L'incipit della settimana

ELABORATO TESTUALE DI TOT PAROLE: "L'antico vaso andava salvato"
STRINGA AUDIOVISUALE DIGITALE PROVENIENTE DA QUALCHE SERVER: "Youtube"
RETTANGOL CARTPLASTIC CONN'IMMAGIN STAMPAT QUAS BEN:"Perdita di tempo"
Ctrl+c, Ctrl+v, STAMP-E-PORT-LE-FOGL:"Glutammati sto sodio"

mercoledì 30 marzo 2011

forse non tutti sanno che...

forse non tutti sanno che i veri pilastri di Lisbona non sono i monumenti, i pasteis, il fado o il ponte venticinque abril. ebbene no, signori miei. i veri pilastri sono i vecchi. se passate per l'alfama dopo la feira, nella vietta che vi porta verso la stazione di Santa Apolonia incontrerete un vecchietto, dai tratti spagnoli-argentini, con i capelli radi e neri, nel naso dei tubucini per respirare e in bocca una sigaretta tutto intento a scrivere in un minuscolo quadernino sgualcito. verso mezzanotte poi, tornando a casa, in rua bernardo lima vicino al marques c'è una vecchietta, vicino ad una porta dipinta di blu, con un sacco grande della spesa che cerca e sistema fogli e carte, con la stessa gonna e il viso stravolto, da qualcosa che deve essere stato veramente forte. la vita forse, la droga, chissà.
poi un giorno mentre bevi con amici il vecchietto che ha segnato le tue decicioni ti prende la mano e Lisbona ti parla.
si insomma, i vecchi sono il pilastro di lisbona, o almeno così mi piace pensare. persone che vivono la loro vita, inconsapevoli di segnarne un'altra, solo per aver la fortuna di sembrare stravolti e inarrendevoli ai miei occhi a volte sciocchi a volte troppo innocenti.

martedì 29 marzo 2011

L'anno dell'orso grizzly e una giornata di Alvise

Forse non tutti sanno che l’orso grizzly segue una dieta principalmente composta da vegetali.
Con l’arrivo della primavera comincia la sua avventura che si ripete di anno in anno: arrivare all’inverno successivo nelle condizioni fisiche per superarlo.

Forse non tutti sanno che Alvise passa la maggior parte della sua giornata a spiare la porzione di mondo che gli è offerta da una piccola finestra.
Ogni mattina si sveglia.
Poi prende le sue medicine.
Poi si apposta a guardare ciò che succede al di là del vetro.
Osserva. Osserva e aspetta. Aspetta le 17. Aspetta l’orario delle visite sperando di avere le condizioni psichiche per arrivarci lucido.

Il tempo dei risvegli dal letargo l’orso grizzly si compone principalmente di tre fasi che per l’animale coincidono con altrettante vitali sfide.
La prima è lasciare la tana sita in alta montagna. Pericolosamente scoscesa e innevata è la via verso le valli. Ogni passo si può rivelare fatale.

Ogni giorno Alvise deve lottare con il suo cervello. Combattere per la sua lucidità.
Vive in un ospedale psichiatrico.
E’ pazzo talvolta.
Talvolta, se ne rende conto.
Talvolta, no.
Sente la follia che lo chiama.
Lo ammalia come una sirena verso gli scogli.
Deve rimanere lucido.
Lucido.
Lucido.
Lucido.

Colori.
Verde.
Verde.
Verde.
Rosso.

Personefluidiluciautomobiliveloci.

Automobili…lente.
Automibiliveloci.
Blu.

La seconda fase per l’orso grizzly consiste nel corteggiamento della femmina e nell’accoppiamento.
E’ il ciclo naturale.
L’istinto.
Più forte della fame.
Più forte della sete.

La follia di Alvise si calma progressivamente grazie all’assunzione dei farmaci.
Tutto comincia…piano.
I colori si fanno più morbidi e diventano aloni.
Interviene una lucidità estremamente lenta.
Soporifera. Senza addormentare.
Tutto si fa tranquillo.
Fuori, oltre la finestra, tutto è più normale.
E’ il momento più interessante per guardare il pezzo di mondo oltre il vetro.
Gli infermieri parlano con Alvise. Così come gli altri ospiti della casa di cura. Ma lui non risponde. Non ha tempo. Fuori è più interessante. Deve guardare.

La terza fase per l’orso grizzly è il momento in cui l’animale, dimagrito durante l’inverno, intraprende la sua lotta contro il tempo: deve ingrassare. Deve mangiare.
Ora vegetali per sopravvivere.
Poi arriveranno i salmoni. Quelli che gli servono per mettere carne sotto la pelliccia. Vuole risvegliarsi l’anno prossimo. Deve mangiare.

L’effetto dei medicinali si fa più incostante man mano che passa il tempo. Questo lascia spazio nella testa di Alvise ad un alternarsi di sensazioni.
E’ drogato, quando i principi attivi si fanno sentire.
Poi momentaneamente il loro effetto si fa più debole e compaiono talvolta follia, talvolta lucidità.

Ora è pazzo.
Ora è fatto.
Ora è lucido.
Lucido.
Lucido.
Fatto.
Pazzo.
Fatto.

Lucido. DAI!
“Le 17 si avvicinano.” Un sussurrare nella sua testa. “Forse arriverà tua figlia”.

E’ in balia del suo cervello malato.

“lucido per le 17! DAI!”

I salmoni hanno completato la loro risalita e sono tornati nel luogo in cui sono nati per riprodursi.
Il pesce scarseggia per l’orso. E il freddo avanza.
L’orso grizzly se ha raggiunto il peso necessario per affrontare l’inverno può tornare alla sua tana e prepararsi al prossimo letargo.
Il ciclo è compiuto.

Sono le 17. C’è sua figlia. Di Alvise.
Gli sorride. Posa una mano sulla sua spalla.
“Come va oggi papà?”
Nessuna risposta.
E’ tutto fuori. Del resto, non gli frega un cazzo. Fuori. Guardate fuori, che meraviglia!
C’è il mondo fuori. E c’è sua figlia.
Che lo saluta e se ne va.
E’ fatto, ancora.
Poi, quando tornerà un po’ di lucidità Alvise capirà che, di nuovo, da qui alle prossime 24 ore sarà ancora attesa e oblio.


Un’altra giornata di merda.

lunedì 28 marzo 2011

Cento giorni da pecora

Forse non tutti sanno che, nella migliore delle ipotesi, passiamo almeno vent'anni della nostra vita a dormire. Una volta, ormai tanti anni fa, mio nonno mi disse “chi ha tempo non aspetti tempo” e da quel momento iniziai a pormi un quesito: sto sfruttando bene il tempo che scorre inesorabilmente verso la mia fine? Quella domanda mi assillava, mi toglieva il sonno. Una mattina, quasi d'impulso, presi un blocco per gli appunti, una piccola matita ormai consumata ed iniziai a fare alcuni calcoli. Guardai il letto nel quale avevo dormito per tutta la notte, che avrei dovuto rifare e dissi: “da oggi non lo sistemerò mai più, posso guadagnare così quasi sedici giorni di vita”. Cominciai da quel momento ad economizzare il tempo evitando di fare quelle cose che ritenevo inutili.

Apparecchiare e sparecchiare: più di trecento giorni di vita.
Leggere il quotidiano: un anno e tre mesi di vita.
Sistemare la casa: circa nove mesi di vita.

Iniziai a ridurre al minimo le attività monotone giornaliere, portando avanti la mia personale battaglia contro il tempo. Avevo iniziato a fare solo le attività obbligatorie della vita ovvero mangiare, lavorare e dormire. Ah, e ovviamente i miei calcoli. Ogni minuto non impegnato in quelle attività era destinato a calcolare come risparmiare altro tempo. Ma un giorno ebbi l'idea. La malsana idea. Presi la sveglia e la puntai anticipando di un'ora il mio consueto risveglio mattutino. Così feci nei giorni successivi arrivando così a dormire solo due ore per notte. Tentai di dilazionare il tempo fra un pasto e l'altro per saltarne alcuni e rassegnai le dimissioni dal lavoro. Il blocco dei calcoli ormai era pieno zeppo di appunti e considerazioni sul tempo risparmiato. Ora il mio progetto poteva dirsi completo. Arrivato a casa, mi sedetti sul divano. In quel periodo avevo comprato molti orologi, per non perdere neanche un secondo, per vederlo passare avendolo battuto. Mi sedetti sul divano e iniziai a fissare l'orologio di fronte a me, grande, con le lancette d'ottone. Guardando le lancette muoversi cominciai a riflettere, non l'avevo più fatto durante gli ultimi mesi. Tanto tempo e nulla da fare. Senza lavoro, sempre stanco e assonnato. Al posto di un giorno da leone avevo scelto centoquarantaquattro mila minuti da pecora.

sabato 26 marzo 2011

io sono buono,io



Assorto nella contemplazione dei giochi, Leonardo con il naso appiccicato alla vetrina del negozio di giochi più grande di tutta la città, urla eccitato al padre: “ voglio questo, e quello!! papà guarda!! non è meraviglioso quel mostro con le zanne? Lo voglio, papà lo voglio! Io sono bravo papà, vero? Ho fatto il buono quest'anno, io. Lo ha detto anche la maestra Elisa. Io sono stato buono, io.”

“Si Leo, ora basta dai andiamo!”

Leo ha 13 anni, gli occhiali tondi, e un sorriso circolare.

“ papà tu mi credi vero? Io sono buono, io. Sono gli altri bambini che mi fanno diventare cattivo, quando mi buttano per terra le matite. Io li odio papà, io. Sopratutto quando li sento così ridere, ridono così forte.. sono loro i cattivi papà vero? Sono loro. Loro ghignano, e la maestra li sgrida sempre, sempre papà. Me lo prendi quel mostro? Me lo compri? Quelli sono proprio cattivi, mi tirano i capelli. Urlano : sei un mongolo, sei un mongolo! Papà cosa vuol dire mongolo? Tu non mi hai mai chiamato così.. è una parolaccia vero? Questa parola li fa ridere cosi tanto. Poi papà sono andato dalla bimba con le trecce, quella bella, ti ricordi papà? E io, io ero felice, perchè lei mi parlava. E' l'unica che mi parla, sai papà? Non sempre, ma a volte mi parla, dice che gli altri sono dei cretini e che io non sono un mongolo. Io non sono un mongolo,io.. ma che vuol dire papà? Io, io.. io sono come gli altri, vero? Anche se non prendo bei voti, io non sono uno stupido. Io so disegnare con tutti i colori dell'arcobaleno, sono belli i miei disegni dice la maestra Elisa! Io sono bravo, io sono bravo. Papà mi compri il mostro con le zanne? Al buio si illumina! “.

Il papà di Leonardo spegne la sigaretta con la punta delle scarpe, e sorride tristemente alle richieste del figlio. Lo prende per la mano, entra nel negozio di giochi più bello di tutta la città.

“ Salve, vorrei il mostro con le zanne che è in vetrina. Quanto costa?”

“ si si, il mostro in vetrina, quello verde con le zanne. Sono stato buono quest'anno, sai? Il papà me lo regala come premio! Io sono buono, io.”

La commessa sorride, e affonda gli occhi nel volto del padre. Il padre sorride di nuovo, tristemente.

“Ma certo! Lo prendo subito! Costa 20 euro, ma scontato sono 13.50”.

Avvenuto lo scambio soldi-premio, Leonardo si precipita fuori a far vedere il regalo a tutti i passanti.

“ Dai Leo, andiamo !, ti ricordi cosa aveva detto il dottore? Che passerai un po' di tempo alla casetta. Ci saranno tanti amici a cui potrai far vedere il tuo nuovo gioco, sei contento?”

“ Cos' è questo posto papà? Vieni anche tu con me vero? Io sono stato buono, io.”

“ No Leo, te l'ho già detto che io non verrò ma ti verrò a trovare tutte le settimane,ogni mercoledì promesso.”

“ Papà mi porti li perchè ho picchiato quei bambini cretini? Lo sai che mi prendevano in giro: mi urlavano mongolo, mi rubavano i giochi, mi tiravano i capelli.. io non volevo farli del male, io. Solo, solo che non ne potevo più, io. E cosi gli ho lanciato il punteruolo in faccia, a quei cretini. Io sono buono,io.”

“ Lo so Leo, andiamo ora. Sali in macchina.”

Il padre guidava piano, con lo sguardo sulla strada e la mente spenta.

Leo intanto spruzzava di felicità giocando con il mostro verde dalle grandi zanne.

La casetta si appoggiava in uno strato di cimento appena fuori la città. Padre e figlio, vi giungono con consapevolezze diverse.

“ Ora vado Leo. Farai il bravo, non è vero?”

“ Io sono buono, io.”

“ Dammi un abbraccio, ometto.”

“Quando torni papà?”

“Presto,Leo. Ogni mercoledì lo sai.”


Leo ora ha 45 anni, le rughe sul volto e occhiaie scure. E il papà non è tornato da più di 176 mercoledì ormai. Leo gioca con il mostro verde dalle grandi zanne. “ io sono buono, io. Il papà domani viene. Si si domani è mercoledì e il papà viene perchè io sono buono, io.”

Ogni mercoledì il papà di Leo prima di andare alla casetta comprava mostri fosforescenti, teatrini di marionette, treni di legno, macchinine telecomandate, e quant'altro al negozio di giochi più grande della città si poteva acquistare.

La camera di Leo alla casetta era diventata il parco giochi più bello della città, c'erano giochi divertenti per bambini di qualsiasi età.

Tutti i bambini della casetta saltavano in braccio a Leo che li faceva giocare, li faceva fare le capriole e li faceva usare i giochi della sua stanza. Leo raccontava a loro le storie di batman, peter pan e spiderman. I bambini consideravano Leo il più grande super eroe di tutta la storia dei supereroi. Il 45 esimo compleanno di Leo fu una festa piena di palloncini colorati, e tutti i bambini sorridevano frenetici. Tutti, nessuno esente dal sorriso. Gli regalarono un vestito da super eroe lucido e meraviglioso. Leo era felicissimo. Quella stanza era la stanza più bella della casetta, un bazar ludico e pieno di allegre risate.

“ Io sono buono, io “ diceva Leo indossando il suo vestito da super eroe . “Io sono buono.”

martedì 22 marzo 2011

Tu quoque, leo, fili mi!

Assorto nella contemplazione dei giochi Cesare trotterellava le mani sulla balaustra travertina della tribuna. Ancora le guerre puniche in atto. Ormai Cesare non le tollerava più: Cartago sarebbe stata distrutta, le navi dei Cartaginesi messe a ferro e fuoco. Il massacro goliardico lo tediava: sempre episodi riciclati, nessun gladiatore che si eleggeva tra quella massa di schiavi, le lotte vestivano di anonime reiterazioni e il sangue, agl’occhi dell’imperatore, era sempre dello stesso, identico colore. Rosso mortale. Cesare voleva dipingersi con le sfumature dell’immortalità, voleva modellare l’impero con fattezze eterne.

D’impulso prese la sua decisione.

Lasciò al mortale divertimento i senatori che assistevano ubriachi e striscianti l’epilogo del popolo di Asdrubale, scese di corsa i gradini dell’anfiteatro e piombò nelle gallerie, il vero spettacolo dell’arena.

-Preparate un leone. Per me. Finite le guerre puniche vado in scena io.

Indugio e esitazione furono assorbiti dal volto glorioso di Cesare. Determinato l’imperatore si preparava al duello con l’esistenza effimera. Sistemò la tunica di lino e l’armatura di bronzo, cinturone e gladio. Si fermò dietro l’arcata monumentale disposta sull’asse maggiore dell’area ellittica, aspettando che il sangue fosse almeno parzialmente assorbito dalla sabbia.

Silenzio. Spariscono le differenze di classe, schiavi, patrizi e plebei tutti paritetici, tutti uguali, immutabili e costanti nello sbigottimento all’ingresso di Cesare. Lo smarrimento del pubblico era direttamente proporzionale al godimento dell’imperatore. Quanto bello era prendere per il culo storia e istituzioni. Fece segno di azionare il rudimentale montacarichi e ecco il leone, con il suo dimorfismo sessuale, la criniera del re della natura. L’uomo dell’ impero e la natura del regno ora si fronteggiavano, si studiavano, preparavano le armi all’attacco. Spada contro zanne e artigli; l’intelligenza non era un elemento di distinzione, la tensione all’immortalità nemmeno.

Il leone ruggiva, Cesare pensava e s’avvicinava cercando il contatto, impavido alle urla della fierezza dell’animale. Il godimento dell’uomo affondò il colpo cercando di penetrare la corporatura orgogliosa e possente. La mossa conferì semplicemente un leggera ferita sul fianco del leone, che prese nel mentre Cesare e aaaaaaaarrrrrrrr…

GAME OVER

Luca scagliò il joystick della play sul tappeto. Porca puttana. Era la settima volta che si fermava proprio lì, nel duello con il leone. Decisamente stizzito corse distratto verso il frigorifero , prese il cartone del latte riposto negl’appositi spazi sull’anta e ne bevve un lungo sorso. Maledizione. Luca non riusciva a cambiare la storia nemmeno in un videogioco. Che tristezza di fatti e che tristezza di vita, vivere d’impotenza astorica nel mondo reale e virtuale.Cesare soccombe. Che siano i coltelli degl’idi di marzo o meno, poco importa. Cesare soccombe.

lunedì 21 marzo 2011

È la tua festa

Assorto nella contemplazione dei giochi stava lì, seduto immobile su un tappeto azzurro decorato di nuvolette bianche. Il gioco che fissava più a lungo era una piccola automobile rossa fiammante, con il tettuccio leggermente graffiato. Non avrebbe saputo come giocarci, ma nella sua testa mille fantasie sulle storie riguardanti quell'automobile si rincorrevano, in una fitta trama intricata che solo lui avrebbe potuto comprendere. Prese il modellino e lo ripose ordinatamente insieme agli altri, in una scala discendente di grandezza e colore. Mentre sua mamma lo chiamava da lontano iniziò a dondolarsi lentamente, fino a quando quella giovane e bellissima donna entrò nel suo campo visivo. “Sono arrivati tutti, vieni di sotto, è la tua festa” e lui, alzatosi in piedi, si limitò a ripetere con lo sguardo fisso nel vuoto “è la tua festa”. Raggiunto il piano sottostante dell'abitazione, trovò un gruppo di persone festose. Era il suo compleanno. Si sedette sulla sua poltrona la quale era stata lasciata volutamente libera mentre sua madre gli si avvicinava dicendo: “Hai visto gli zii? Hai visto i tuoi cuginetti? E la nonna? È lì che ti saluta”. Un mucchietto di regali era accatastato sul tavolo da pranzo insieme ad una torta, tutta ricoperta di panna montata, sulla quale troneggiavano dodici candeline accese. Mentre una delle sue zie portava la torta in salotto, iniziò il consueto canto di augurio di buon compleanno. Quel frastuono lo infastidiva, non era abituato ad avere tutte quelle persone intorno. Gli venne accostata la torta al volto e sua madre spense le candeline al posto suo. Mentre tutti i parenti erano impegnati a consumare la torta, suo padre, che fino ad allora era rimasto leggermente in disparte iniziò a scartare i regali e a mostrarglieli. Un trenino, un peluche, un album da colorare, mentre tutti quei doni gli passavano davanti agli occhi suo padre continuava a chiedergli “ti piace?” poi girava lo sguardo verso il mittente e lo ringraziava. Un solo regalo però lo interessò terribilmente. Una macchinina gialla, nuovissima e lucidata, la più grande che avesse. Strappò il regalo dalle mani di suo padre e corse al piano di sopra. Quell'auto si trovava fuori dal suo ordine naturale, doveva trovargli un posto, e dopo aver deciso velocemente la sua collocazione la mise insieme alle altre, ordinata in maniera decrescente per grandezza e per colore. Si sedette di nuovo sul pavimento e prese incessantemente a fissare quella nuova automobile che era entrata a far parte della sua personale collezione. La madre, con una bambina al seguito, entrò nella sua stanza invitandola a sedersi davanti a lui. “Ti ricordi di Lucia?” gli disse. Lucia era una bambina che aveva la sua stessa età, dalle forme lievemente pronunciate da preadolescente. Faceva parte del suo stesso gruppo di sostegno alle famiglie di figli autistici, quindi loro si erano già visti in più di un occasione. Lucia iniziò a fissarlo, distraendolo dal gioco che aveva appena ricevuto. Si fissarono per almeno un ora, senza dire una parola, i loro pensieri erano così ingarbugliati e discontinui che non avrebbero potuto comunicarseli, anche se ne fossero stati in grado. Ad un certo punto la bambina gli tese una mano, e lui iniziò a dondolarsi come faceva tutte le volte che era nervoso. La madre, nascosta dietro la porta stava assistendo a tutta la scena, pregando che il figlio potesse finalmente schiodarsi dal suo immobilismo esistenziale. Dopo circa cinque minuti, la bambina ritrasse la mano e ritornò a guardarlo. Lui a quel punto si calmò, smise di dondolarsi, e tornò assorto nella contemplazione del suo nuovo giocattolo.

La Finale iniziale

Samuele che ormai andava per gli otto anni, con un dentino tentennante in via di caduta, sedeva sudato e assorto nella contemplazione dei giochi.

La palla rimbalzava qua e là come fosse tirata da un filo invisibile che attirava a se la corsa di tutti i bambini intenti disperatamente a raggiungerla. Samuele con i suoi grandi occhi miele osservava le corse impazzate e desiderava intensamente unirsi al ritmo sfrenato.

Le mani piccole, sporche di terra, si tenevano l’una e l’altra contraendosi e rilassandosi di continuo in vista di ciò che il suo attento sguardo osservava. La maglietta di Samuele era rigata da macchie verdi di erba e la sua fronte umida di sudore era sovrastata dal ciuffetto dorato che rendeva ancor più candida la pelle e i lineamenti del viso. Il ginocchio sinistro era gocciolante di sangue sporco di terriccio nero.

Ogni tanto sul bordo inferiore dell’occhio scivolava una lacrima che gli rigava la guancia, però con i denti stretti guardava i compagni sfrecciare da un’area all’altra del campo smeraldo. Samuele si toccava gli occhi, li grattava cercando di trattenersi nel silenzio che però era infranto da rari gemiti di cui si riappropriava immediatamente e ritornava, come se stesse rispettando un ordine impartitogli dall’alto, sull'attenti in una postura estremamente dignitosa ed adulta.

In effetti lo avevano segregato in panchina nonostante la sua agilità in campo fosse l’ingrediente speciale di tutte le partite fatte fino a quel momento dalla sua squadra.

Lui così minuto nel corpo riusciva a creare un rapporto intenso con quella sfera maculata e la riteneva l’oggetto magico della sua fiaba in cui lui era il protagonista e il grande eroe.

Ma questa volta a dispetto delle sue aspettative, nel grande prato verde, non era lui ad averne il controllo magnetico.

Infatti la sorte aveva scelto per lui. Dopo soli dieci minuti dall’inizio dell’incontro, ecco che il fango ha minato l’appoggio del suo piedino distorcendolo in una violenta caduta. Così Samuele si è scontrato con una fine inaspettata della sua storia.

Però a questo punto non si chiedeva più se esisteva un lieto fine ad ogni fiaba, ma si rese conto per la prima volta che la conclusione della sua fiaba l'avrebbe scelta lui, magari più avanti... fregando così la sorte.

Promesse da marinaio

Assorto nella contemplazione dei giochi del vento sulla suerficie dell’acqua capì che avrebbe rotto anche questa ennessima promessa.
Non sarebbe tornato da lei.

E il sole sulla sua pelle.
Era un bugiardo schifoso.
Era un marinaio.
Le due cose sembravano combaciare all’interno del celebre luogo comune.
Aveva promesso alla sua donna che sarebbe tornato da lei.
Le aveva promesso invano. Era evidente.

I vestiti induriti dal sale e il sole sulla sua pelle.
La prima volta che l’aveva incontrata le aveva giurato che era l’unica.
Ridevano sulle leggende che un marinaio avesse un’amante in ogni approdo.
Si sa che la leggenda sfiora la realtà, gioca con la realtà, si confonde con la realtà è una visione della realtà.

All’orizzonte solo mare, i vestiti induriti dal sale e il sole sulla sua pelle.
Le aveva giurato che l’avrebbe sposata. Appena avesse potuto.
Appena il lavoro lo avesse permesso.
Sono passati cinque anni.
Lacrime che si asciugano su cameratismo scurrile.
Avversione al matrimonio sbandierata sottocoperta.

La gola riarsa, all’orizzonte solo mare, i vestiti induriti dal sale e il sole sulla sua pelle.
Spesso le diceva che l’amava.
La sola al mondo per cui avesse mai provato questo amore.
Le frasi d’effetto, la dolcezza e le carezze.
Standardizzazioni, scritte su pagine bianche di un qualche manuale archiviato nel suo cuore di pietra.
E lei forse sciocca, anzi no ingenua. Lo amava quel pezzo di merda.

La zattera che affonda nell’acqua, la gola riarsa, all’orizzonte solo mare, i vestiti induriti dal sale e il sole sulla sua pelle.
Lei lo piangerà. Questo è certo. E’ scritto.
Lo ricorderà sempre.
Il suo amato, strappatogli dall’oceano impetuoso. Dall’acqua senza Dio.
Ma ci volesse un’eternità, riuscirà a dimenticarlo.
Come merita lei. Felice una volta per tutte.
Come merita lui Sepolto in fondo mare, divorato dai pesci.

L’ultimo pensiero sconnesso e il buio, quello definitivo, la zattera che affonda nell’acqua, la gola riarsa, all’orizzonte solo mare, i vestiti induriti dal sale e il sole sulla sua pelle.

lunedì 14 marzo 2011

360 PIAGHE SOTTO I PLANTARI

469 euro spesi per questa corda in fibra elastica da Sportler e nonostante questo, i nodi mi si conficcano sempre più violentemente nelle piante dei piedi. Accidenti!

Ma non devo focalizzare la mente su questi pensieri negativi, ora devo concentrarmi sul peso del mio bastone. L’impugnatura mi sembra solida, gli estremi ondulano e si bilanciano con armonia da sinistra verso destra trovando il proprio baricentro nelle mie anche. La colonna vertebrale è ritta sull’osso sacro? Si! Lo sento, è ben fisso anch’esso. La mente sta al di sopra del corpo e ne ho il controllo. La massa del mio corpo finalmente non getta più ombra sul terreno, intorno a me c’è solo il vuoto, il terreno è a 360 piani più in basso, 360 piani più in basso… e l’altezza… non mi fa paura, L’altezza non fa paura! Non mi ha MAI fatto paura. Un passo alla volta e potrei camminare per distanze infinite, basta solo annullare i bisogni, infatti ho ridotto il cibo mensile e sto raggiungendo l’auto sostentamento naturale come le piante. L’energia del corpo si concentra nei punti muscolari e divento tutto un nervo teso come la corda che mi sostiene con lo sguardo fisso sull’altra estremità. QUESTA è CONCENTRAZIONE! Sospendere se stesso su se stesso. La mente è al di sopra del corpo e il mio corpo segue ciò che la mia mente medita. Camminare nel vuoto, su una corda sospesa tra i due palazzi più alti del globo e… riuscirci nonostante questo dolore lancinante continui a segarmi i piedi… No, no, no, bisogna concentrarsi sull’obbiettivo, tendere verso l’estremità opposta siamo fatti per superare il vuoto.

Rivivere la sensazione del carma Carmelano che il maestro funambolo mi ha tramandato nell’ultimo seminario funambolico sul monte Korkukwi, allora diceva… ah si:

“Come tronchi di alberi ospitano feline zampe di volpi korkukwiane così le liane ospitano i plantari flessibili degli umani piedi.”

I piedi sono il centro degli impulsi nervosi di tutto il corpo e permettono l’equilibrio dinamico di ogni singolo passo. Ma lo vedo… l’arrivo è vicino, l’estremità opposta è a pochi metri e finalmente mi libererò da questo dolore, ma ancora come diceva il maestro:

“Dalla notte dei tempi è risaputo che i piedi anche se nel punto più lontano fan si che la mente stia dov’è.”

Anche le antiche virtù vedono i piedi in ruolo fondamentale, li chiamano il “secondo cuore”, infatti ogni volta che si appoggia il peso sul piede, le vene e i capillari vengono compressi e il sangue viene spinto dalla periferia verso il centro. Ne viene così assicurata la circolazione in tutto il corpo... incredibile... e in questo momento sono strozzato tra le fibre elastiche della corda… maaa… la lunghezza del mio bastone si erge da sinistra verso destra e come ali di uccello e coda di ghepardo slancia i miei passi in dirittura d’arrivo… Eccomi estremo altro! Eccomi grattacielo che ti ergi alto sulla città nebbiosa! L’umidità delle nuvole mi bagna i peli del mento, il sudore della fronte è asciugato dal fresco vento di altitudini montane, ma mi trovo a guardare finalmente in giù e vedo luci del tardo meriggio illuminare la trafficata metropoli e io quassù a meditar sui miei passi.

Zolder

Un passo alla volta avrebbe conquistato tutto il mondo. Ne era certo. E fidatavi di me, aveva ragione di crederlo. Ora aveva tutto. Aveva la forza necessaria, la conoscenza ed il potere. Aveva un esercito imbattibile pronto ad eseguire ogni suo ordine. Ma soprattutto aveva l’arma suprema. La spada luminosa. La stringeva tra le sue mani. Bella, luccicante invincibile. Avrebbe potuto spazzare via una città con un solo fendente. Poteva sentirla, in simbiosi con la sua anima. Sentiva il potere! Nulla lo poteva fermare. “Sono il Zolder il più potente cavaliere della terra e con l’aiuto del mio fedelissimo Drago alato sconfiggerò il male e diverrò Re!”

Quasi in risposta a ciò e contagiato dal furore il drago alato abbaiò.
Solo allora Zolder capì che il suo compagno di battaglia aveva in realtà sentito i passi di qualcuno che si avvicinava.

“Forza e pronto in tavola! Hey ma che bella spada che ti sei costruito!” .

Il piccolo Adam in arte immaginativa Zolder, saltò giù dal letto e si dirise verso al sala da pranzo al piano inferiore lasciando cadere il suo nuovo giocattolo autocostruito ottenuto dall’unione di due pezzi di legno fissati da qualche centimetro di spago.

Il drago alato zompettò di corsa dietro il suo piccolo padrone consapevole che di sotto lo stava aspettando una ciotola colma dei suoi croccantini preferiti.

PICCOLO LEPRAIOLO ITALIANO

Un passo alla volta Serena entrò nel capannone. Seguita da Marco. Appena varcarono la soglia l’abbaiare dei cani s’intensificò fortemente. Il responsabile del canile gli faceva strada e gli diceva di non preoccuparsi, di camminare più decisi.

C’era di tutto: rumore, tanfo, confusione e cani. Di tutti i tipi. Vecchi decrepiti, monchi e ciechi. E un cucciolo bellissimo. Lo presero.

Sarebbe stato il loro regalo di matrimonio. Un graziosissimo bracchetto che proveniva da un allevamento di un cacciatore malvagio. L’unico cane sano di una cucciolata che non aveva retto le difficili condizioni del padrone originale.

All’inizio non fu facile per la giovane coppia conquistare la fiducia di Brioche (lo chiamarono così per il suo soffice pelo marroncino). Aveva paura di tutto e di tutti. Non riusciva a fidarsi di cotanta gentilezza e di tanto affetto, e ogni comunissimo pasto quotidiano era per lui insolito così, senza i pestaggi del cacciatore, la lotta per il cibo con i suoi fratelli e altri maltrattamenti assortiti.

Ci volle un anno e mezzo.

Ora Serena e Marco erano una coppia sposata, e Brioche faceva finalmente parte della famiglia.

Cane diligente ed educato mostrava una spiccata intelligenza in ogni situazione. A Serena sembrava umano, a volte reagiva ai loro comportamenti impliciti come se fosse una persona a cui era stata spiegata chiaramente la situazione. Non era mai pesante. Sapeva dosare perfettamente la voglia di coccole e il momento dei giochi. Quando qualcosa non andava era diventato lui colui che portava l’equilibrio nella coppia. I necessari piccoli litigi e le incomprensione venivano spesso arginate dalla presenza di questo magico animale. Marco invece lo adorava senza troppe domande. Gli ricordava il cane che possedette da giovane prendendosi da solo tutta la responsabilità, essendo i suoi genitori assolutamente contrari al tenere un animale del genere.

Appena Serena ebbe i primi dubbi su una probabile maternità anche Brioche se ne accorse. Se ne accorse ancora prima che Serena lo comunicasse a Marco, ancora prima del test di gravidanza. Diciamo pure alle prime nausee sospette.

Questa volta però Brioche era un po’ strano. Man mano che la gioia della coppia aumentava Brioche diventava sempre più serio. Non era tornato diffidente come al principio, semplicemente pareva aver capito nuovamente che qualcosa stava per accadere. Stava per accadere qualcosa di incredibile. Una nuova vita, un nuovo animale, per la precisione un essere umano maschio, stava per arrivare.

Paolo. Era arrivato Paolo. Sano come un pesce. Bello come lo sono i neonati, dunque non esteticamente belli ma meravigliosi.

Era inevitabile che le attenzioni della coppia vertessero principalmente al piccolo marmocchio, e Marco e Serena lo sapevano. Da quel momento la loro vita sarebbe stata in funzione di un’altra piccola creatura.

Non è detto però che anche un cane potesse capire questo.

Brioche cominciò ad essere capriccioso, fastidioso ed insolente. Disubbidiva e faceva di tutto per avere ogni piccola attenzione che, quando arrivava, era palesemente uno scarto dell’abbondante collezione di affetti del piccolo Paolino.

La coppia aveva capito la situazione. Ma che cosa poteva fare? Era già un enorme sacrificio seguire quella piccola anima di loro figlio. Non potevano dare eguale attenzione al loro cane. Si impegnavano tuttavia a fare il massimo anche per lui. Numerose passeggiate, carezze e lauti pranzetti.

Un giorno Serena stava per scendere al piano terra. Aveva tra le braccia Paolino, e Brioche la seguiva. Appena iniziò le scale Brioche le saltò addosso, facendola cadere per tutta la rampa. Rimase miracolosamente illesa, sia lei che il bambino.

Alla coppia non rimase che abbattere il cane.

Silenziosamente

Un passo alla volta si avvicinò al cornicione, una folata di vento le scompigliò i capelli. Sporse leggermente la testa per verificare l'altezza alla quale fosse arrivata. Lasciò cadere il telefonino estratto dalla tasca destra che dopo alcuni secondi si sfracellò sulla strada sottostante. Aveva paura, aveva molta paura che la caduta non fosse sufficiente per farla finita e che un suo piccolo errore di valutazione le costasse la riuscita della sua scelta. Mentre si passava una mano fra i capelli con l'altra si teneva il vestito stretto in petto, una lacrima le rigò una guancia. Scoppiò in un pianto sia liberatorio che di sconfitta verso la vita. Non credeva alle divinità, né alla reincarnazione o al karma, quindi sapeva di essere di fronte ad un atto definitivo.
Mentre guardava l'orizzonte, con il rimmel sbavato, pensava a ciò che avrebbe lasciato. La città sotto i suoi piedi e i suoi fastidiosi rumori non sembravano notare quell'attimo che la separava dalla fine, eterno nella sua fugacità. Contrasse leggermente il viso.

Si era svegliata presto quella mattina, e come ogni mattina aveva preparato il caffè. Sbadigliando si era lavata e vestita. Aveva bevuto il caffè ormai freddo guardandosi a lungo allo specchio, si era truccata leggermente, aveva preso alcuni documenti che la sera prima aveva riposto su un tavolo ed era uscita di casa. Il tragitto che la separava dall'ufficio non era poi lungo, ma prese l'auto per arrivarci. Durante le attese ai semafori continuava a cercare la sua immagine riflessa nello specchietto retrovisore, come ad esigere un momento di intimità ed introspezione. Silenziosamente entrò in ufficio, timbrò il cartellino e si sedette alla sua scrivania. Nell'arco di quella giornata molti colleghi erano passati davanti alla sua porta, voltando velocemente lo sguardo come per paura che lei potesse vederli. Quel giorno non ci fece caso, infatti notò dopo alcune ore che aveva passato quasi tutta la mattinata a guardarsi riflessa nel monitor spento del suo computer. Utilizzò il tempo rimanente per riorganizzare l'archivio poi prese il suo soprabito e silenziosamente come era entrata in ufficio ne uscì. La velocità e le possibilità di rapporti personali nel nuovo millennio lasciavano spazio ad un'eterna solitudine.

Mentre pensò a tutto questo, era passato un solo momento su quel cornicione. Non aveva lasciato una lettera, nessuno la avrebbe letta. Non voleva dar fastidio a nessuno, forse sperava che nessuno se ne sarebbe accorto. Il vento le scompigliò di nuovo i capelli, lasciando intravedere la bruciatura che aveva sulla parte sinistra del volto. Sbilanciò il suo peso in avanti e si lasciò cadere. Silenziosamente come era entrata nella vita ne uscì.

Padania Express. Storia di vita quotidiana.

-Un passo alla volta ci arriverò.

Nonostante l’azzeramento volitivo all’impegno di tutti i giorni, il pensiero di Laura all’atto dello spegnimento della suoneria del cellulare era questo:

- un passo alla volta ci arriverò.

I piedi nudi, sottratti dal morbido calore dei piumoni invernali, cercavano rifugio nelle babbuccie color rosa, decisamente ridicole per una trentenne adulta e vaccinata, ma simpatiche e soggette a timide o fragorose risate di amici e amiche. A breve il bilocale moderno e solo di Rovato sarebbe stato bagnato dai vapori dell’acqua calda di una doccia e dal profumo del caffè escogitato dalla moka. Laura avrebbe avuto un ora per la ricostruzione giornaliera; doccia e vestiti, fondotinta, mascara e cipria. Rossetto. Scarpe color viola si gettatavano di corsa giù dal vano scale; zip-zip della Smart anch’essa viola. Tre minuti è sarebbe arrivata in stazione, da dove avrebbe preso il treno per Brescia. Lunedì martedì mercoledì giovedì venerdì ore 7.42 lo strazio di Trenitalia l’avrebbe portata allo strazio quotidiano dell’ assistenza al cliente.

-Pronto buongiorno servizio di assistenza al cliente, parla Laura, in che posso aiutarla?

Non badava più a queste parole, a questa cantilena ipocrita e fintamente danzante. C’era stato un periodo dove Laura aveva affrontato questo incarico anche con attenzione alla cura e all’interpersonalità: nell’epoca post assunzione, illusa della brevità della faccenda, si era dimostrata perfino entusiasta ed ironica al rito meccanico. Poi? Che vuoi? Un università singhiozzante divenne assente di respiro e la golosità d’indipendenza la dipingono ormai da quattro anni operatrice a quel grigio call center bresciano. Ma l’idea è assente dal vizio e della meticolosità, sfugge al meccanicismo impietoso. E così, anche quella volta, a scanso di sacrifici e levatacce ce l’avrebbe fatta.

Parcheggiò l’auto, e in sgambettii furbi e bramanti di sguardi, si diresse al binario 2 . Perfetto. Pochi minuti e il treno giungente da Milano l’avrebbe accolta, non con troppi sorrisi.

-Oi Piero!

-Oi Laura!

-Come sati?

-Bene dai. La solita. Tu invece?

-Abbastanza bene dai.

Piero faceva la guardia giurata ad uno dei centri commerciali che proliferavano nell’iterland padano. Capelli cortissimi, timido di parola e d’aspetto. Se non aveva il turno notturno era facile che incontrasse Laura sulla banchina del binario, e nell’attesa oltre la linea gialla e nel tragitto di quattro fermate avrebbe fatto due chiacchere assonnate con la Laura.

Il regionale sporco e rumoroso si fermò stranamente puntuale. I due preminenti al lavoro salirono tra i primi del gruppetto di facce sonnacchiose e ebbero la fortuna di trovare due posti liberi nello stesso scomparto. Si sedettero; Laura e poi Piero.

-Non vedo l’ora che sia stasera. Finalmente venerdì. – Disse Laura.

-Già. Tu che pensavi di fare stasera?- rispose e domandò Piero.

-Boh. Sinceramente non lo so. Boh. Avevo sentito Giada e mi aveva chiesto di fare aperitivo. Poi non so. Forse teca o latino americano. Non so.

-Bah. Anch’io per stasera pochissime idee.

La blanda conversazione s’interruppe per un istante. Solo ora Laura notò che in fronte a lei era seduto un ragazzo estremamente bello, dai lineamenti pulitissimi, velati da una barba lasciata alle settimane. I capelli erano lunghi e ricci, di un moro raro ed intenso. Pensò subito al viaggiatore straniero, che viene in Italia a ripercorre i passi della cultura italiana. Ma sulla copertina del libro aperto chiari erano i caratteri e le scritte in italiano. Doveva essere per forza italiano.

-Ieri sono andato a fare un giro al Francia Corta. Giusto per vedere di incontrare un paio di jeans..- tuonò Piero nel tentativo di riprendere il risveglio di comunicazione sociale.

-Ahn. – Distratta riprese Laura. – Hai trovato qualcosa?-

-Niente di che. Prezzi decisamente troppo alti. Ma insomma..almeno mi sono fatto un giro. Sai la settimana scorsa sono andato fino in Svizzera. Devi andare. Li trovi delle occasioni pazzesche. Un oretta e mezza di macchina e ci sei..

-Anh. – svagata sibilò Laura.- Dovrò andare a farci un giro sicuramente.

Il treno si fermò. Era la stazione di Piero; Laura avrebbe proseguito per altri venti minuti fino a Brescia centrale. Piero s’alzò.

-Ciao Laura. Allora se mai ci si sente per questa sera. Buona giornata.

-Ok Piero. Dai..Buona giornata a te.

Finita la compagnia di Piero, Laura tirò fuori l mp3, pose le cuffie e dedicò lo sguardo disattento al timido sole mattutino.

Il finestrino sudicio e rigato riproduceva quasi perfettamente l’immagine del ragazzo che sostava davanti a lei. Gambe accavallate, pantaloni, maglione e occhiali di certo non all’ultima moda e piglio intenso su quel libro. Il paesaggio istoriato sull’apparato visivo di Laura si mescolava e si faceva tutt’ uno con l’immagine riflessa del coetaneo. I pensieri piatti e affermati sull’obbiettivo che da mesi si prefissava, cominciarono a seguire il susseguirsi dei pali elettrici. Zum.. Zum.. Zum. Zum zum zum. Sempre più veloci. Sempre più pericolosi. No. Non poteva permettersi il dubbio. Non ora. Era così vicino. Ma perché? Da dove veniva? Cosa faceva? Dove andava? Perché così maledettamente simile a me e allo stesso tempo perfettamente diverso da me? Ovviamente le era già capitato di trovarsi di fronte a delle persone di pelle e colori di fare differenti. Ma lui era lei. Una lei discordante, dissimile. Lui era felice. O, almeno questo le sembrava.

I pensieri furono improvvisamente interrotti: ci fu una leggera e casuale sovrapposizione di piedi sul piano rialzato che corre in basso al lato della parete finestrata del treno e a seguire un breve dialogo di cortesia. Si con lui. Proprio lui.

-Scusami.- disse lui sorridente.

-No.. .No ..figurati. – timidamente accennò Laura.

Poi.

Poi gl’assilli presero una calmata, una tirata di briglie. Si rimise la giacca. Il treno fermò a Brescia.

-Ciao.

-Ciao. –rispose lui.

Laura scese i pendenti scalini della carrozza e un passo alla volta cominciò a dirigersi sul luogo del lavoro.

lunedì 7 marzo 2011

colloquio politico-sociale


Il superdetersivo di Yuan Liping è pronto ad entrare nella vostra casa e sconvolgere le vostre abitudini di fare il bucato: meno quantità, costo basso, e qualità insuperabile! La Cina sembra essere impazzita dopo l'entrata in commercio di questo nuovo prodotto! Vediamo il servizio con Simona Menegalli..”

Alberto si alza di scatto dalla poltrona e lancia il telecomando sullo schermo della televisone e impreca: “ Non è possibile!! non è possibile!! accidenti! come è possibile che la metà dei servizi della televisione di stato siano su detersivi, oche, guinzagli per cani, creme antirughe e reality!? E' uno schifo.. uno schifo!”

Claudia spruzza dal ridere: “ Ma sei masochista eh?! Ti infervori sempre e continui a guardare i tg! Lascia perdere e rilassati! Dai .. mettiamo su il film..”

Alberto inizia a camminare avanti e indietro per il salone, scuotendo forte la testa facendo sobbalzare i suoi ricci castani.. “ cambiare, bisogna cambiare.. ora, subito.. ma in che modo? In che modo?” le domande procedono allo stesso ritmo dei passi.. “ non si può più aspettare, è un indecenza.. un indecenza..”

Claudia si mette a fissarlo con curiosità, sorseggiando a tratti una tazza di thè bollente. “ Beh Alby, che vuoi fare? Che si può fare? Sei abbastanza intelligente da sapere che il consorzio umano è diretto da soli e pochi burattinai golosi del potere, un elite politica sedentaria che non mette gli interessi collettivi dinnanzi ai propri, che brulica di parole insignificanti e vuote.. che prende in giro, che si copre di piume rigogliose.. tanto più belle tanto più è grande lo schifo da coprire..” Claudia soffia sul the bollente, alzando di tanto in tanto, gli occhi sul viso contratto dell'amico.

Alberto rincalza la dose: “ Ciò che è sbagliato è il concetto di rappresentanza.... si! .. l'incolmabile solco tra il rappresentato e il rappresentante, o meglio l'inversione che è avvenuta dei ruoli : il rappresentante detta le regole del gioco del rappresentato, quando per giustizia di cose, dovrebbe essere tutto l'opposto.. il rappresentante dovrebbe essere solo un delegato, un porta voce del rappresentato.. accidenti!

E' mai possibile poter parlare di correttezza? Di equità? Di giustizia??” Alberto accellera i toni .. “ Per cosa studiamo Claudia, per cosa? Cresciamo con l'immagine del buono e dell'equo.. per poi accendere la televisione e sapere che la casalinga, il pastore, l'adolescente, i nostri nonni, l'impiegato apprendono le potenzialità di uno schifo di detersivo e non sanno nulla sulle guerre, sugli scambi commerciali, sui giochi sporchi delle multinazionali, sulla corruzione, clientelismo, abusi, minacce, repressioni.. Claudia ..la gente dorme! Accidenti.. la gente sta dormendo!!”

Alby che facciamo noi?” Claudia riparte..

Su su .. dimmi .. qual'è il nostro contributo?..Con toni ampollosi critichiamo e critichiamo.. perchè non abbiamo il coraggio di inserirci davvero nel sistema, studiarne le radici, scavarci dentro fino a sentire l'appartenenza per poi.. solo dopo una totale conoscenza, abbatterlo? Certo certo.. tu potrai opporre che è nulla l'azione umana, per di più se onesta e giusta, dinnanzi a un sistema hobbesiano di bellum omnium contra omnes, però cosi finiamo per legittimare un astensionismo.. non ti pare?” .

Alberto sospira, appoggiando i gomiti alla finestra.

La primavera sta spingendo, si sentono dei nuovi suoni mescolati a profumi freschi.. delle carezze piacevoli.

Alberto distende l'epidermide della fronte, infarina il suo pensiero, e ritorna alla discussione con Claudia. “ Ciò che dici è vero.. sento uno spacco lacerante del mio pensiero: da una parte gonfio il mio senso civico di ideali...di lotta all' ingiustizia, di lotta all' equiparazione dell' uomo alla merce. Ribollo nel vedere l'ignoranza come mezzo di affermazione e nel vedere l'ipocrisia di pagliacci vestiti da salvatori di anime. Credo nell' incompatibilità tra calcoli economici e il rispetto e la tutela dei diritti umani e credo fermamente nella dignità della persona in tutte le sue manifestazioni. Ho il desiderio ardente di concretizzare il mio sentire, di offrirlo con la mia quotidianità alla società, di spalmare la mia testa ed il mio corpo di una causa...

Dall'altro lato invece sposo l'egoismo.. e chissà forse la realtà. E ritraggo le mie energie verso l'interno. Sarà pigrizia o sarà rinuncia.. ma perchè sprecare energie e fiato se già sappiamo della prevalenza del male sul bene? Del ricco sul povero? Della menzogna sulla verità?”

Alberto si rivolge a Claudia sperando che lei potesse chiarirgli quale delle sue due anime contrapposte e lottatrice avrà la vittoria. Gli occhi di lui si appoggiano sugli occhi dell' amica, invocando risposte, decisioni, e chissà forse una nuova forma di determinazione.

Claudia si alza dal divano e sgranchisce le mebra, avverte un fastidioso formicolio sul piede sinistro. Dopo pochi minuti di silenzio, quasi per prolungare l'attesa dell'amico, Claudia lo fissa con occhi brillanti: “ Alby ciò che da soli si può fare è lanciare il seme, ma devi assicurati della fertilità del terreno e sopratutto devi assicurarti di una raccolta collettiva. Io ci sono.

Prendi carta e penna! Voglio depennare con una linea nera i sogni realizzati.. su su spicciati!”.

Alberto si precipita ad eseguire l'ordine dell'amica e seguono ore su ore di deliri eccitati. Il foglio si colora di nobili speranze e di progetti abbracciati all'utopia. Intanto fuori la primavera continua a spingere, quasi potesse anch'essa aiutare la corsa dei due amici al cambiamento. Un cambiamento cosi ruvido per la società lasciata all'esterno delle pareti del salone, ma cosi morbido invece per le pupille fiammeggianti e brulicanti dei due amici.

Carta & Penna

“Superdetersivo di Yuan Liping santo mondo, dimmi cosa devo scrivere per reclamizzarti!”

Dan 45 anni è al punto più basso della sua carriera di scrittore polivalente.

Qualche passo indietro: serve introdurre l’ambiente, l’epoca e ovviamente il personaggio.

Dan Milano era uno scrittore. Non proprio uno scrittore classico, quello da libro per intenderci. Scriveva per un giornale, ma non era nemmeno un giornalista, quello da cronaca rosa, nera o di qualsivoglia colore. Era uno scrittore polivalente da giornale: scriveva racconti, scriveva saggi brevi, vezzi, opinioni. Un giorno ti poteva parlare di aria, della filosofia che domina una mandria di cariboù o di tendenze del primo semestre del secondo decennio se consideriamo le cicliche mode della numerazione romana applicata all’etimologia della parola “muffin”. Trovava sempre un modo: vuoi l’ironia, vuoi lo stile, la leggerezza, il buon gusto…impareggiabile sempre. E tutto questo senza le minime competenze tecnico-scientifiche, storiche-filosofiche e blablabla, blablabla (avrebbe detto lui ridendo).

Questa sua dote lo aveva portato ad approdare alla più grande testata Newyorkese del tempo. E considerato che erano gli anni ’60, la più grande d’America e del mondo.

Il problema, che ci riporta all’incipit di questo racconto, ha origine 4 anni, 5 mesi, e 13 giorni dopo l’approdo di Dan alla rinomata testata: dopo questo florido periodo di quotidiani successi letterari l’operoso scrittore polivalente da giornale si blocca. Non c’è verso di riaccenderlo, non bastano dottori, analisti, psicologi, psichiatri, psicoterapeuti, iniezioni, supposte, pillole, mare, montagna, campagna.
A nulla si rivelò utile nemmeno la tipica prassi sbloccacervelli collegata al tipico proverbio “Se vuoi la conclusione cambia redazione”: Dan passò dall’opinione alla cronaca nera, dalla nera alla rosa, dalla rosa agli spettacoli, dagli spettacoli allo sport nazionale, dallo sport nazionale allo sport locale.
Ed ora dallo sport locale alla pubblicità. Ma niente da fare. Non scrive nulla nemmeno sul superdetersivo (che a detta del suo capo si vende da solo).

La cosa più assurda era che non riusciva nemmeno a scrivere cose quotidiane…non riusciva a scrivere una lettera a sua madre e nemmeno un reclamo per la radio acquistata di recente ma difettosa.

E così i mesi passano. E Dan non scrive. E non lavora quindi. E non guadagna, di conseguenza. Lascia il suo stupendo appartamento su Central Park, per un buco osceno, addio bottiglie di whisky da 50 dollari e addio prostitute di classe ( non giudicatelo però, ricordiamoci che sono gli anni 60!).

Una cosa strana avviene la notte del 139 giorno senza scrittura. Si alza dal letto, l’orologio sul muro segna mezzanotte e tre minuti. Ha bisogno di un goccio d’acqua. Accende la luce fa per uscire dal letto e…
E che ci vogliate credere o meno, davanti al suo giciglio, a fissarlo, chissà da quanto c’è un vecchio in bermuda con tema floreale, capello bianco con riga, aviator rayban neri, ciabattine di paglia ai piedi e nient’altro.
“E tu chi cazzo sei?”
“sono la tua ispirazione, caro mio! Un sigaro?”
“scusa? Ma vaffanculo! Tu e i tuoi sigari!”
“Ma sono cubani, ottimi!”
“Al diavolo dammene uno”
“Ecco tieni”
“hai da accendere”
“si un attimo…ecco”
“davvero ottimo…”
“Dan, sono felice che ti piaccia. E sono felice anche che non ti sia spaventato…sai non è da tutti svegliarsi nella notte e trovarsi faccia a faccia con la personificazione della propria ispirazione.”
La replica di Dan ”Tranquillo. Sei un vecchio in mutande, non faresti paura al più pusillamine cagasotto d’America, in più mi hai offerto un sigaro per mettermi calmo e tranquillo e magari fottermi con questa storiella della mia ispirazione. Ma per piacere. Ci hai rimesso un buon sigaro. Vuoi derubarmi? Accomodati pure. Non c’è nulla in questa casa che valga un centesimo. Io torno al mio sigaro e poi me ne tornerò a dormire!.”
“Proprio non mi credi Dan? Suvvia fai un piccolo sforzo di immaginazione…”
“Allora.Se tu fossi la mia ispirazione dovresti conoscermi molto bene. E se mi conoscessi bene sapresti anche che per colpa della tua diciamo “assenza” se mi passi il termine, mi hai diciamo lasciato in brache di tela. Come minimo ti dovrei ammazzare.”
“Sono stato in ferie Dan! Anche io mi devo riposare cosa credi? Tu sant’iddio proprio tutti i cazzo di giorni dovevi lavorare? Almeno un po’ di gratitudine! Il pezzo sulla cagnetta che scopre il petrolio? La disamina sulla lamina di lama? O il pezzo sulla crisi dei risi? Devo andare avanti? Merito del sottoscritto, sottospecie di scrittore da tabloid! Senza di me non puoi nemmeno lasciare una patetica lettera d’addio post suicidio! Comunque ora sono tornato. Dove eravamo rimasti?”
Dan non ci voleva credere. Ovvero, ci credeva ora quello era davvero la sua ispirazione, sapeva troppo!.
”Brutto figlio di puttana! Ora ti ammazzo bastardo traditore”. Dan salta fuori dal letto, solo che nella foga dello zompo olimpico un piede gli rimane annodato tra le lenzuola facendolo incespicare al suolo faccia al pavimento. Che dolore signori. Non si è spaccato la mascella solo perché ha origini italiane.
Poco importa, noncurante del dolore si alza in piedi feroce come un lupo feroce e..
E… E’ giorno. Nessun vecchio vacanziero di Honolulu è più li. “Santo Cazzo ho sognato” e ancora ridendo dolorante “Porca puttana troia, era un sogno!”
“un cazzo di sogno!”

Un momento di silenzio. Gli occhi si spalancano. Le pupille si dilatano i pugni si stringono e si alzano al cielo.

“Carta e penna! Mi servono immediatamente carta e penna!”

Escamotage

“Superdetersivo di Yuan Liping”, quello sì che era un incipit difficile. Da quasi una settimana si arrovellava pensando a come poter scrivere una storia che non fosse banale. A volte ci aveva pensato sul treno che prendeva per andare all'università, a volte sull'automobile che usava per i suoi spostamenti, ma niente. Mercoledì mattina però, verso le 6, pensò di aver trovato l'ispirazione. Prese velocemente il suo blocco per gli appunti come per paura che l'idea potesse sfuggirgli dalla mente. Inizialmente fece fatica a trovare una penna funzionante, faceva molto freddo quella mattina. Iniziò a scrivere una storia ambientata nel futuro nella quale Yuan Liping e dodici fedeli liberavano il popolo cinese immolandosi per la libertà. Rileggendola più volte però si convinse che oltre a non piacergli era pure un po' blasfema. Richiudendo il quaderno si rese conto di essere ancora a zero, e che ancora nessuna nuova idea gli frullava per la testa. Nei giorni successivi non ebbe molto tempo di pensarci, ma venerdì scaricò la posta elettronica nel suo telefono e trovò un avviso che gli ricordava l'appuntamento di domenica. Quella mail lo rimetteva davanti al suo problema, come poteva sviluppare un'idea che al momento nemmeno aveva? Cominciò a pensare a parole che avrebbe voluto utilizzare all'interno del suo racconto, senza però conoscerne la trama. Che stile voleva usare? La commedia o la tragedia? Il racconto con sfondo sociale o leggera spensieratezza? Domenica mattina mentre andava a recuperare la sua macchina dal parcheggio, con un fumetto sotto il braccio, ebbe l'idea. Avrebbe potuto usare un trucco. Di ritorno a casa si sedette sul divano, con il portatile sulle gambe e trovò il modo di mettere in atto il suo escamotage. Iniziò a scrivere: “Superdetersivo di Yuan Liping”, quello sì che era un incipit difficile.