiabile. Una bella bottiglia di cristallo dove dentro c’era la famiglia, la chiesa, la scuola, il lavoro. Tutto contornato dalla polverina magica che poteva essere neve o cocaina, l’effetto ne era lo stesso, una spasmodica, irrefrenabile eccitazione all’assoluto. E per assoluto si intende retto e per retto si intende in giudicabile da qualsiasi inquadratura.
Ma lei, la mamma, non aveva fatto i conti con quella piccola, piccolissima incrinatura che si chiama... adolescenza. E che ora si contorceva nell’altra stanza fra le dolci lenzuola, con amore tanto ben stirate.

Lei lo sapeva che doveva smetterla. Che doveva lasciar stare, che quella cazzo di idea.. oddio ho detto cazzo, ah no.. l’ho solo pensato.. ma anche quello sarà peccato? Perché non riesco più a prender sonno? Ok adesso mi concentro, si, penso ai prati, alle cascate, alle fresche cascate, all’acqua che scende sinuosa fra le rocce...e oddio di nuovo... nemmeno alle cascate posso pensare.. che cosa avrò di sbagliato? Che errore avrò mai commesso nella mia vita per arrivare a ciò?
Il suo corpo stava fremendo e la sua mente cominciava a vacillare... le lenzuola erano rosa, di un rosa candido e le dita sottili camminavano.. dai capelli al collo, dal collo alle orecchie in un andi rivieni infinito, ma ad oggi discesa la mano si allungava sempre più, fino ad arrivare alle spalle, e poi alla spallina della camicetta da notte, l’altra mano scendeva nel frattempo sull’ombelico e si fermava a creare cerchi concentrici... capelli, orecchie, collo, spallina... e infine seno e poi capezzolo... le sue labbra si inumidirono e aprirono leggermente, la mente vagava verso pensieri, immagini e corpi lontani... la mano dall’ombelico fece un breve balzo sulla peluria e la pelle olivastra sussultò per un attimo. Le gambe scostarono il lenzuolo rosa e scoprirono la loro perfetta eleganza. Il chiarore della notte illuminava le caviglie e le ginocchia. La fronte le sudava un poco e la testa di spostava da un lato all’altro del cuscino, le guance diventarono di un color roseo acceso e le labbra furono morse per non emettere alcun suono. Il corpo iniziò a contorcersi in un piacere così peccaminoso quanto innocente, nella scoperta di quello che fu il primitivo tocco.
Nell’altra stanza la madre preparava la merenda per il giorno seguente, credendo fortemente in cuor suo che i sani principi e la rettitudine avrebbero sempre retto le porte di quella casa e che la bottiglia di cristallo non si sarebbe mai incrinata.

Sbadiglio ma non mollo

Sbadiglio ma non mollo

Nonostante la stanchezza del corpo, i pensieri gli rubavano il sonno.

Non riusciva a smettere di riflettere ed agitarsi, era come se l’ansia generale si fosse impossessata di lui, come se la massa mostruosa di cose da fare pendesse sulla sua testa a mò di ghigliottina impietosa, che può scendere a far (in)giustizia da un momento all’altro.

Le scadenze e gli impegni che lo tormentavano non erano poi così imminenti, ma il fatto che fossero così tanti, eterogenei, e tutti allo stesso tempo lo terrorizzavano, perché sentiva di non avere controllo, di non dominare la situazione, di essere vittima dei suoi stessi propositi. Per aiutarsi, aveva fatto come al solito una lista ordinata degli impegni più importanti, scritta per bene su foglio bianco, ogni punto con la rispettiva data o mese, e quindi aveva appeso l’inquietante foglio al muro. Ogni giorno poi si dava degli obbiettivi chiari, scrivendo tutto su piccoli foglietti inutili, che arrivavano a comprendere idiozie come “andare in tabaccheria”. Quotidianamente era però costretto a rimandare, desistere, a causa di questo e quell’imprevisto, di quella particolare coincidenza temporale, di quel dettaglio stupido che sfaldava in pezzi la sua concentrazione.

Così, mentre di giorno riusciva a giustificarsi le rinunce con ottime argomentazioni e rassicuranti scuse, di notte si annodavano i turbamenti in un vortice di paranoie. La vertigine dei piccoli rimorsi, quelli non troppo gravi, che si bloccano in un punto indefinito dell’esofago.

Si sdraiava, e più cercava di abbandonarsi alla dolcissima culla del dormiveglia, più si agitava, si rigirava milioni di volte nel letto. Pancia in su, pancia in giù, magari di lato, mani sotto il cuscino, raccolto come un gatto. Acidità di stomaco. No, nulla da fare. Pure le zanzare, cristodio. Vuole dormire! Controlla pallido l’ora…già le tre: dormirà così poco che domani non riuscirà a svegliarsi presto, e se si alza tardi non farà in tempo ad andare in posta, e se non spedisce le carte non verrà riconosciuta l’iscrizione, e senza iscrizione perde l’anno, se perde l’anno è troppo tardi… è troppo tardi… è troppo… è tardi…

Così, nel turbine dell’irrequietezza, scivolava sinistro nel mondo dei sogni che il giorno dopo non ricordi, mordendo il cuscino, cascando senza fare tonfi.

La rivincita dei nobili

Nonostante la stanchezza del corpo, i pensieri gli rubavano il sonno. Quel giorno, all'uscita dalla fabbrica un manifesto attaccato sui muri l'aveva fatto rabbrividire dalla rabbia. Il titolo recitava: “Il manifesto della nobiltà” scritto in un carattere grassetto. “Una goliardata da ricchi” aveva subito pensato. Poi lesse il resto, lentamente, soffermandosi su ogni paragrafo di quella lista di ignominie che vi erano scritte. Una serie di punti scandivano le ragioni di quel popolo che troppo spesso si era macchiato di crudeltà verso i gradi più bassi della scala sociale. “I nobili sono annoiati, si drogano, fanno sesso perverso” l'aveva interrotto nella lettura un suo unto collega in uscita dal cancello principale. Scosse leggermente le spalle e continuò nella lettura.

“Orgoglio nobile. Breviario di facile comprensione a tutti gli ignoranti sudicioni di questa terra.”

Punto primo
“Barone Antonio” suona meglio di “Antonio, signor nessuno”

Della nobiltà d'animo nessuno sa che farsene, un titolo nobiliare invece è spendibile. Provate a presentarvi alla gente, ad andare alla posta o ad un ricevimento. Nessuno vi mancherà di rispetto se il vostro ceto sociale è tale da suscitare riverenza.

Punto secondo
Il lavoro degrada. L'ozio è la soluzione.

A cosa serve lavorare ogni giorno quando hai un patrimonio che ti permette di non farlo? Non lavorare ti rende forse meno utile di tutti gli altri? Tutti muoiono. Si vive in attesa di questo. Noi lo facciamo aspettando quel giorno belli riposati invece che sporchi di grasso schiacciati dalla stessa macchina che ci dava da vivere. Non siamo obbligati alla riconoscenza verso un padrone che ci sfama con un tozzo di pane ma che ci sfrutta per il suo personale tornaconto. E se vi trincerate dietro l'idea che la macchina che fate muovere ha bisogno di voi per funzionare, scordatevelo. Non siete altro che uno stupido ingranaggio umano in attesa di essere automatizzato.

Punto terzo
Con l'agio del lusso si invecchia più lentamente

Che se ne dica, dormire su di un letto comodo, avvolti da lenzuola di seta, è estremamente meglio che dormire su un puzzolente materasso rovinato, coperti solo da quattro stracci bisunti. Provate a scrutare a fondo il viso di un poveraccio, lo vedrete segnato da infiniti solchi che si intrecciano, sfigurandolo in maniera irreparabile. Se poi la vista non vi creerà disgusto, tentate di soffermarvi sulle sue mani. Calli e bruciature orrende le avranno rovinate negli anni, formando solo due gonfi e rivoltanti gommoni. È questo per caso un uomo? È così che il buon Dio ha formato Adamo ed Eva nel giardino dell'Eden?

Conclusione
Questo è quanto. Il nostro orgoglio si riassume in questa semplice guida. Se questi concetti sono troppo complessi per il nostro lettore stringitore di bulloni, è normale. Il cervello di un operaio non è pienamente sviluppato. Come si spiegherebbe altrimenti questa necessità maniacale di lavorare?

Letto questo lo stanco operaio fece uno sguardo di disgusto tale da incupirgli il volto e si rimise in cammino verso casa, pensando a tutto ciò che aveva letto. “Dannazione, questi ricchi hanno proprio ragione!” continuava a ripetersi. “Perché aspettare la morte lavorando, sporcandosi e puzzando di sudore? Se fossi ufficiato Barone avrei trovato il modo migliore di passare i minuti che inesorabilmente ticchettano il loro passare verso la mia fine.” Arrivato a casa si sdraiò sul letto e, come già detto, i pensieri gli rubavano il sonno. “Domani mi licenzierò dal lavoro” sbraitò, ancora rivoltandosi fra i suoi quattro stracci bisunti. Sua moglie, sconvolta dalle urla, si mise a sedere sul letto e, accarezzandogli la testa gli disse “Cos'hai amore? Cosa ti prende?” sbadigliando goffamente. Lui si girò verso la donna che gli sedeva a fianco che, seppur imperfetta era bellissima ai suoi occhi. Gli disse sottovoce, guardando la miseria della sua casa che lo circondava: “Niente, pensavo di volere più di quello che già non ho”. Che banalità da poveri.

lunedì 5 settembre 2011

UN MANIFESTO QUALSIASI

C'è un tempo, in un granello di mondo, in cui ogni giorno si scrive un inedito libro dell'inquietudine. In quel tempo, i fiori del male tentano di insinuarsi nei corpi vivi attraverso la morte delle parole. Il piacere è peccato, e il peccato è piacere. Ragione e sentimento, gemelli separati, lottano insieme contro la vorace noia di luci intermittenti.
A quel tempo non si regalano fiori blu, nemmeno gialli o bianchi, persino le lettere sono merce rara. Il processo alla libertà è un processo all'italiana: termine da destinarsi. Storie di vagabondaggio si compilano con sudore e pudore in ogni malinconico agosto, per fuggire dalla nausea.
Un battito d'ali di gallina è l'odierna insostenibile leggerezza dell'essere.
Si sognano a vicenda le vite degli altri, naufragando in turbini di episodi tanto brillanti da cancellare il buio che rende visibile la luce. Il giocatore più attento ha voltato da tempo la pagina dell'utopia per lanciarsi in esercizi di stile virtuosi: ogni sera la partita è vinta.
Gli indifferenti abitano un isola da cui le città sono invisibili perchè vi stanno al centro; il rosso e il nero si confondono e tutto si disperde, candido e inerte. I più fortunati archiviano, con delicato amore per il dettaglio, incalcolabili fogli di racconti bianchi, racconti neri, racconti della pazzia. L'invidia serpeggia sotto i marciapiedi ma è risucchiata dagli antifulmini: la città abortisce i demoni.
A quel tempo, la morte a Venezia si consuma nei bar dove i sopravvissuti intrecciano merletti per adornare case vuote.
Alcuni, a quel tempo, incarnano l'idiota: alcuni, al quel tempo, continuano a scrivere di quei tempi in cui c'è così poco da dire. Il sogno più dolce è una manciata di orecchie capienti. Le notti bianche si sprecano, pensando a quel tempo e a quelli andati. Quelli a venire non si possono pensare: li hanno già comprati tutti.
Il principe infelice dà le spalle all'orchestra e dirige la platea, accanto ha appena chiuso il teatro della memoria. Della speranza si parla poco, come poco si parla di ogni fattore comune.
Quel tempo, invasivo come un'iniezione, è oggi; quel tempo si chiama VentiUndici.

5. Io corro, tu corri, egli corre.

La vita è una vera merda, poi si muore e io non ho tempo da perdere. Ma quando arriva questo dannato autobus?

Il tempo, il tempo, ti bombardano praticamente dell’importanza di guadagnare tempo, del tempo-denaro, del tempo da perdere, quello che guarisce le ferite, il tempo da conservare e usare, il tempo che ti fa comprendere le cose, il mattino ha l’oro in bocca, ma io ho sonno e vorrei dormire. È solo una merce, il tempo. Tempo precettore e tempo tiranno. Merda di tempo. Pioviggina. Aspetta sto prendendo accetti alla Pippo Vespa; mi sto perdendo coi discorsi…così delirio e non ho più uno stile…(insomma un MIO stile, PV..! NdA). Anche quando si divaga, bisogna farlo con coerenza. Classe. Sì, con classe, stile, almeno ti prenderanno per uno squinternato di classe.

Ma perché non arriva questo dannato maledettissimo autobus? Non ho tempo da perdere, non oggi, non ho tempo né disposizione d’animo per quelle teghe di quanto bella è l’attesa, il piacere sta nell’attendere, prepararsi alla partenza, “nel distacco dall’oggetto amato e nell’attesa prima della conquista sta la vera essenza della passione”, Principio di realtà e Principio di piacere, FANCULO a Galimberti, che poi è uno spocchioso manaccione che si crede il Logos in terra, che si vanterà di essersi fottuto perfino la Filosofia…

Sono talmente in ansia che mi sto divorando le unghie. Cosa dico, mi sto scavando la sporcizia che sta sotto la superficie coriacea delle falangi e già che ci sono me magno tutto il resto. Che schifo mangiarsi le unghie. Sto rasando le pellicine delle mie dita, sgrufolo attorno ai polpastrelli fino a sentire sapore di sangue.

Basta, mi sono stufata. Ma quando caaaaazzo arriva?

Tutta colpa dei trasporti. Stupidi stupidi trasporti che fanno vacillare i tuoi convintissimi piani di strategie ecologiche per riformare il mondo… “Peste a voi e alle vostre famiglie”… Deserto, non c’è neanche un rumore in lontananza. Non è lontano dove andava a scuola mia cugina... Beata lei che stando fuori c’andava in macchina e non doveva rischiare l’integrità psico-morale ogni mattina soffocando a sottiletta fra un centinaio di altri studenti o restando per metà schiacciata dalla porta a soffietto del bus. Meraviglioso quel racconto della Cate…“Driiin”..!!

Oddio, mi franano pensieri come se avessi il cervello di ghiaia…cos’era? Aldo Giovanni e Giacomo, no? Buuuu, pensavo di essermela inventata, e invece è riciclata. Si ricicla tutto. Non si inventa niente. Nulla si crea, tutto si trasforma. Non ci sono più le mezze stagioni. Ahah, è vero anche Barney di How I Met Your Mother è riciclato…il video di Claude François….com’era, “Une petite mèche de tes cheveux…une petite mèche de tes cheveux…” Cos’è che mi ha detto la Poz l’altro giorno, ah sì, il manualetto di banalità da “ascensore”, ovvero da sfoggiare per sfuggire alle conversazioni inopportune che ti capitano in quel metro e mezzo quadrato di metallo che va suuuu, e va giùùùù… Geniale, adesso mi tornerebbe utile per occupare il tempo. O per avere un pretesto per attaccar bottone con la vecchietta che finge palesemente che sia invisibile mentre attende alla fermata come me. Ma che capelli ha? Sono…è….ma una mèche verdino sbiadito quella che ha dietro all’orecchio?!? Vaccaboia sono capelli tinti che spuntano dal cappellinooo!!! Tinti male, sì sì quello è l’effetto che ti capita se vai da un parrucchiere inesperto sottoponendogli una tinta che necessita di 15 pigmenti diversi. Miscela da alchimista, e Buuuum, come i risultati del piccolo chimico. Che puzza….per quello mia madre mi esiliava in soffitta quando ci giocavo. E brava vecchietta, perché non accetti il tempo che passa? Anzi no, effettivamente potresti essere una Freerider che non vuole sottomettersi alla dittatura del capello bianco e dell’immagine di vecchiaia impellente che esso implica…oppure un’illusa bisognosa di riflettere allo specchio un volto artificiale. A mia nonna le rughe stanno proprio bene. Ma quante ne impara mia nonna su Radio Maria..?!

Tic-tac, il tempo scorre, che ti è successo autobus? Il pannello lampeggiante dice “4 MINUTI” da almeno un quarto d’ora. Paradosso temporale, direi, o cilecca informatica. Non fatemi tirare in ballo la fisica quantistica perché non ne esco più se comincio a farmi seghe mentali sulle quattro dimensioni, o sui gatti nelle scatole. Una volta mio cognato da bambino ha messo un gatto nel forno. Per fortuna non sapeva come accenderlo. Devo presentarlo al Paja…

Ma questi tabelloni alla fermata come calcolano quanto tempo manca all’arriva del bus? Cioè, dev’esserci una specie di GPS sul mezzo o roba del genere, no? Allora ha bucato una gomma, non c’è altra spiegazione. Ecco, sono fregata, mi tocca andare a piedi… No, poi sudo. Quand’è l’altro? 40minuti?!?!? Beh, passati questi irreali e interminabili dieci minuti dal presunto orario di arrivo (che mi sono costati un dito sanguinolento), bah ne mancheranno a malapena 30…e quanto ci si mette ad arrivare? Un quarto d’ora? No, è pomeriggio, le strade sono un casino e in stazione monterà una folla isterica, no no non ce la posso fare…non faccio a tempo col secondo… Incrocia le dita, daiiiii!, vedrai che non è successo niente e adesso arriva. Aspettiamo ancora qualche minuto.

Mi si sta slogando l’anca a furia di dondolare la gamba istericamente come se non avessi controllo del mio sistema nervoso. Il Trambu continua a dondolare mentre studia… Oddio, quel puntino di strada dietro alla curva lo sto corrodendo con lo sguardo…si sta trasformando in un miraggio sciolto. Foucault, devo trovare il riferimento di Foucault a proposito degli ospedali come paradigma del luogo di detenzione. Vabbè, imbroglio e prendo qualche citazione da Agamben su “Bio-potere”…dovrà pur citare Foucault no? Se devo recuperare tutti i libri che voglio mettere in questa tesi, non me la cavo più. Basta, va fatta per bene ma è ora di buttarla fuori… Quelli in inglese, li cerco su internet. Googlebook style. Poi articoli.

Ma…Cos’è? È un miraggio, o…. È… È UN AUTOBUS, UN AUTOBUS, UN AUTOBUS, AUTOBUS!, AUTOBUS!!!, AUTOBUS!!!!!!!, 45?

È il 45?? Ma come……oddio, non è il mio………maledetto….maledetto autobus……maledetto tempo, maledetta volta che non gioco col tempo e mi presento con il giusto anticipo uscendo prima, Murphy e le tue leggi dannate, che siate triturati da un camioncino dell’immondizia e il tuo corvaccio nero arrostito su un falò ricavato nei bidoni in stile vagabondo newyorkese…

46??? Ma c’è scritto 46, c’era la gambetta che non si vedeva!! SEEEEEEEEE, benedetto autobus burlone, ma tanto lo sapevo, alla fine in qualche modo a rotta di collo c’arrivo sempre…. Ecco che riparte, SU, via a tutta birra verso la meta!!!


SBANG, Pffffffff……….


Pffffff? Cos'è?? Perchè frena di colpo?



domenica 4 settembre 2011

4.

– Maledizione! Lo sapevo che mi avresti seguito. Adesso sali in macchina e non fiatare! –

Accompagnò la frase con un cenno della testa e lui saltò su accoccolandosi sul sedile del passeggero.

L’uomo alla guida si allungò sboffonchiando e tirò la portiera di destra facendola sbattere, poi via, partì sgommando lungo la statale buia.

– Che diavolo ti passa per la testa? Tu non ci puoi venire con me, riesci a capirlo? –

Gli lanciò un’occhiata cattiva.

– No, non ti conviene proprio seguirmi brutta bestiaccia. Ma che ti parlo a fare, poi? –

Sul sedile il bastardino mezza taglia ansimava con la lingua di fuori, gettato esausto contro lo schienale e le zampe posteriori accartocciate per tenersi in equilibrio in quella strana posizione. Il petto peloso tamburellava ritmicamente frapponendo i movimenti del respiro ai battiti del cuore.

– Come cazzo hai fatto a spezzarla? – disse l’uomo lasciando cadere l’occhio sull’estremità sfibrata della corda con cui aveva legato l’animale in una pompa di benzina chiusa, alcuni chilometri prima.

L’aveva visto solo molto dopo quando aveva imboccato una zona vagamente abitata, l’illuminazione smorta gli aveva permesso di notare la sagoma che zompava a tutta birra seguendo la sua machina. Di colpo aveva accelerato per sbarazzarsene, poi un pensiero improvviso gli aveva scatenato un moto di preoccupazione, assai inspiegabile vista la situazione in cui si trovava. Si era preoccupato che là, in mezzo alla strada si perdesse e qualcuno lo tirasse sotto con l’auto, e quel pensiero era bastato a riaprirgli una fessura di coscienza e si era lasciato commuovere da quel gesto di fedeltà. Che coglione di cane.

– Ti avevo detto di restare là, brutto stronzo. La mattina ti trovavano, e ti avrebbero riportato a casa. – Pausa. – Però sei proprio ci tieni. Tanto cosa vuoi, tu neanche capisci cosa succede… –

Scoppiò in una risata isterica. Una risata piena di dolore. Si passò una mano sulla bocca come a togliere i pensieri che vi erano rimasti impigliati, e imboccò la tangenziale.

I primi fari di altri esseri viventi comparvero davanti a lui. Il piede sull’acceleratore, e il tachimetro cominciò a salire.

– Stiamo andando. – bisbigliò lentamente.

I suoi occhi fissi si accorgevano a malapena della presenza della strada al di là del vetro, il passaggio ticchettante dei lampioni scandiva di luce arancione un’espressione scura e totalmente assente.

– Dovresti essere a casa. Domani lei sarà triste se non ti troverà. – cominciò a dire, un po’ tra sé e un po’ al bizzarro compagno di viaggio.

– Sua madre non può vederli i cani, non gliene comprerà mai un altro… Se non ci fossi stato io, a insistere che è un bene che i bambini crescano con un animale. Adesso…sentirà la tua mancanza. – il tono si fece malinconico.

Silenzio, e poi di soprassalto con tono energico – Ah, brava bestiaccia…! Alla tua età, hai fatto proprio una bella corsa…però non hai scelto la macchina giusta a cui chiedere un passaggio, eh… È tutto uno schifo.

– Sai, tutti ti dicono che le cose cambiano, si aggiustano, ma io non ce la faccio a restare, no proprio non ce la faccio a restare a guardare questo schifo, gli occhi degli altri a giudicare il fallimento che hai creato, checcazzo!, no io… Non ce la faccio a guardare ancora quegli occhi benpensanti, sai ti fanno credere d’essere solidali e invece ti stanno già bisbigliando la loro riprovazione e il disgusto, come se quella massa di merda fosse superiore! Io no, non ci resto, non mi faccio giudicare da questa feccia. Non sopporto che mi guardino così. È meglio che non mi vedano più, è meglio che sparisca.

– Non è facile sai, adesso…non è neanche più essere un uomo. Gli sguardi…Non li reggo più, ne sento i pensieri, le parole che si insinuano, dopo quello che è successo non…Sì, è meglio così. È meglio non incontrare tutti quegli sguardi luridi e delusi… Cancellarli, sì...farli sparire. –

Il piede sprofondò nell’acceleratore, e la macchina sfuggì via come un puledro lanciato in folle corsa, il volante che non si teneva quasi più.

A sinistra, un po’ più a sinistra fino a trovarsi nella corsia opposta. Due bagliori in lontananza.

L’uomo teneva fisso lo sguardo davanti a sé, la mascella serrata e lo scandire dei riflessi dei lampioni che martellavano a intervalli sempre più ravvicinati il suo viso in ombra. C’erano solo quei due bagliori man mano più grandi e che ora si nascondevano dietro una curva.


Il cane aveva ripreso a respirare tranquillamente. Le due luci ricomparvero enormi all’angolo della curva, l’uomo le fissò con occhi sbarrati come quelli di un animale in trappola mentre venivano verso di lui.

Il cane fece solo un guaito quando andò a sbattere sul freno a mano per la virata improvvisa. Neppure aveva percepito l’incombenza della morte…A proposito di sesto senso animale. La macchina era tornata nella corsia di marcia.

L’uomo si passò una mano sulla fronte sudata, respirando pesante come un toro. Non spostò lo sguardo, gli occhi fissi sulla zona d’ombra oltre il cono di luce dei fari.

Nei minuti di silenzio irreale che seguirono la macchina imboccò una statale. – C’è un nulla che fa quasi freddo, in queste campagne. – se ne uscì con una voce sorprendentemente limpida.

– Preferirei che non si sentisse più niente a quel punto…non freddo, non buio. Niente. Come quei sonni che sembrano un battito di ciglia, senza sogni né pensieri. Magari avesse ragione Socrate. Già, solo…un peso a cui abbandonarsi. –

Lo disse con una voce greve. Gli occhi si fecero pulsanti e cominciarono a naufragare in quel buio brulicante.

– Che altro c’è da fare? Io non posso restare, non così capisci? Non sono neanche più un uomo. Non ce la faccio a guardare quello schifo che getteranno, e la mia vita fatta a pezzi, è meglio così, non sapere più niente. Forse staranno meglio tutti. …Io NO, non ci resto a guardare. Non voglio rispondere a nessuna domanda. Non…non si è più neppure un uomo a quel punto, capisci? Quando si distrugge in questo modo tutto quello che hai attorno a te, il rispetto della gente, la tua autorità…senza il rispetto che cosa ti resta? Mi sono sfuggiti, mi sono sfuggiti tutti. Le cose…le cose non funzionano, no, io…io non ho più il controllo di nulla, che cazzo di uomo… Io sono un uomo cazzo, NON…non starò lì a guardarli sputare sulla mia faccia. Sono un uomo…come un uomo si vive, e allora muoio anche da uomo. –

Un bivio frontale lo distrasse dai suoi pensieri. Uno sbotto di voce tinto d’ironia fece vibrare il suo tono fermo. – Chissà cosa dirà domani mattina.

– Le racconteranno sicuramente qualcosa, chissà quante…CAZZATE dovrà sentire. Chissà cosa le spiegheranno della vita. Come le spiegheranno tutto questo. Vedi stupida bestia, dovresti essere giù da questa macchina così domani torneresti a casa. Le riporteranno a casa qualcosa. Lei ti adora… E invece no, guarda te. – sorrise tra sé – Bravo idiota, a me sei rimasto accanto..! –

La macchina procedeva in una sorta di limbo terreno, privo di esseri viventi.

– Le dirà che sono un vigliacco, che me ne sono andato così. Che sono scappato. Magari…finirà anche per crederci. E forse si domanderà per tutta la vita se mi sono fermato a guardarla un’ultima volta, prima di andarmene nella notte. Dio, magari se lo domanderà senza trovare mai una risposta..! –

Il silenzio ricadde nell’abitacolo. L’insegna di un paese.

– Guarda. Pensa che qui ci siamo venuti da morosi, non ci devo essere più ripassato da allora. Tornavamo da un viaggio in Toscana e avevamo sbagliato qualcosa nel fare tutte quelle strade provinciali. Mi ricordo, sì, la trattoria e la chiesetta. C’era anche una leggenda, ma chi se la ricorda più… Le piaceva quando le raccontavo le storie e spiegavo le cose come se venissero dai libri. Come alla piccola. –

Silenzio. – È… – Pausa.

– È…che non ce la si fa a rinunciarci, sai? Io non voglio pensare di non essere più tutto questo. Ho perso il controllo, dovevo stare più attento…adesso è successo, e allora…come si torna indietro? Non si può, non ce la si fa a tornare indietro, io non ce la faccio a pensare agli sguardi…

– Non posso immaginare la delusione nei loro, di occhi. La vergogna. No, non voglio restare da solo. Non posso. –


La macchina prese una strada più grande, e sbucò in una rotonda. Le indicazioni portavano nei paesi limitrofi, a destra tornavano verso casa. A sinistra, l’autostrada.

venerdì 2 settembre 2011

3. IN CORPUS DOMINAE

Ogni uomo che prega o profetizza a capo coperto, disonora il suo capo; 5al contrario, ogni donna che prega o profetizza a capo scoperto, disonora la sua testa, perché è come se fosse rasa.

[…] 7L'uomo, invece, non deve coprirsi la testa, perché è immagine e gloria di Dio; mentre la donna è gloria dell'uomo. 8Infatti, l'uomo non ebbe origine dalla donna, ma fu la donna ad esser tratta dall'uomo; 9né fu creato l'uomo per la donna, bensì la donna per l'uomo. 10Quindi la donna deve portare sul capo il segno della potestà per riguardo agli Angeli. (Dalla ''Prima Lettera ai Corinzi'')


C’è per caso qualche legge che mi proibisca di guardare una donna? Qualche legge divina ben esplicitata in un passo delle Sacre Scritture, forse in qualche paragrafo astruso che non è ancora permesso disgelare alla mia età acerba?

Il parroco mi rimprovera con uno sguardo truce sul momento, e dopo con una sonora sberlona nella sagrestia mentre ci spogliamo dei paramenti, se mi pizzica a sostare troppo a lungo su un particolare delle pie donne delle prime file.

Probabilmente non è bene ciò che faccio, dev’essere così visto che accompagna sempre la discesa implacabile delle cinque dita con un robusto invito alla decenza, seguito da sgradevoli epiteti. Ma io proprio non capisco. E come si fa a star lontano con lo sguardo da quei corpi penitenti che trasudano religiosità carnale nell’afa della chiesa.

No, non c’è niente di male in loro, se sono tanto pie da venire ogni domenica attraverso la campagna rovente, coi manicotti lunghi tirati sulle braccia a soffocarle e a proteggerle dalla volgarità di una pelle arsa dal sole, non ci dev’essere nulla di sbagliato nel rimirarne il pregare ansimante e madido che scolpisce le loro forme celate nei corpetti neri. Io me ne sto a sbirciare, voglio studiare ogni piccolo gesto del loro reverente porgersi a Dio inginocchiate a mani giunte, aggrappate ai rosari di legno, con quelle piccole biglie grezze che guizzano dalle fessure sottili delle dita bagnate, s’insinuano tra la loro carne bruna (le mani sì, non le si può difendere dal sole del lavoro nei campi), si sfilano lente ad una ad una al ritmo del mormorio corale come disvelando il segreto di un nido proibito.

L’agosto torrido entra dalla porta spalancata e pervade ogni cosa, l’aria, il respiro delle donne, il pulviscolo dei coni di luce che si fa compatto e pieno della polvere dei campi. Si posa su tutto e si mangia i colori della statua del Santo Domenico; entra nella testa fino a farla girare, ma le donne se ne stanno immobili sotto il loro velo nero calato sulla testa, neanche paiono accorgersene mentre gli uomini dietro sventolano i cappelli e arricciano sofferenti i baffi sporchi.

Regali come tante madonne dalla pelle lucente per il calore, gli occhi neri all’altare. Questa arsura fa loro le guance appena arrossate, e la pelle fremente. Si fa bruciante e imperlata nella fessura tra il naso e le labbra, e alla base del mento; quando cantano, una rugiada di sudore formatasi tra la peluria attorno alla bocca ne sottolinea i movimenti.

E il petto stretto dal busto ansima, le curve lucide dei seni decorate dall’insenatura delle scapole come un pendente scolpito. Una goccia talvolta scivola attorno al viso da sotto il pizzo del velo, scivola dal collo unendosi al sudore del petto e corre giù fra i seni. Lo seguo con lo sguardo e mi domando dove andrà a finire la sua corsa se il gesto rapido del fazzoletto bianco non lo arresterà tamponando il rigagnolo solleticante.

Se ne stanno lì con la loro ingombranza indugiante, che non capisco come Don Cesio possa non guardarle mai, quando coi loro occhi ricolmi di fede ne seguono addomesticate ogni movimento di voce, ondeggiando all’unisono le labbra umide per quest’agosto infernale. Le stesse labbra turgide che si aprono ubbidienti quando vengono a prendere la comunione e s’inginocchiano davanti al corpo del Cristo e ai piedi del parroco; la particola si alza nell’aria e scivola verso la loro bocca socchiusa, sfiorando i contorni di quella carne senza più peccati.

Come ignora la Santuzza?, sempre in prima fila con la mamma, quella che è la più pia di tutta Fanezzo da quando le è morto il marito, secondo mia madre. Coi suoi sedici anni se ne sta senza alzare mai lo sguardo da sotto il velo, che sembra una Santa distratta; ma anche se la nasconde lo scialle, talvolta nel pregare le scivola da una spalla, e il tempo che lo riprende quello che disvela toglie ogni dubbio che sia già donna.

E mentre scompongo nella mia bocca biascichi di parole in preghiera imparate a memoria, le guardo d'un solo colpo d'occhio, una schiera di angeli sotto all'aureola delle loro ali di velo a far della bellezza carnale il più gradito voto a Dio.