L'incipit della settimana

ELABORATO TESTUALE DI TOT PAROLE: "L'antico vaso andava salvato"
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martedì 28 febbraio 2012

La storia cambia, tra uno squillo di trombetta e l' altro.

Si sarebbe detta una grande avventura, con tanto di squilli di tromba; il premio la mano della principessa di Castiglia, il torneo combattuto il giorno 28 marzo dell' anno domini 1469.

Carne tenera, sconosciuta terra del piacere, aspettava dietro le transenne. Altro che la scoperta dell' America.

Ferdinando spiava da dietro la tenda, ove il suo fido destriero sbuffava dalle narici, emanando un fetore poco piacevole e si sarebbe detto, visti i pensieri del nostro eroe, assolutamente fuori luogo.

Capelli biondi come le spighe del grano, occhi grandi e scuri come le profumate terre della Castiglia.

Isabella sedeva dignitosa sul trono che le pareva costruito intorno, tanto granitica risultava essere la sua presenza. Il naso rotondo annusava l' aria con discreto movimento della narice destra.

La più grande organizzatrice di combattimenti di galli ruspanti della Spagna si nascondeva dietro un ventaglio di sottili ricami.

Nello spazio interno alla sua corte era usanza ormai datata radunare attorno a se le ancelle, i paggi e i cuochi di corte e dare il via alle scommesse.

L' eleganza non le si addiceva. Avrebbe sempre voluto crescere in campagna, rincorrere i cani. Pisciare tra i cavolfiori selvatici alzando di poco la gonnella.

Invidiava i contadini, spiati dalla finestra che, tornando dal lavoro, davano libero sfogo ai propri istinti. Sputando per terra ed imprecando alla maschia maniera contro i santi e le madonne. Un dito nel naso era così liberatorio, di tanto in tanto...

Ma tutto questo Ferdinando non lo sapeva. Aspettava il momento propizio per colpire al cuore l' avversario e conquistare cotanta ricchezza, magnificenza delle terre ove non tramontava mai il sole.

Ferdinando era cresciuto in Aragona, e suo padre Ferdinando il grande gli aveva insegnato ad andare a cavallo, a colpire di spada.

Un giorno- diceva F. il grande- dovrai conquistare la mano della principessa più ricca dei cinque regni, e permettere alla nostra dinastia di crescere nelle ricchezze e nel potere.

Così era ,dai secoli dei secoli.

Ogni Ferdinando si distingueva per il sangue freddo e la lealtà verso la corona, che cotanto pesava sul capo minuto tipico della dinastia D' Aragona.

Aspetto fiero e importante del viso, accompagnato ad un fisico altrettanto elegante, Ferdinando avrebbe voluto ritirarsi in un angolo e scoppiare a piangere.

Il torneo era vicino all' inizio, e a lui sarebbe toccato confrontarsi con Ramonez, il temibile principe di Valencia.

Chinarsi sul velluto del mantello di Francesco e sprofondare il viso tra i capelli e il precipizio del suo collo, era tutto ciò che avrebbe potuto alleviare il suo dolore.

Il capo delle guardie, con cui era cresciuto, portava con se il grande segreto del loro affetto, cresciuto tra il retro delle cucine e i giardini del palazzo reale.

Un affetto da soffocare, destinato a rimanere incompreso e inspiegabile. Poteva l'amore essere condiviso da un principe ed una guardia del re?



Gianfrinosse suonò la trombetta per la prima volta nella sua vita. Il che, per un semplice scudiero, rappresentava un onore; il suo nome sarebbe stato ricordato alla corte della principessa.

Un suono stridulo, sgradevole e prolungato accompagnò l' inizio del torneo. Un suono che riportò ognuno alla regale normalità.

Gianfrinosse ammirò da lontano l' aspetto vagamente altezzoso di sua maestà Isabella, esplorando la delicatezza dei tratti del suo volto.

Nello stesso momento Ferdinando uscì al galoppo dalla tenda, nell'aria di quella giovane mattina di primavera, lasciandosi alle spalle i tiepidi ricordi d' amore, correndo incontro alla rabbia e al disprezzo della sua prossima infelicità.


La fine di questo racconto la trovate su wikipedia, o su un manuale di storia moderna. Descrive un regno glorioso condiviso da Isabella e Ferdinando, coniugi per quasi trent' anni.

lunedì 13 febbraio 2012

Un'amorevole ingenuità

Anna diceva di no, ma era evidente. Il suo sguardo spento comunicava chiaramente uno stato di disagio. Tutti noi sapevamo che il motivo era Stefano, ma lei cercava di nasconderlo dietro ad un sorrisetto stupito, accompagnato da risposte del tipo: “Pensi che mi interessi qualcosa?” e via dicendo. A me personalmente faceva molta pena, ma sapevo che le sarebbe passata.

Giorgio invece si vedeva da lontano un chilometro che si stava annoiando a morte. D’altronde gli invitati alla festa erano gente che non aveva mai visto prima, e che peraltro non aveva alcuna intenzione di conoscere. Era imbarazzante quando il festeggiato, Luca, lo raggiungeva al tavolo per chiedergli se si stesse divertendo. Giorgio, spalancando gli occhi e andando su e giù con la testa, riusciva a malapena a contraffare l’espressione di una convinta approvazione, per poi, dopo che Luca se n’era andato, rituffare gli occhi nel bicchiere, e sorseggiare lentamente la sua terza, quarta o quinta birra.

Carmine era ridicolo. Ad ogni festa beveva sempre più di tutti e con il suo accento meridionale si ostinava a blaterare: “Ma io nun sò ubbriaco, manco pe’ nniente!”. Malgrado tentasse di controllare i movimenti del corpo in uno sforzo di sincronizzazione degli arti, i risultati erano molto scarsi. Gli occhi li aveva velati, lo sguardo era ormai ebbro, il suo viso lasciava facilmente intuire il numero di Americani o Negroni che si era scolato fin lì.

Giulia, seduta al tavolo di legno con un amaro in mano, parlava distrattamente con alcune sue amiche, mentre con la coda dell’occhio studiava i movimenti di Filippo: appena lui si sarebbe alzato, lei avrebbe fatto lo stesso, fingendo un’espressione sorpresa al momento dell’incontro, che sarebbe avvenuto al tavolo del piccolo buffet. Mi accorgevo, in quegli istanti in cui la osservavo, di quanto è buffo sforzarsi di rendere casuale un incontro che al contrario si brama con tutto il cuore, come si fa spesso per far capire all’altro che in fondo, anche se non ci si fosse incontrati, la cosa non avrebbe avuto grande importanza. Nel frattempo, seguendo il copione dell’attrice che era, Giulia aveva sfiorato la mano di Filippo in prossimità di un piatto di tramezzini, e gli si era rivolta con un “Ma guarda chi si vede!”. Faceva molto ridere, Giulia, ma era tanto carina, nella sua recita venuta male.

Io ero appoggiato col sedere al muro, con del vino in una mano e una sigaretta accesa nell’altra. Rispondevo con entusiasmo a Luca che andava tutto bene, stirando la bocca in un sorriso innaturale, quando in realtà ero più annoiato di Giorgio, che almeno lui ormai era ubriaco.

Erano le dieci e venti e gli ultimi invitati erano appena arrivati.

Tutti a quella festa sembravamo concentrati nel nascondere agli altri informazioni che probabilmente ci avrebbero messi in imbarazzo. Dietro ad uno sguardo o a una risposta, ad una risata, a un movimento.
Tutto per celare segnali, pensieri, sentimenti da noi ritenuti inopportuni, chissà poi secondo quale criterio!
Ahinoi però, ogni nostro sforzo, seppur degno di un posto da protagonista in una qualsivoglia opera di Brecht, falliva abbastanza miseramente.

Del resto, bisogna ammettere che ha ragione quell’infausto incipit, che ci ricorda che la fuga di notizie (nel nostro caso la fuga dei segreti da noi custoditi) è il nostro grande guaio, anche se, nel contempo, questa stessa fuga ci rende così amorevolmente ingenui, che è difficile rinunciarvi.

domenica 12 febbraio 2012

Un autobus chiamato Italia - Dialogo teatrale a più voci


Autobus urbano. Linea S. Ora di traffico intensivo. Gente affrettata sale e scende dalla vettura.
Entra il controllore.

Controllore: Biglietti, biglietti!

Tutti rimangono assorti nelle proprie attività, alcuni leggono il giornale, altri guardano fuori dal finestrino pensando che il controllore così non li veda.

Controllore: Lei, signore, parlo proprio con lei. Mi faccia vedere il biglietto

Personaggio A: (con marcato accento veneto) Mi? Pensa ti, la prima volta che me inciucco e che monto sora el bus i me chiede il biglietto. Vuto vidar el bijietto? Non ghe l'ho! Elo contento? Se vedeva che el me volea far la multa. Poi son meso 'mbriago. Non son sicuro nemmeno che lu sia el controllor, vero? Sempre a mi g'ha da capitarme! Seto che son drio a tornar a casa? Che ho laorà i campi tutto el dì? E poi sa vollo, se ciacola, se suga ala briscola e se beve, non fo mia del mal a nissuni mi! Comunque se proprio vol saverla tutta, vada a vidar in fondo all'autobus. Ho visto che uno l'è entrà. Uno strano salo? G'avea il collo talmente lungo che parea che qualche d'uni ghe l'avesse tirà. Vada a vidar se quelo ha timbrà il bijetto! Vada a vidar quelo a cui el g'ha pestà el diton! L'è lì tutto incassà!

Controllore: Andrò a controllare, lei comunque prenderà la multa.

Personaggio A: Te parea! (sottovoce) Ma va in mona!

Controllore: Cosa ha detto?

Personaggio A: Ho dito che pagarò.

Controllore: Lei? Mi fa vedere il suo biglietto?

Personaggio B: (accento lombardo, con la r moscia) Uè baluba! Parla con me? Gli pare che non abbia il biglietto? Guardi che io lavoro sa? Posso permettermi il biglietto da barbone di questo autobus lercio, pieno di meridionali scrocconi. Poi sto andando a lavorare. Normale no? Dai dai, circolare!

Controllore: Guardi che non mi muovo da qui finché non me lo fa vedere.

Personaggio B: Oh, bisogna proprio essere proprio dei barboni! Son l'unico su tutto l'autobus che lo paga! Vuole vederlo? Tiè, lo guardi bene. Questo autobus quasi lo mantengo io!

Controllore: Questo biglietto è stato timbrato più di un mese fa.

Personaggio B: Beh, allora? Guardi che ho chiamato il capo della filovia e mi ha detto che potevo salire rilassato su questo autobus, che tanto conoscevo lui. Romanelli, le dice niente? Si muova, circolare! Se non vuole che la faccia licenziare.

Controllore: Non mi interessa, io le devo fare la multa.

Personaggio B: Voglio proprio vedere cosa dirà a quell'Africa che mi ha pestato il piede. Sto già chiamando il mio avvocato per vedere se ci sono gli estremi di una causa. Lo riconoscerà di sicuro! Ha una corda sul cappello, al posto del nastro.

Controllore: Lei intanto rimanga qui, poi torno a farle la multa. (girandosi verso un passeggero) Lei, si, lei. Biglietto prego!

Personaggio C: (accento toscano) Ma che stà a dire? Ma guarda questo! Io sò artista! Le sembra che l'artisti c'abbiano da pagà il biglietto? Mi pareva ci fosse una legge a riguardo. Noi siamo esonerati!

Controllore: Non credo proprio, guardi. Me lo documenti.

Personaggio C: Cos'è che c'ho da fare? Documentare che? Non si vede che so artista? L'avrà viste anche lei le mie opere d'arte!

Controllore: Non le conosco.

Personaggio C: Allora si informi. Poi sono il cugino del fratello del cognato di Pablo Picasso. Lo conosce almeno Picasso? Vorrà mica farmi la multa? Lei è proprio prevenuto contro l'arte! Guardi, ultima offerta. La invito a casa mia per una bella cecina. Dicono che sappia cucinare bene! Le piace la farinata di ceci? Le posso fare altrimenti un bel cinghialino ben innaffiato da una nostra bottiglia di vino fatta in casa. Quel puzzone l'ha visto poi? Quello che s'è seduto in fondo all'autobus? Lui viene qui e ci ruba i posti e rovina l'aria di questa vettura con il suo olezzo incredibile. Ha un tono lamentoso il tizio.

Controllore: (con tono toscano) No, lei è molto gentile ma... (schiarendo la voce e tornando a parlare normale) Non mi interessa. Che schifo fa questo autobus! Ma il biglietto l'ha pagato qualcuno? Prenderete tutti la multa!

Personaggio D: (tono straniero) Io pagato il biglietto, io rispettare regole, essere buon cittadino.

Controllore: Eccolo qua! È lei che ha pestato il piede al signore senza neanche scusarsi?

Personaggio D: Io pestato piede solo perché signore fatto lo sgambetto. Ecco biglietto. Controllare se non crede.

Controllore: Beh, effettivamente il suo biglietto è valido ed obliterato correttamente. Domani comunque ci sarà l'aumento. Se ha altri biglietti di questo tipo li dovrà buttare!

Personaggio D: Io sapevo! Unico che paga biglietto, unico che paga aumento. Io volevo prendere altro autobus. In altri autobus funziona meglio.

Controllore: Non mi interessa. Lei è su questo autobus e segue le nostre regole.

L'autobus si ferma.

Controllore: Signori, mi avete stufato! Non posso mica stare dietro a tutti! Andate via! Siamo arrivati. “RECESSIONE”. È il capolinea.

IDROFOBIA

Marco è un ragazzo di 14 anni che ha da poco cominciato a frequentare l'istituto alberghiero, scelta presa dopo aver affrontato vari test attitudinali che hanno messo in risalto la sua attitudine al comando. Il suo sogno è quello di diventare capo cuoco di un grande ristorante, uno di quei posti in cui potrà comandare tutti senza sporcarsi le mani e ricevendo lodi da tutti.

In aula è sempre seduto in fondo, nell'angolo destro, vicino alla finestra costantemente socchiusa. Affianco a lui siedono Giorgio ed Eugenio, suoi compagni fin dalle medie. Sono gli unici amici che ha, gli unici disposti ad ascoltarlo parlare esclusivamente dei suoi progetti futuri, che prevedono loro come sottoposti, e della sua passione: i profumi.

Possiede 200 mini boccette da collezione, 163 flaconi da 150 ml, 97 flaconi da 50 ml, 43 colonie, due scatoloni pieni di campioni-prova e 72 differenti essenze suddivise in: fiori, frutti, cortecce, radici, muschi e spezie.

Nei pomeriggi liberi dagli impegni scolastici ha l'abitudine di fare un percorso ben programmato nelle tappe e nei tempi. Comincia sempre dalla cartoleria all'angolo, entra, sfoglia le riviste di moda e se all'interno trova dei campioni-prova si dirige alla cassa per l'acquisto. Successivamente si reca nelle due profumerie del suo quartiere, ma spesso rimane deluso perché sono prive delle ultime novità. Infine suona il campanello in tutti i centri estetici nelle vicinanze per chiedere se hanno campioni della sua nuova scoperta, le creme profumate.

Questa mania era nata per colpa di sua madre che fin dai primi mesi di vita aveva l'abitudine di cospargerlo di olii profumati e borotalco. Marco quando vedeva l'acqua impazziva e urlava come un'aragosta immersa in una pentola in ebollizione, così la madre lo lavava il minimo necessario. Suo padre gli racconta sempre di quando aveva tre anni ed erano andati in vacanza al mare perché speravano che vedendo quella meravigliosa distesa d'acqua Marco non avrebbe resistito e avrebbe superato quella strana fobia. Nel momento in cui si era trovato davanti il mare, invece di gioire lui si era messo ad urlare che lo volevano uccidere ed era andato a nascondersi sotto lo sdraio di due ragazze. Suo padre si rese conto che le loro speranze erano un assurdità dato che il bambino si rifiutava anche di bere e preferiva convivere un sondino naso gastrico.

Il 21 novembre dello scorso anno qualcosa cambiò. Quel pomeriggio i suoi amici erano assenti da scuola per evitare l'interrogazione di tedesco, così lui si ritrovò da solo durante la lezione pratica di cucina. Normalmente non s'occupavano di tutto ciò che riguardava l'uso dell'acqua, Giorgio ed Eugenio dovevano sempre lavare gli alimenti, cucinare ciò che doveva essere cotto a vapore, bollito e impastato.

Quel pomeriggio si dovette accontentare di lavorare con una compagna di cui ricordava a malapena il nome. Sfortunatamente lei non era d'accordo con la suddivisione di ruoli imposta da Marco, pure lei voleva comandare. Gli fece scolare la pasta, misurare il grado di cottura delle zucchine lessate immergendo in esse la forchetta, obbligandolo così ad avvicinarsi pericolosamente all'acqua e rendendolo sempre più nervoso, minuto dopo minuto. Marco raggiunse il picco di stress quando dovette impastare a mano il pane, mischiare l'acqua e la farina lo urtarono pesantemente ma perse completamente la ragione quando il professore lo obbligò a lavarsi le mani sotto l'acqua corrente. In quel momento pensò che aveva decisamente sbagliato scuola, cadde a terra in preda a una crisi respiratoria e infine svenne.

Riprese coscienza quando lo avevano già caricato su una barella per portarlo al pronto soccorso. I medici notando il suo stato di sporcizia si rifiutarono di visitarlo e lo mandarono a casa con due prescrizioni,incontri con uno psicologo e l'obbligo di fare una doccia al giorno. Ovviamente Marco non aveva alcuna intenzione di seguire la cura e arrivato a casa si mise subito a letto.

Il mattino seguente sua madre lo svegliò più tardi del solito per lasciarlo riposare. Marco s'arrabbiò, la insultò, uscì di corsa di casa e riuscì a prendere l'abituale autobus. Nell'istante in cui timbrò il biglietto si rese conto che si era dimenticato di cospargere il suo corpo con gli abituali profumi.

Quella mattina dello scorso novembre l'odore che proveniva dai piedi di Marco era talmente forte che i suoi compagni di banco dovettero cambiare posto.

sabato 11 febbraio 2012

ERA Di MARZO, D'APRILE, O NON SO

(...su di un incipit un po' datato... spero non sia un problema! Buona lettura.)



Un giorno di ordinaria follia inizia sempre, ve lo posso garantire, con un qualsiasi sbadiglio. E di solito si trascina lento nella luce stanca e insofferente del mattino. Ed è già passato, già non ci si ricorda che qualche dettaglio superfluo: ci si addormenta ancora una volta pensando "a domani!"

Come la storia d'amore di due ragazzi inizia veramente solo molte settimane dopo l'epilogo, cosi un giorno di ordinaria follia diventa tale in un momento distante, e grazie a un appiglio esteriore, un'esclamazione, un fischio, un silenzio prolungato. E la storia d'amore, che ci volete fare?, è per forza di cose unica solida base di un giorno di ordinaria follia.

Il ragazzo pensa sempre a Lei, o a qualcosa che riguarda Lei senza volerLa riguardare: perché Lei è in ogni cosa: la parete bianca ne è la prova più convincente, ma anche il possente albero squassato dal vento ricorda al ragazzo che Lei è nel mondo: ma il ragazzo è uno stoico figlio di puttana, quindi non si da per vinto e continua a recitare a memoria poesie filosofiche, e sistema la propria personale metafisica come fosse un archivista stipendiato da qualche ministero. Niente da fare, il ragazzo maledice le sue passioni e continua a sbadigliare stentoreo, fosse stato un amante della logica i suoi dilemmi sarebbero tanto diversi ora da essere identici a quelli che già sono. Vedere una persona nella corteccia di un albero, nei suoi folti rami spettinati di foglie ribelli, sradica qualsivoglia sistema metafisico, e il ragazzo è per principio un asistematico, un'amara punta di fatalismo e un socratico decostruirsi per costruirsi caratterizzano la sua spina dorsale: fragile ma robusta, esile ma resistente: il ragazzo si lascia andare alla formulazione facile di vani ossimori, un modo come un altro di passare il tempo senza prendere sul serio l'eventualità di lasciarsi andare a una sbronza da paura. E di paura ce n'è tanta. E comunque un primo mezzo litro di quello rosso forte se n'è andato, irrecuperabile nei meandri di un esofago verticale. Tra l'altro il ragazzo passeggia da sembrare allegro, visita certi locali conosciuti come sempre gli stessi e gli capita di fermarsi ad espletare la pratica inutile, talvolta irritante, del chiacchiericcio. Sarà strano che Bacco gli infonda veemenza declamatoria e certo fascino maudit? Del resto chi barcollando prima del tramonto parla di Reiner Maria Rilke e gorgheggia l'infinito Leopardi desta sempre una qualche attenzione. E il tramonto sorprende il ragazzo in atteggiamento almeno apparentemente edonico a un tavolo di legno, ma: indovinate cosa scrutano i suoi occhi nel cambio di colori, nel trapasso, ordinario e straordinario, tra la luce e il buio. Questo è un vero compito da lettori: serve attenzione, sensibilità e il giusto grado di intuizione. Scommetto che il gioco è fatto! L'edonismo del ragazzo, quella bottiglia offertagli da un improvvisato Dioniso, quel fumante tabacco tra le labbra sorridenti, addirittura quella qualsiasi ragazza ammiccante che con un ginocchio (mirabile visione: nudo!) gli sfiora uno a caso dei ginocchi, non traggano in inganno: la sua mente è ancora impegnata nell'ordinare fogli svolazzanti nel vento e flash-back di rara malinconia: sappiatelo: la storia finita deve ancora incominciare, lo si era già detto su, da qualche parte! E la storia finita incomincia minuto dopo minuto e ancora e ancora, e il possente albero ha il viso di Lei e il ragazzo vorrebbe soltanto, o almeno cosi crede, forse già maltrattato dai fumi dell'alcool, affondare in qualcosa di più superfluo: la stupidità per sconfiggere il dolore, quanti avranno teorizzato tale terapia? E' così che dopo circa un'ora (si fa per dire, tempo al tempo, la goccia ora nell'oceano vita può assumere significati stravaganti) la qualsiasi ragazza dalle nude ginocchia stringe la mano del ragazzo e ride, e anche lui ride anche se non sa di cosa, né si interessa di capirlo: e lei ripete casa mia casa mia! e lui annuisce, o qualcosa del genere, annuisce e inciampa e si rialza, mentre lei dice che bello averti conosciuto e a lui non importa niente, perché è giunta la follia e lui lo saprà solo chissà tra quanto tempo, in un moto di fastidio e tristezza, ma ora non può che fingere senza saperlo e le immagini improvvise di Lei, come botte in testa, faranno male domani, domani faranno peggio, e il possente albero avrà foglie d'oro e sangue, e lui in ginocchio bacia le nude ginocchia e morde i polpacci anch'essi nudi e lei ride con una mano tra i suoi capelli, meno male che ti ho incontrato oggi, meno male che sei cosi perfetto oggi, e il ragazzo non ha più occhi né orecchie, solo denti e lingua e organi turgidi pronti a esplodere e non è più stoico né materialista, è solo un perfetto idiota che s'immerge nella sua idiozia come un perfetto idiota, e scusate ma la tautologia è nata spontanea. E cosi se ne va a finire il giorno di ordinaria follia, e di ordinario in questo giorno ci si trova soltanto la solita folle follia: la consapevolezza che non si scappa da e verso nessun luogo, perché non si può. E buonanotte, o buongiorno, vi siete mai resi conto che si tratta sempre di un eufemismo? Allora addio.

lunedì 6 febbraio 2012

hgewfhgfeg Laura. Erba hfhhdn maglione: herffrgb compleanno.

Perché Laura mi aveva lasciato, così all’improvviso?

Ricordo ancora lo scorso marzo, ci trovammo in un bar, «ascolta sei libero oggi alle 2, per un caffè?» «Perché? Beh, sì, il negozio apre alle 3.. facciamo dal pakistano?»«Sì, va bene. Alle 2, allora». Una faccina contenta, la sua, il solito cappotto blu, la solita andatura camminata portamento innaturale (un due piede avanti – punta – avanti l’altro) per la quale in molti erano a commentare eroticamente quei passi che fino a quel mese sentivo anche un po’ miei. Si toglie gli occhiali da miope, annebbiati, ordina un caffè «uno anche per me, grazie», e poi, quando il giovane arriva al nostro tavolo, la scena dai vetri del locale poteva più o meno sembrare questa: una ragazza che gira il suo cucchiaino nella tazzina, ne beve l’amaro contenuto e dice qualcosa al protagonista; ecco la giovane prendere la sua borsa di tela lasciare il soldo sul tavolo e andarsene. E io la guardai prendere la via d’uscita, e cosa potevo fare secondo voi?

Poche ore dopo mi accorsi dell’accaduto. Troppe cose dopo quella frase di addio: pagare la consumazione, andare all’auto, cercai di uscire dal parcheggio, piansi perché la mia macchina si era scontrata con il parafango della Panda che avevo dietro. Non vidi semafori, non vedo un amico che su via Aliprandi mi saluta. Occhi annebbiati, occhi che… C’era da aprire il negozio, il signor Malaschini venne puntuale a prendere le sue camicie stirate. Classici profumi da lavasecco, «e guardi che se non leva il cappuccio noi non possiamo poi farci niente se con il tetracloroetilene poi si rovina il tessuto, signora». Lo dissi per tre volte, quella giornata, e Laura stava nei solventi, nei silossani e nell’anidride carbonica liquida, in quel vestito di seta che fu appeso in negozio aspettando che una certa signora Maldrés venisse a riprenderselo, nei 230 gradi del lino, nei 148 di lana e viscosa, nei 204 del cotone. Arrivai a casa, stremato. Mangiai perché non avevo fame, in fondo Laura stava anche in quella scatoletta di tonno e piselli, e cercai di capire perché.

Perché Laura mi aveva lasciato?

Provai a pensare a tutti i motivi per i quali avrebbe potuto fare una cosa simile: tra di noi era finito l’amore? Si era innamorata di qualcun altro? Pensavo fosse impossibile: no, Laura questo me lo avrebbe detto, i fatti potevano smentire questo dubbio, a consumarci tra i sedili giusto una settimana prima, i nostri piedi incastrati tra i tappetini dell’auto, occhiate delle diciottenni a noi addossati alle pareti del Garten, rossetto slabbrato sul suo viso pallido, e poi a casa, finivamo discorsi lasciati a metà e là tra le lenzuola i suoi capelli neri, parole sublimate, e nei suoi occhi nessun altro traspariva, nessun altro figlio posticcio di Graham Coxon poteva entrare nel suo cuore, era impossibile che si fosse innamorata di un cliente del suo negozio. Che cosa, allora? Non mi piaceva la sua famiglia, certo, e lo sapeva: quel fratello così perfetto, laurea in economia e un posto in banca, e il padre e quelle sue maniere in decomposizione e io «Porto fuori Laura» ma nessuno ascolta, e se mangiare da loro la domenica significava trascorrere il pomeriggio a dibattere di calcio e politica, i due maschioni della compagnia con i loro capelli a spazzola, allora io e Laura fuggivamo.

I litigi accadevano per motivi disparati. Il gatto Milou che non volevo tenere nel mio appartamento, la musica da far girare per casa, le stanze che andrebbero arieggiate con qualcos’altro mi diceva, «Ma perché sempre Risingson, sempre quel dannato disco..» un giorno tornai e cerco ma chissà dov’è finito. «Boh, cosa pretendi di trovare in tutto quel casino che hai..» ma tutto finì lì. Altre volte ci si pungeva per i ritardi comuni, film saltati ai titoli di testa perché Laura non arrivava agli orari stabiliti, e io che andavo a prenderla quando i concerti erano già iniziati. E, qualche giorno prima dell’addio, la questione di quel ridicolo maglione verde.

Laura diceva che era bellissimo, appena arrivato in negozio lo aveva messo da parte per me. Si trattava di un maglione taglia L verde erba vivo. Vivo, sì: non era fatto di lana, cotone, angora, cashmere; la sua composizione era unicamente di materiale biodegradabile, mi spiegò Laura. «Un importante designer australiano realizza questi capi di vestiario partendo da una base di terreno racchiusa in una maglia di fibre vegetali, e da un’innaffiatura con canaletti interni ad essa ne fa spuntare l’erba in superficie». Il pullover presentava infatti qua e là ciuffi di erbe più o meno curate, e Laura era tutta contenta a spiegarmi come le erbe usate fossero cicoria (piccoli fiori blu erano sparpagliati qua e là sui polsini e sulle cuciture delle maniche) e verbena. A guardare più da vicino, si notavano dei piccoli animaletti camminare sulla superficie del maglione, moscerini volteggiavano su una fogliolina quadrilobata all’altezza del girocollo; ma la mia sorpresa fu grande quando scoprii la vita all’interno del maglione appoggiato sul tavolo. Risvoltandolo con cautela, scoprii che l’interno era innervato di piccolissime radici che si allargavano per tutta la lunghezza del mio regalo di compleanno. La sottile rete fibrosa riusciva a trattenere in maniera egregia il terriccio che consentiva all’erba di poter costituire la superficie del golf, ma attraverso piccoli movimenti di essa erano visibili alcuni vermetti scuri che si agitavano nel sottobosco di quel maglione. «Starai caldissimo con questa maglia e credimi, è davvero un capo molto originale» mi diceva Laura tutta contenta per quell’assurdo affare che avevo tra le mani. Non aveva l’aria di prendermi in giro, questo lo si vedeva da una luce di contentezza che le si leggeva negli occhi, ma credo neppure avesse avuto un briciolo di lucidità nel pensare che io avrei potuto indossare una cosa vivente a contatto con la mia pelle. E poi, come avrei fatto a lavarlo a secco?

Le dissi che io no, io comunque non avrei indossato maglioni verdi… «Credimi Laura, l’idea dell’erba è bellissima, ma a me questo verde non piace. L’autore dell’incipit di questo racconto vuole..vuole che io trovi una metafora per questo verde..e davvero penso che solo un soldato possa permettersi di portare un capo così perfettamente mimetico; scusami, ma io non posso accettarlo». Appallottolai in qualche maniera il maglione che mi ritrovavo nelle mani, cercando di non toccare le formiche che sgattaiolavano qua e là nelle placche di quel piccolo terremoto che creavo nell’erba continuando a maltrattare il pullover, e riconsegnai a Laura il mio regalo di compleanno. «Scusami», le dissi, ma davvero quel maglione mi ripugnava fortemente. Non seppi se in quel momento lei se la prese o meno, mise nel suo sacchetto il golf e mangiammo, senza gusto, senza dire una parola. Non uscimmo, dovevamo raggiungere degli amici per poi andare a ballare e festeggiare, ma restammo a casa. Non abbiamo fatto l’amore quella notte, Laura se andò prestissimo con la sua auto, e dai suoi occhi capivo di averle dato una cocente delusione.

Il giorno dopo mi telefonò al Lavaggio a Secco, mi chiede come sto, si scusa per quel regalo, dice di averlo venduto ad un signore che ogni domenica si fissa davanti a Lineaverde e lascia andare a messa, da sola, la moglie. Ma qualcosa è cambiato, nella sue parole, e mi sembrò di sentire un lieve tono dimesso.

Fino a quel giorno in quel bar. Ma non poteva essere certo per quel maglione. Ma allora perché Laura mi aveva lasciato?

Verde Miranda

"Io comunque non avrei indossato maglioni verdi. Indossare maglioni verdi è fuori luogo: come mettere dei pantaloni a zampa negli anni 80.” Era iniziata così l’arringa di Miranda: la più cattiva di tutte le avvocatesse, la più spietata di tutte le giuriste del tribunale delle moda. A lei non sfuggiva nessun dettaglio ed era pronta a trascinare in tribunale chiunque commettesse l’errore di passare davanti ai suoi occhi con qualche cosa di fuori posto nel suo outfit.
“Un maglione verde – continuò Miranda - è il simbolo di provincialità e bruttezza, secondo solo al calzino di spugna con sandalo alla tedesca. Vostro Onore, la realtà è che mettere un maglione verde al giorno d’oggi è attività che andrebbe punita con l’ergastolo. E ciò, mi sia permesso dirlo, non può contare su nessun tipo di attenuante.. la sua inadeguatezza vale per ogni tonalità:
verde acido : il fatto che stia bene a qualche donna è da considerarsi spia d’allarme
verde bottiglia : accettabile solo dopo averne svuotate un paio
verde erba : inguardabile, buono solo da fumare
verde foresta : piace solo agli indigeni che ci vivono in mezzo
verde mare : siamo a sottomarina, non di porto cervo
verde medico : fatti curare
verde mela : l’errore di stile da cui iniziò l’eterna dannazione
verde muffa : una realtà da bonificare
verde muschio : accettabile solo sul presepe
verde oliva : aperitivo che preannuncia abbuffate di cattivo gusto
verde pera : piace solo in coppia
verde petrolio : sfortunatamente questo è un colore rinnovabile
verde pisello : seppelliamolo sotto 7 materassi
verde semaforo : da sempre il via libera ad outfit imbarazzanti
verde smeraldo : il peggiore, inganna legando il suo nome ad un pietra preziosa ma è una patacca.

Vostro Onore, troverete conferma della mia tesi nei cataloghi Autunno/Inverno di Gucci, Prada, Zara ed H&M che vi ho portato come prove. Nessuno, ma dico nessuno, ha previsto dei capi che ricordino una sola di queste tonalità.. e non sto parlando solo di haute couture, ma anche di grande distribuzione. Il verde è assolutamente bandito e chiunque lo indossi va punito, ed è per questo che richiedo il carcere immediato per l’imputata in attesa di una pena esemplare.. perché la moda non ammette ignoranza.”
“Signorina, signorina!”, una voce la chiamò.
Miranda fece un mezzo coccolone. Si destò dal suo “sovrappensiero” e realizzò che non era in tribunale, ma in negozio.. come tutti i giorni. Miranda, infatti, non era una giurista ma faceva la commessa in un grande magazzino e quella che la chiamava era la signora Cinzia alla quale poco prima aveva indicato i camerini di prova. La signora Cinzia, che ad occhio portava una 48, si era voluta provare un maglione di lana verde scuro, taglia 44. Come potete voi stessi immaginare la signora assomigliava più ad un enorme carciofo che ad una modella da catalogo. “Allora, signorina? Che dice, mi sta bene?”, insistette la signora che cercava disperatamente un’approvazione. Miranda fece uno sforzo per dimenticare il suo sogno e rientrò nei panni della brava commessa: “Signora, me lo lasci dire.. questo maglione le sta divinamente. E poi il verde quest’anno è proprio di moda!” e chiuse il tutto con un sorrisone. Aveva fatto felice un’ altra cliente e venduto un altro maglione per la gioia del suo portafoglio ma le veniva da piangere: odiava sacrificare lo stile.

1912 - 1954

“Sta uscendo quello schifoso!” disse uno dei ragazzi nella folla fissando la cima delle scale del commissariato di polizia. L'animo di tutti si scaldò in un attimo, alcuni alzarono velocemente dei cartelli di cartone improvvisati, altri iniziando a gridare frasi irripetibili. “Devi morire, schifoso pederasta!” disse il più giovane del gruppo, tentando di lanciare un uovo. Afferrai il braccio del ragazzino, strattonandolo. L'uovo, che ormai aveva ricevuto la forza sufficiente per spiccare il volo, partì roteando verso la direzione del povero Alan, che scendeva la scalinata con una mano nella tasca. Colpita la fronte, l'uovo si ruppe in mille pezzi, macchiando di albume e tuorlo la sua elegante giacca, nonché rovinando la pettinatura pressocché perfetta dei suoi capelli bruni divisa in due parti da una riga. Neanche la vista della sua cravatta irrimediabilmente rovinata ne tolse lo sguardo pensieroso dal volto. Quello sguardo lo conoscevo bene, erano ormai alcuni anni che lavoravo con lui, dalla fine della guerra. Matematico illustre, filosofo eccezionale, iniziai a seguire il suo lavoro da metà degli anni trenta, mentre riceveva il suo dottorato in ricerca. Io allora ero un semplice studente non ancora laureato di Cambridge ma quel ragazzo iniziò ad affascinarmi, con la sua aria assorta ma con la sua mente geniale. “Smettetela, il dottor Turing non è solo un genio, è un eroe!” dissi, facendomi spazio spintonando la folla che tentava di sfondare il cordone di polizia che lo proteggeva da una sicura linciata. “Alan!” gridai, allungando un braccio verso di lui attraverso le guardie, sfiorandone leggermente la morbida e rasata pelle del volto. Lui non se ne accorse nemmeno. Avrei dato migliaia di sterline per sapere che cosa avesse nella testa in quegli istanti. La fulminea intuizione seguita da un lento ed accurato lavoro universitario, ne consacrarono il successo. Una macchina che potesse essere “universale”, che potesse risolvere qualsiasi problema l'uomo le insegnasse a risolvere grazie ad un numero finito di regole. Sicuramente Gödel sarà schizzato sulla sedia, alla lettura di quell'articolo. Poi certo, iniziò la guerra e di tempo per stupefacenti formalismi e macchine ideali ad Alan non ne rimase poi molto. Se non fosse per lui oggi parleremo tutti tedesco, ne sono sicuro, scommetterei la mia stessa vita per dichiararlo. Aver rubato una di quelle macchine da scrivere cifranti naziste fu importante, ma non quanto averla data in mano al giusto gruppo di ricerca, che in poco tempo grazie alla formidabile propensione di Alan alla crittanalisi riuscì a “scardinare” il codice, permettendo di intercettare e decodificare tutte le comunicazioni tedesche. È possibile che debba ricordarlo io a questi bigotti ignoranti che ora lo insultano? Ormai membro della società reale, iniziai ad assisterlo nei suoi lavori. Non che ce ne fosse bisogno, sia chiaro, ma una mente così sovraccarica di idee doveva essere seguita da una che invece tentasse di riportare le intuizioni e darne una forma stampabile. Così pensieroso non si accorse mai veramente della mia presenza, mentre ero lì a ricopiare le sue infinite lavagne prima che le cancellasse preso dalla smania di completare una dimostrazione. Ero lì ad ascoltare anche mentre ad alta voce parlava da solo di come un test basato sul gioco dell'imitazione potesse definire una macchina “pensante” oppure no. 1950. Nelle case ancora non arrivava l'acqua potabile e lui pensava già alle “macchine pensanti”, all'intelligenza artificiale. Poi arrivò quel dannato criminale, quel ragazzino, Arnold. Con l'inganno si fece invitare a casa di Alan per rubargli tutto, dopo ovviamente avergli fatto credere che l'amava. Va bene, qui Turing peccò di ingenuità, andando a denunciare il furto alla polizia dichiarando la sua relazione co il giovane Arnold. Che cosa avrà pensato di ottenere? L'avrà saputo che relazioni di quel tipo sono perseguite dalla legge al giorno d'oggi. Comunque, dopo la condanna per atti osceni decisero di offrirgli un alternativa farmacologica al carcere, per “curare” la sua condizione. Oggi sarà finalmente libero, potrò finalmente ricominciare a lavorare con lui, ad ascoltare affascinato ogni logica parola uscire dalle sue labbra. Non so come andrà a finire ma il dottor Alan Turing ci stupirà ancora.
 “Hyperboloids of wondrous Light Rolling for aye through Space and Time Harbour those Waves which somehow Might Play out God's holy pantomime” 

 Il 7 giugno 1954 il matematico Alan Mathison Turing muore suicida ingerendo una mela avvelenata con il cianuro dopo gli enormi scompensi fisici causati dalla cura a base di estrogeni.