L'incipit della settimana

ELABORATO TESTUALE DI TOT PAROLE: "L'antico vaso andava salvato"
STRINGA AUDIOVISUALE DIGITALE PROVENIENTE DA QUALCHE SERVER: "Youtube"
RETTANGOL CARTPLASTIC CONN'IMMAGIN STAMPAT QUAS BEN:"Perdita di tempo"
Ctrl+c, Ctrl+v, STAMP-E-PORT-LE-FOGL:"Glutammati sto sodio"

domenica 31 luglio 2011

giusto un po' in ritardo....

UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA

5.44: “Caterina!!!!”
Sbam!!…occhi spalancati, battito accelerato, momento di ansia totale.
“Cosa c'è????”
“Niente…sbaglio o ti dovevi alzare?”
driiiiiiin
“Si..esatto, è per questo che mi è appena suonata la sveglia” Come sempre sei riuscito ad arrivare giusto un minuto prima, e grazie per il dolce risveglio.

Inizia la giornata, e sembra che il livello di follia sia nella solita norma.
Ti alzi e sistematicamente inciampi nelle cose che la sera prima avevi deciso di abbandonare accanto al letto. Arrivi in cucina e la comunicazione interpersonale è l'ultima cosa che vorresti, ma giustamente è l'ora delle domande e con una distanza di 5 centimetri dalla tazza ustionante di caffè presenti il piano settimanale delle tue attività future, sapendo che tra meno di 24 ore ti verrà chiesto nuovamente da capo.
Scendi in strada e ovviamente piove! Ti volti per correre a prendere l'ombrello e ti trovi davanti ad una scelta: raggiungere la fermata e prendere l'autobus che ti minaccia all'orizzonte o salire a prendere l'ombrello e arrivare in stazione asciutto ma in ritardo. Ovviamente è meglio la prima, e poi pensi: giornata bagnata giornata fortunata, no?
Corri.
Arrivata alla fermata a prendere l'autobus, come sempre speri che l'autista rimanga intenerito dal tuo sguardo languido e non decida di lasciarti alla fermata perché c'è troppa gente. L'immagine è grottesca, una scatola di di pomodori secchi sott'olio sembra essere più comoda e meno unta e grinzosa. Vorresti poter evitare tutte le sensazioni che purtroppo conosci perfettamente, ma non puoi, così ti inserisci magicamente tra una cartella spigolosa e tre o quattro maglioncini acrilici, odiosamente umidicci e capaci di trattenere nel tempo tanta acqua quanto sudore gelosamente collezionato nelle ultime due settimane.
Conato.
Alzi lo sguardo e vedi una scritta scorrere sopra le teste bagnate: AMT - Liberi di muoversi! Pensi: molto probabilmente il signor AMT ha l'autista personale.
All'ospedale scende un po' di gente, finalmente! Per un attimo ti sembra di respirare ma un secondo dopo sei catapultato avanti da una simpatica vecchietta che si lamenta di non trovare mai posto e per punirti della tua diligenza scolastica pensa bene di infilarti la punta dell'ombrello giusto giusto tra la scarpa e la caviglia. Piede ferito, sporco e bagnato per tutto il giorno.
Grazie.
Ancora una volta ti chiedi perché con tutta la mattina libera lei e le sue amiche si ostinino a prendere l'autobus delle sei e mezza… ma lo scoprirai la prima volta che per qualche malaugurato motivo dovrai andare a fare i prelievi al pronto soccorso.
Fermata della stazione, Buongiorno da Trenitalia! E si potrebbe nn aggiungere altro...
E' lunedì, hai giusto 5euro nel portafoglio perchè il fine settimana ti ha prosciugato le finanze Non fai neppure in tempo a deridere quelli in coda agli sportelli e alle macchinette che non possono andare dal tabaccaio che scopri che senza alcun ragionevole motivo il biglietto è salito a 5 euro e 10.
Hai due possibilità: ho chiedi 10 centesimi a quello dietro passando per la tossica della stazione o ti infili tra quelli in coda alle macchinette e paghi con la tessera. Scegli la seconda, ma non prima di essere bloccato per una richiesta di aiuto che rifiutandoti di dare ti regala l'offerta del giorno: 3x2 al banco maledizioni per te e tutti i tuoi antenati.
Sali sul treno, amata scelta climatica tra foresta tropicale (animali mai visti annessi) e furgone Bofrost. Dovendo andare a colloquio con il Prof. della tesi e volendo evitare l'effetto pezza scegli la seconda, e ti metti addosso metà valigia vergognandoti come una ladra nel mostrare il disordine del suo contenuto a quello davanti.
Tempo due fermate e sei incastrato nuovamente tra zaini, ombrelli, magliette umide e accenti insopportabili e male assortiti. Alzi nuovamente lo sguardo ed ecco la seconda scritta scorrevole più che opinabile: Treno ad alta frequentazione. Qui almeno puoi immaginare che il signor Trenitalia sia salito sul suo mezzo! Peccato che l'aggiunta di un vagone sarebbe stata più funzionale dell'ammissione di colpa…
Arrivi a Padova, piove ancora, e tu sei sempre senza ombrello.
Corri in facoltà e pronto a risolvere tutti i tuoi problemi ti ritrovi davanti ad un simpatico bigliettino di carta: “Il professore oggi non riceve, ogni colloquio è spostato alla prossima settimana”.
Il prurito alle mani inizia ad essere visibile anche dall'esterno.
Esci dall'università sperando almeno di non incontrare nessuno, ma sistematicamente becchi sulle scale l'unica persona a cui avevi promesso di portare qualcosa, e ti sembra d vedere il momento in cui avevi posizionato il suo libro nel mobile all'ingresso. “Così me lo ricordo di sicuro prima di uscire!” Avevi detto così giusto?? Bene, non si finisce mai di conoscersi…
Sconsolata provi a chiamare qualche amico per un caffè ma ovviamente essendo luglio non c'è più nessuno in questa fresca città, torni in stazione e decidi di vivere il brivido della novità e per il ritorno scegli il clima latino. Cerchi almeno di prendere sonno, ma essendoti dimenticata sulle gambe un libro di Psicologia vieni subito richiamata all'ordine da una dolce signora che per riempire il tempo pensa bene di presentarti i sogni dei suoi ultimi dieci anni chiedendoti se secondo te ha dei problemi o se è normale. Decidi di essere deontologicamente professionale e le spieghi che non è così facile, e che dopo soli 4 anni di Università non puoi farle un introspezione psicoanalitica dell'espressione onirica del suo inconscio. La dolcezza svanisce in un lampo, la signora si arrabbia e ti dice che allora l'università italiana non serve a nulla e che staremmo tutti molto meglio se i giovani andassero a lavorare come si faceva ai suoi tempi, e come modestamente a scelto di fare il suo bellissimo e intelligentissimo figlio Paolo.
Grazie signora.
Arrivi a casa e pranzi da sola.
Torna tuo fratello e almeno decidete di andare a prendere il computer nuovo. Evviva!
Entri nel negozio e l'entusiasmo cala, ti chiedi come ti sia venuta in mente un'idea simile dato che ieri sono iniziati i saldi e per la terza volta in un giorno solo ti ritrovi a dover spalleggiare con un numero improponibile di persone.
Arrivi nella zona computer, per mezzora guardi ogni angolo delle presentazioni e dopo vari tentativi lo scegli, è lui! Vai dal commesso.
Coda - 1.
Riesci a fermarne uno per miracolo, gli chiedi se di quel modello ci sono altri colori e lui con totale tranquillità ti risponde che quel computer che hai faticosamente scelto non è più in produzione, l'hanno finito e non ce ne saranno più. Te ne propone uno uguale uguale in tutto e per tutto, tranne nel prezzo: costa solo 150 euro in più! In compenso però ti regalano la custodia da 50 euro! Non ti serviva, ma accetti…
Vai dall'altro commesso, quello di prima ovviamente non poteva vendertelo ma solo dare informazioni.
Coda - 2.
Il secondo commesso ti fa tutte le carte e quando gli chiedi la custodia ti risponde che le hanno finite, ma che se gli lascio il numero posso passare la settimana prossima. Accetti. In aggiunta ti propone una garanzia da 3 anni da 240 euro. Non accetto. Allora te ne propone una da 150 (ovviamente prima se l'era dimenticata). Non accetti per principio.
Finalmente hai tra le mani la prova del tuo acquisto, peccato che ovviamente quello non è il posto per pagare, devi andare in fondo al negozio.
Coda - 3.
Arrivi a destinazione, paghi e allunghi le mani per ricevere i tuoi acquisti, ma niente è come sembra! Per ritirarli devi attraversare il negozio, superare il bar dove è in corso una gara pubblica del nuovo videogame dei Pokemon e se riesci a sentire quello che ti dice tra le urla e gli incitamenti delle mamme inferocite una simpatica commessa ti consegna tutto. Ma non prima di aver fatto l'ennesima...
Coda - 4.
Eccolo, lo vedi, qualche carta e hai il computer in mano quando ti accorgi di....aver dimenticato la fattura. “Potete farmela qui?” Chiedi ingenuamente speranzoso... Ennesimo e ovvio no.
Riattraversi il negozio, i bambini, le mamme e i commessi di prima e arrivi proprio accanto a dove avevi pagato più o meno mezzora fà.
Inutile dirlo...
Coda - 5.
E' il tuo turno: “Ha la partita iva?” “No, ho il codice fiscale”.
La commessa ti ride in faccia e ti dice che non fanno più detrazioni dalle tasse ai singoli da ben tre mesi! La legge è cambiata per il 2011...
Stremata accetti e te ne vai…ma dentro di te c'è una sola parola, urlata e ripetuta più e più volte contro tutto e tutti.
Finalmente giungi a casa e stanca ti sdrai sul divano:
Crack! occhiali d sole schiacciati.

Morale della favola: alcuni giorni sarebbe meglio non alzarsi dal letto, in caso di assoluta necessità mai affidarsi ai detti sulla felicità e portare sempre con sè un paio di euro per scongiurare le maledizioni.

lunedì 25 luglio 2011

Il titolo è alla fine

Un giorno di ordinaria follia. Un caldo soffocante. Il fuoco e le fiamme che distruggono ogni cosa, tramutano tutto in cenere. Due eserciti. I buoni contro i cattivi, o i buoni contro i fessi, o i fessi contro i fessi. Tutto sembra la coreografia di un tragico balletto. Un gioco delle parti. L'esercito della città di Diquà deve odiare l'esercito della città di Dilà, e viceversa ovviamente. Se non fosse per le divise, i due schieramenti sarebbero identici. Sicuramente in quella confusione nessuno si sarebbe accorto se un cittadino di Diquà si fosse vestito come uno di Dilà.

Qualcuno potrebbe dire che questa guerra c'è sempre stata, avrebbe ragione, potete chiedere ai vostri nonni se non ci credete. Le due fazioni contrapposte comunque non avevano ancora risolto nulla. In realtà alcuni avevano fatto anche amicizia fra di loro, ma quando erano sul campo di battaglia rispondevano agli ordini di qualche vetusto governante, che non si sarebbe mai sporcato le mani con quella guerra.

Quel giorno lo scontro si era inasprito più del solito, la violenza si leggeva negli occhi di tutti. Il sangue versato da entrambe le parti scorreva in implacabili fiumi di dolore in quelle trincee cittadine. Non veniva risparmiato nessuno: donne, vecchi, bambini. Tutto rientrava nel punteggio che le due squadre tenevano a questo crudele e doloroso gioco. Ovviamente, con così tante persone coinvolte, nei due schieramenti non mancava qualche invasato, di quelli che avrebbero vestito una divisa di qualsiasi colore, pur di esercitare il loro sadismo.

La marcia non era quasi mai compatta, infatti il conflitto procedeva su più fronti, scoordinato.
I soldati di Dilà avevano accerchiato e isolato un convoglio di Diquà e tentavano in tutti i modi stanare le persone al suo interno, per potergli fare la pelle. In questa estrema confusione, due ragazzi si puntavano contro vicendevolmente un'arma. Ad entrambi era gelato il sangue nelle vene. La tensione divenne palpabile, i due erano talmente concentrati che il resto della battaglia era diventato un rumore di sottofondo per loro.
Uno sguardo, entrambi digrignarono minacciosi i denti, come due cani che hanno paura. Un lampo, seguito dal tuono di un proiettile. Due ragazzi troppo giovani per combattere una guerra che nessuno comprende appieno. L'odore della polvere da sparo che corre veloce a mischiarsi con gli altri odori. La forza di gravità pensa al resto. Mors tua vita mea.



Titolo: Quando l'uomo con l'estintore incontra l'uomo con la pistola, quello con l'estintore è un uomo morto.

domenica 24 luglio 2011

FINZIONI

UN

giorno di ordinaria

follia inizia con l'ordinario

mistero di una luce che sorge

dal lontano

orizzonte.

Il chiarore si diffonde attraverso

il volo

frenetico di milioni

di particelle silenziose impegnate

nella loro panteistica, sacra

missione:

illuminare questa

terra.

La temperatura si alza

gradualmente seguendo

il ritmo della

luce

che aumenta, mentre questa

si fonde con infinite particelle

d'aria

e partorisce un colore

non più di questa

terra.

È...


GIORNO.

Come un'arca di Noè

sospesa nell'aria

esso arriva,

è naturale.

Il mondo ruota, l'autostrada

fluisce

nell'incessante ricerca di altro

asfalto.

Vedo, e loro vedono

me.

Vedo: strani esseri, metamorfiche

creature in mezzo a campi

assolati di puro

nulla

e giallo grano. Nutrimento,

e storia.

Uomini? Strani corpi,

movenze animali, non vedo

gli sguardi, forse

alieni?


DI

fronte a me c'è un muro

di caldo, una cascata che

allontana

le aquile e i pensieri troppo lunghi.

Il tempo, qui, è reale

illusione,

è specchio

per allodole da

manicomio;

vuole essere, ma non sarà

mai. Ora, le ore, sono diga

di sassi per contenere

la pazzia.


ORDINARIA

convivenza come se

nulla fosse e

nulla è, a bordo autostrada, tra aratro

e pensieri dell'altro

mondo. La volta

celeste mi segue come farebbe

un cappello di paglia

soggetto

solo alla brezza

e agli uragani. Vecchi casali senza più

tetto, parlano al vento come

navicelle

spaziali di spedizioni

aliene

dall'orbita tristemente

annegata,

qui.


FOLLIA.

Siamo solo bambini,

e vecchi.

Vedo

solo bambini e vecchi.

Le uniche vere

età della vita. Il resto

è chiaro, è finzione.

Ciò che rimane, lì nel mezzo, è

messinscena per uomini

insicuri,

per tutti

noi. Qui, gli attori non

varcano

i confini: solo bambini,

e vecchi.

Bambini diventano

vecchi, nelle ore fresche i vecchi

diventano

cenere

da cui nascono nuovi

bambini come

l'araba

fenice antica storia scrisse, solo

loro eredi inconsapevoli.

Bambini,

e vecchi, solo loro.

È PUGLIA.

il più bello

Dedicato agli ordinari folli della mia vita

Entrarono in casa con sguardo truce. Gli strumenti del loro sporco mestiere erano in borsa. “Capelli corvini e giacca uguale” anche se la giacca non c’era e i capelli neppure. una missione li attendeva e loro erano disposti a dare il massimo, non si sarebbero fatti intimidire.
Lui apre la sua borsa e mi guarda con fare di sfida mentre i capelli di lei, rossi si, questa volta, mi sfioravano. Gridolini di eccitazione per l’inizio del misfatto. E io impotente ad aspettare su quella fottuta sedia il destino che avevo tanto voluto rifuggire. I primi scatti, scattosi e scattanti, il rumore del clic di quel dito malefico che tanto sembrava ripudiarmi. E poi... e poi quel suono, fastidioso, irritante, spaventoso. Prima non lo vedevo ma poi quella macchina infernale con quei puntini rossi e quei strani numeri dall’uno al tre fecero capolino da dietro l’orecchio. Che cosa avranno significato? Perché volevano farlo?
In fondo mi ero anche impegnato. Non andavo bene così e allora mi sono schiarito il carattere, sono diventato più puro, ho assorbito il calore attorno a me più che potevo, ho cercato di essere migliore e nulla, nulla è servito. Io sono il più bello di tutti, in mezzo a tanti il più solare, sincero. Ti impegni tanto in un progetto, ci credi e porco mondo alla fine ti lasciano così, senza una spiegazione. Sono circondato da una massa di stolti, di ignobili a cui andrebbe tagliata la vita, ma io? perché io? Il più bello, il più bravo? Il terrore mi sta trafiggendo e non ho potere, non posso scappare, sono fottutamente legato a questa vita. Aiutatemi!!!!!!!!!!sono troppo bello per morire.. vi prego!
Il rasoio intanto si avvicinava e il capello più bello di tutti finiva la sua vita così, spezzato solo per un giorno di ordinaria follia. Nessun grido al vile taglio del capello più bello, nessun urlo di dolore, corpo sanguinante o lacrime. Solo un flebile volo di qualche secondo per cadere nell’anonimato di altri simili, suoi simili. Un istante e il capello più bello era diventato un capello in una massa anonima e scialba.
Ma non aveva sofferto, non aveva voce.

Il viaggio di Alfonso

Un giorno di ordinaria follia fu quello in cui Alfonso 77 anni ancora odoranti di cera di candeline, decise che era stufo della vita da troppo tempo odorante di polvere.

Alfonso non aveva ricordo di essere mai uscito dalla città. Mai.

Fece così.

Uno.

Diede un bacio all’urna cineraria della Sandra, colei che fu sua moglie. Le fece anche un inchino togliendosi il cappello. L’inchino gli fece scricchiolare la schiena con un leggero dolorino nella zona lombare.

Due.

Prese Hugo Santiago il suo castoro addomesticato spagnolo (anche se non era mai stato in Spagna, ne lui ne tantomeno il roditore) e lo caricò sul cesto di vimini artigianalmente fissato sulla parte anteriore del suo motorino.

Tre.

Accese il suo vecchio Ciao giallo ocra. Annata 1972 che rispose orgoglioso al primo colpo, nonostante i quasi sei anni di inattività totale.

Quattro.

Si infilò il suo vecchio casco rosso e gli occhialoni che rimpiazzarono i suoi occhiali da vista. Questa sostituzione durò il tempo necessario per rendersi conto che non poteva pretendere di stare senza i suoi occhiali da vista a causa dei decimi oculari che aveva lasciato per strada durante la sua vita.
Hugo Santiago lo guardava con uno sguardo che era più di un “te l’avevo detto”. Alfonso, allora ripose gli occhialoni nel cesto con l’animale e usci in sella alla sua motoretta diretto verso la tappa numero:

Cinque

Passò quindi dalla vicina, la vecchia Betty, una sconclusionata signora sull’ottantina perennemente in trip da farmaci necessari per frenare il delirio folle della sua mente. Il risultato era una vecchia che, clinicamente parlando, non capiva un cazzo ma rideva sempre.
“Betty. Betty! Io parto vado ai confini della città. Dillo a mia figlia se dovesse passare.”
Tutto questo con il casco in testa che impedì alla Betty di riconoscere Alfonso, con il motorino acceso, che impedì alla signora di capire una sillaba e parlandole dalla strada, quindi a circa sei metri dalla sua interlocutrice, impedendo così alla vecchia di percepire la sua presenza.

L’anziana donna, che aveva preso le sue medicine da circa un’ora e che quindi era in pieno trip farmaco-visivo rispose con un: “Santo viaggio!”

“Grazie!”

Rispose Alfonso che parti sfrecciando a circa 20 chilometri orari.


Al vecchio bastarono pochi attimi per vedere parti di città che mai aveva visto.

Trovo una città apparentemente sconfinata, vuota e carica di una surreale quiete da domenica mattina. Ma ne lui ne Hugo Santiago se ne curarono: uno era indecorosamente sdraiato a genitali insù in un cesto di vimini a meditare su quanto fossero bizzarri gli uomini, mentre l’altro suo compagno di viaggio era ormai ore che non allentava la presa di un centimetro sulla manetta del gas.

Intorno a loro si inseguivano desolati scorci panoramici, come una serie di cartoline di dubbio gusto su un espositore metallico goffamente smaltato di bianco.

Prima erano passaggi a livello in greyscale impolverati, poi semafori che ululavano il loro silenzio trasmettendo l’imbarazzo esistenziale di chi si sente terribilmente fuori luogo.

Si passava successivamente per serrande abbassate rese croccanti dal susseguirsi di soli e lune, per scemare infine in prati fioriti mantenuti in ordine britannico dal naturalmente scandito brucare di vacche selvatiche.

Tutto questo dava da pensare molto al peloso Hugo Santiago, che aveva evitato un confronto con il suo companero solo per non disturbarlo.

Alfonso infatti era troppo preso dal gustarsi l’aria che gli accarezzava i baffi.

Fu quando il panorama si fece omogeneamente campi di grano a destra e a sinistra che il sole cominciò a calare facendo sfumare le spighe da oro ad ottone.

Alfonso fermò il motorino. La strada era finita. Si interrompeva bruscamente dove cominciava una montagna dalle pareti cos ripide che quasi sembrava una muraglia.

Il vecchio scese dal mezzo. Toccò la parete con la mano, accarezzandola in cerca di una risposta.
Poi abbassò lo sguardo su quella strada che sembrava continuare: era come se la montagna fosse state messa li da Dio in persona.
Sopra la sua strada.

Alfonso allora si tolse gli occhiali da vista e si mise gli occhialoni da motocicletta e risali in sella al Ciao.

Hugo Santiago non sembrava preoccupato, proprio per niente e nonostante tutto.

Alfonso accese con un secco colpo di pedalina il suo cavallo meccanico girò le spalle alla montagna e partì, apparentemente per tornare a casa, ma nella realtà delle sue intenzioni, solo per prendere la rincorsa.

Giratosi di nuovo verso la montagna partì a tutta manetta verso la nera parete.

“Hugo Santiago, si torna in Spagna” bisbigliò al suo animaletto.

E urlando un “hasta luego a todos” Si infilò in un tunnel che comparì giusto in quella frazione di secondo necessaria per inglobarlo nel buio.

giovedì 21 luglio 2011

La felicità di Lucia


“Lucia avrebbe voluto nascere maschio, avere un pisello in mezzo alle gambe, invece no”. Quali cattiverie potevano essere pronunciate dalla bocca di un bambino. Ora Lucia, pensando a quelle parole a molti anni di distanza, rideva sempre sonoramente. Le piaceva il suo corpo, così com’era. Ogni tanto si fermava a guardarsi allo specchio, a rimirare la bellezza della sua perfezione, soffermando lo sguardo sulla sinuosità di quelle curve sulle quali già molti uomini avevano sbandato perdendo la ragione. L’ultimo di questi era Renzo, giovane di buona famiglia che lavorava per mantenersi agli studi. Certo Renzo sapeva di non poter competere con la sua abbagliante bellezza, con il suo inestimabile charme e la sua determinazione, ma ogni sguardo che lei gli rivolgeva lo faceva tremare fisicamente, come se un coltello avesse appena trafitto dolcemente le sue carni. Spesso la sua testa si riempiva di ragionamenti sconclusionati: “e se volessi dirle quello che provo?”. Pensiero naturale ma assurdo, i confini di quella situazione trascendevano la razionalità. Un giorno lei incontrò un uomo con cui il giovane Renzo non aveva nulla da spartire, se non gli avanzi di una ricca ed importante cena, nella quale quell’uomo poteva tranquillamente servirsi di ogni portata. Gli occhi di Lucia brillavano di una luce nuova per l’affascinante nobile.

Un giorno Renzo, passato per caso nei pressi del mercato, li aveva visti amoreggiare nascosti all’interno di un vicolo. Che disgusto! Erano tutti uno sguardo ammiccante, una carezza sul viso, uno sfioramento di labbra. Renzo lo sfiderebbe a duello, se solo sapesse come fare. “La penna è più forte della spada” gli avevano detto. Lui ci credeva, ecco perché scriveva ogni cosa, i suoi sentimenti, le sue emozioni, tutto quello che gli passava per la testa. Prima o poi avrebbe dovuto incontrarli, quindi meglio prima che poi. Si fece trovare agli angoli della strada sulla quale tutti gli amanti passeggiavano la sera. Vedendoli avvicinarsi un brivido gli percorse tutto il braccio, fino ad arrivare ad un pugno chiuso, un gesto istintivo, animale. Respirava affannosamente e nella pausa fra un’inspirazione ed una espirazione, poteva sentire battere il suo cuore in tutto il suo corpo, a fior di pelle.

“Renzo, ti presento Rodrigo. Rodrigo, questo è Renzo”. Una stretta di mano glaciale ci fu fra i due, uno riconosceva l’inferiorità dell’altro, l’altro era geloso ma intimidito.

Il tizio iniziò a parlare dei suoi titoli nobiliari, dei suoi possedimenti, dei suoi viaggi, delle sue opere cavalleresche. Più questi parlava e più Renzo si rendeva conto di quanto quell’uomo usasse la bellezza di Lucia come un trofeo da sfoggiare nella città, come l’ennesima testa di animale appesa nel suo salotto. Lucia non sembrava essersene accorta, guardava Rodrigo con sguardo ammaliato e perso, aveva un sorriso nuovo sul volto, quello della sincera felicità. Renzo spinto dall’impulso di smascherare quel cialtrone prese un profondo respiro, convogliò l’aria verso la bocca e disse: “Lucia!” ma subito si bloccò. Le parole successive avrebbero dovuto essere “Costui non ti merita!” ma furono “Sto per partire, non so quando e se tornerò. Ti auguro per sempre la felicità che ti vedo provare in questo momento. Addio”. Renzo si girò, e senza aspettare la reazione di lei, si avviò verso casa.

Raccolse due stracci con il quale era uso vestirsi, li mise in un sacco ed partì. Non sapeva dove sarebbe andato, l’importante era che fosse lontano da lei, per dimenticarla.

Il bruto la farà soffrire, questo è sicuro, ma lui non le dirà mai nulla. L’effimera felicità di Lucia sarà la giusta ricompensa per il suo silenzio.

Ormai si sa che le Lucia di oggi finiscono sempre con i Don Rodrigo.

martedì 19 luglio 2011

2. INVIDIA PENIS

Perché non è un cuore di cane.

Lucia avrebbe voluto nascere maschio, avere un pisello in mezzo alle gambe, invece no.

Era un pensiero che l’accompagnava un po’ da sempre, un rigetto per angherie e disparità rispetto a fratelli, compagni, colleghi di lavoro che si traduceva sempre in una reazione mimetica, per lei che era così ambiziosa. Sì, incorporare il potere maschile, che tanto la schifava quanto l’allettava, l’avrebbe desiderato ben oltre il senso metaforico. L’avrebbe voluto per sé. “Io, lo userei molto meglio..”. Concupiva un’assimilazione androfagica… Aveva desiderato più volte avere un pene, se l’era immaginato là in basso, gonfiare dei jeans retti da una virile cintura D&G. Così, sarebbe potuta arrivare ovunque n quel mare popolato di squali che era il suo lavoro. E invece no.

Adesso si ritrovava un uccello spuntare dal suo ventre. Sì, di quelli pennuti e variopinti. Che sbatteva le ali e la fissava con due occhi sbarrati e lucidi come le semisfere di vetro nero che si incollano sul muso dei peluche. Fuoriusciva dalla fine del suo bacino ed ora che Lucia stava spaparanzata sul suo divano s’azzardava perfino ad alzare il capino e, girando la testa a piccoli scatti verso destra e verso sinistra, squittire un fastidioso “Cooocorito!” nel silenzio della stanza.

Quando aveva espresso quel pensiero sotto forma di desiderio non avrebbe mai immaginato uno sviluppo del genere. Si era lanciata in una sorta di giocoso delirio, solo per reagire all’ultima preferenza del suo capo per il lecchino impomatato che assiste lo strategic planner della sua agenzia in una maniera meno distruttiva dell’insulto sfrenato, dello sfracassare il suo Mac o dello scoppiare in lacrime rabbiose. Era stato solo uno scherzo suggerito malignamente dalla vista della vecchia lampada arabeggiante posta con cura su un ripiano della libreria.

La storia che il venditore di cianfrusaglie in un brocante di Parigi le aveva raccontato le era parsa un po’ strana ma divertente, da quel misto di francese maghrebino e parole inusuali lei aveva ritenuto solo una serie di luoghi comuni su lampade magiche e desideri che immaginava si raccontassero ai turisti allocchi, ma a lei quella lampada piaceva e il venditore si era lasciato convincere a trattare il prezzo.

Era stato solo un gioco e il giorno dopo se ne era subito dimenticata, di nuovo immersa in un altro progetto per dimostrare quanto lei valesse nonostante la sua Pms (N.d.A. Sindrome pre-mestruale). Non era successo nulla. Nessun Genio, nessuna vocina da dentro la lampada, nessuna nuvoletta di fumo viola. Niente. Solo una settimana più tardi quei dolori al ventre, quei crampi inspiegabili che l’avevano inquietata non poco. Qualche farmaco generico sembrava aver calmato più la coscienza del suo medico generalista che il suo stato, ma poi nel giro di qualche giorno erano diminuiti fino a sparire da soli.

Finché era comparso. Una piccola protuberanza alla fine del suo ventre, che poco alla volta era cresciuta.

Era diventata pazza, presa dal terrore aveva guardato giorno dopo giorno questa ‘cosa’ ingrandirsi senza capire cosa le stesse succedendo e senza il coraggio di parlarne con nessuno, poi una lucetta nella mente le si era illuminata e aveva intuito. “No…ma vuoi che..?...Oddio, ma quindi..quindi…” La lampada. Sì, doveva essere stata la lampada, perciò quella storia dei desideri…era vera! Oddio, le stava crescendo un pene!! Quindi…si stava trasformando in un uomo? Oppure no, le stava solo crescendo e si sarebbe ritrovata ad essere uno di quei casi assurdi di persone con due sessi? Calma, si era detta, bisogna vedere. Certo cheee…le stava crescendo un pene. Scoppiò in lacrime e si chiese che razza di uomo avrebbe potuto essere. Non trovò una risposta. Oscillava con un certo stoico equilibrio tra fasi di crisi ed esaltazione totale: sì, la lampada stava esaudendo il suo desiderio no?, quindi con ogni probabilità stava finalmente diventando maschio, come aveva sempre desiderato.

Poi, qualcosa continuò a succedere. Qualcosa che non tornava. Due piccole protuberanze erano spuntate ai lati, e delle sottili punte coriacee avevano ricoperto la superficie dell’escrescenza. Era stato orribile. Si era rinchiusa in un mutismo attonito, senza il coraggio di scostare il lenzuolo per non dover vedere il suo bell’abbozzo di pene trasformato in un obbrobrio senza senso, e terribilmente disgustoso. No, qualcosa non andava, qualcosa proprio non andava! Aveva passato in rassegna più volte l’anatomia androgina ma non le tornava proprio in cosa avrebbero potuto evolvere quelle protuberanze e quelle punte.

Poi una mattina l’aveva trovato. Lì, tra le lenzuola l’aveva visto. O meglio, l’aveva sentito. L’aveva svegliata un cinguettio sgraziato e insistente: al posto dell’escrescenza, nel suo basso ventre si trovava un uccello implume.

Solo molti svenimenti, deliri e svariati ansiolitici dopo era tornata abbastanza lucida da capire cos’era successo. Tanto era infuriata e alticcia quella sera, che doveva aver pronunciato il suo desiderio con una certa sboccataggine. E quella ambigua approssimazione l’aveva pagata cara. Adesso era proprio un uccello, quello che si ritrovava fra le gambe.

Si era precipitata a rotta di collo sulla lampada, strofinandola ed esprimendo un contro-desiderio per porre fine a quella situazione pippovespiana, ma nulla, non aveva funzionato. ‘One desire only’, seguiva ad una indecifrabile scritta in arabo impressa sotto la lampada, azz…!! Aveva un uccello e doveva tenerselo. Ma cosa doveva farsene? Quel tipo d’uccello non poteva certo nasconderlo in un paio di pantaloni…

E mentre spendeva giorni inquieti in casa in cinguettante compagnia, quello cresceva e cresceva. Un canarino. Poi un fringuello. Infine un pappagallino cocorito che se ne stava zitto solo al buio della sua gonna. Aveva già imparato a gracchiare qualche parola, perfino!

E dove sarebbero arrivati di questo passo? Sarebbero…già, stava cominciando a parlare al plurale… Ormai la presenza di Lollo era qualcosa di naturale nella sua vita. Gliel’aveva dato due settimane prima, il nome…quando era un fringuello, le piaceva il canto di quell’uccello. A ben pensarci non aveva mai avuto un animale domestico. E a pensare ancora meglio, non aveva mai desiderato la compagnia intima di alcun essere vivente. Non c’era il tempo, troppi disagi.

Lollo la guardò col suo capino, puntando su di lei gli occhietti vetrati. “Cooocorito-Lollo!”

Lucia si trovò a sorridere maternalmente senza accorgersene. In fondo quella tenera creaturina era proprio simpatica.

lunedì 18 luglio 2011

Luci[Da]sostantivare

Lucia avrebbe voluto nascere maschio, avere un pisello in mezzo alle gambe, invece no, era destinata all’ introversione vaginale. Avrebbe volentieri rinunciato al sesso forte per poter giocare con un ipotetica verga all’elicottero e al pensiero di labbra e lingua avvicinate al sempre prospettato, suo, cazzo la mandavano fuori di testa. Dio, pensava sospirando Lucia. Adorava svegliarsi alla domenica priva di sveglie e crogiolarsi tra le lenzuola tambureggiando le dita sui sottili peli pubici. Dipingeva con gl’occhi il soffitto bianco e le mani, al seguito del dipinto immaginario, giocavano a nascondino con i suoi stessi sipari afrodisiaci.

La luce estiva filtrava dalle tende finestrate di color arancio: i fasci di luce unici spettatori attenti alle godurie giocose del primitivo giorno.

-Buongiornogiorno buongiornogabrì- con il primo, e probabilmente, ultimo serio slancio fisico della giornata, Lucia s’era girata sul fianco destro, tenendo l’avambraccio piegato in funzione di appoggio momentaneo e la mano sinistra che maliziosa continuava nel arricciare parte di peluria del sesso, e aveva salutato dolcemente Gabriella con l’alito dell’amore passandole la lingua sul labbro superiore.

-Ciao lù- rispose Gabriella con il sorriso sonnacchioso del buongiorno.

-Ciao gabri- con l’allegria di chi è in possesso di chimere quotidiane; Lucia aveva già fatto scivolare il vaporoso lenzuolo svelando le placide sagome della lussuria. Il soffio della bocca semichiusa passava in rassegna i panorami sempre nuovi della materia di una donna, il respiro di ogni brivido, la sensibilità di ogni membrana: naso orecchie collo e spalle. E poi capezzoli, il delirio, la naturalità del capezzolo, il ritrovarsi bambina erotica, il voler suo essere turgido, palpabile, essenza scaltra e nemica della razionalità. Dalla bocca intanto usciva la punta della lingua. Rosso su rosso. Pori su pori. Sudore e saliva.

-lù- cominciava ad ansimare il corpo di Gabriella.

-Eh?- con l’innocenza che non ha nulla di puritano Lucia ritrasse per un attimo la lingua e guardò, con prospettiva funambolica, i primi gesti di tensione facciale di Gabriella.

S’alzo di scatto, solo le ginocchia premevano sul materasso. Lucia gattonò tra le gambe di Gabriella, le prese e le aprì con la forza di chi sa essere dolce, con la veemenza di chi sa di essere amato, incontrando la debolissima resistenza della compagna. E poi avvicinò il muso , il naso alle labbra libidinose di lei. E poi di nuovo la lingua: primo colpo secco veloce sull’intera superficie del clitoride. Lucia rialza la schiena e sorride a Gabriella già in preludio di estasi, e poi giù di nuovo con un secondo colpo secco preciso sull’apparato sognatore. Procurare piacere dava piacere: era il bacio del vizio eterno, il refolo di sublimazione irresponsabile. La lingua di lei amava il clitoride di lei: incontro della natura, lei bizzarra e veloce, lui immobile e voglioso.

Le mani di lù premevano sui glutei di Gabriella. Le mani di Gabriella aiutavano al piacere la lingua di Lucia. Capelli travolti da dita, lenzuola molestate, e la lingua, e il clitoride. E il clitoride e la lingua. Giocano. Eccome se giocano. Dio. Lù..lù..finiscila lù..lù..così vengo..lù..lù..lù.. e il grido muto straziante primordiale brioso amante.

Silenzio dopo il sigillo . Lucia appoggiò la testa sul ventre di Gabriella a seguire il rallentare del respiro di lei. E rimase lì accovacciata in silenzio con la testa al ritmo dolce del sollievo. Le dita di Gabriella sulla cute cranica di lei.

-Ho sete gabrì-

-Vai a prendere un bicchiere d’acqua-

-si, ora vado.-

Lucia s’alzo dando un bacio vicino all’ombelico di Gabriella e andò in cucina e prese un bicchiere che riempì con l’acqua del rubinetto. A ciò aggiunse 5 letali goccie. Tornò in camera con il bicchiere in mano e con l’egoismo dell’amore ne bevve un sorso per poi porlo a Gabriella:

-Grazie lù- disse la nudità stesa sul letto.

Mentre Gabriella poggiava il bicchiere sul comodino, Lucia era già balzata al suo fianco: la prese tra le braccia e il naso di una era i capelli dell’altra, il petto e la schiena si fondevano, le gambe si incastravano. S’addormentarono così, in questo mondo di uomini.

Lucia avrebbe voluto nascere maschio, avere un pisello in mezzo alle gambe, e invece no. Invece è nata femmina, con un corpo di donna, e anche molto pronunciato nei suoi tratti femminei. Osservando tutta occhi i compagni di classe vedeva nei comportamenti e nei gesti dei bambini sé stessa, si vedeva invece molto diversa dai movimenti e dal modo di scherzare delle bambine.

Ferma ad aspettatre l’autobus per tornare a casa ogni giorno Lucia continua ad osservare, ascolta le conversazioni delle coppie e poi nella sua stanza ripensa alle differenze che nota. I ragazzi sono più assertivi, hanno la spina dorsale adatta a tener testa ad ogni situazione. Sono coraggiosi, prendono le decisioni e spesso sono le ragazze, almeno quelle del suo quartiere, a dover mediare o sottostare.

Lucia si sente simile ai ragazzi, sente di avere un’indole maschile, forte, da dura, però il suo corpo non risponde, non riflette, non rispecchia. Ed è proprio questo che lei vorrebbe, la legittimazione esterna del suo sentire intimo, il naturale prolungamento del suo carattere, del suo modo di vedere il mondo.

Quando esce col suo gruppo di amici è lei che ha il tono più alto, che riempe i tavoli delle cene delle battute più chiassose. Il rumore che le esce è molto maschile, pensa, niente a che vedere con i suoni soavi delle ragazze, dai quali però è attratta.

Ma allora perché questo corpo, perché questo collo sottile, queste coscie piene, tra l’altro molto apprezzate dai commenti dei suoi amici maschi? Il suo corpo è distante, slegato dalla sua identità più profonda. Il suo modo di vivere va in una direzione, ma il corpo comunica all’esterno il contrario, dà di lei un’immagine debole, soffice, mentre dentro accade il contrario.

Lucia desidera che il mondo la veda e la tratti rispettando quello che lei pensa di sé stessa: questo si può ottenere solo con un corpo diverso, si trova a pensare, solo con la giusta apparenza, con dei caratteri fisici scolpiti, come la sua ironia, tonici, come i suoi interventi all’università, sferzanti, come le sue risate. Solo a queste condizioni sarebbe una persona completa agli occhi del mondo.

Un corpo da maschio le servirebbe anche per sedurre Gioia, la sua compagna di corso, insieme studiano semantica, sono in sintonia perfetta quando parlano di quello che affrontano in aula, si appassionano insieme leggendo Foucault e Gioia sembra apprezzare la mascolinità che è propria dell’amica. Anche se Lucia pensa che la guarderebbe in un altro modo se avesse un corpo diverso. Lucia arriva a pensare ai significati che può comnicare un corpo: può ammiccare, sedurre, lanciare segnali di ogni tipo.

Lei si sente come se qualcuno di molto grasso si fosse seduto sulla pompa dell’acqua per dar da bere ai fiori: qualcosa blocca il passaggio tra corpo e mente, il suo corpo non germoglia seguendo i caratteri del suo pensiero.

Un giorno i suoi occhi erano passati di sfuggita su articolo di giornale che spiegava come in alcuni paesi lo stato incoraggi economicamente il cambio di sesso poichè preferisce identità stabili, scelte nette, o sei uomo o sei donna, così diventi un individuo inquadrabile e non un’identità di frontiera in senso sessuale.

Da quella lettura i dubbi che l’hanno avvolta da sempre si sono ampliati: quali sono i rapporti tra la società ed il genere? Perché sulla carta d’indentità c’è scritto a che sesso appartieni? È veramente interessante per lo stato sapere se sei uomo o donna? Cosa succede se ti senti in mezzo? Perché lo vogliono sapere se tu non lo sai ancora?

Lucia si sente proprio un maschio: è assertiva, rumorosa, quando vede Gioia prova una spinta sessuale dirompente, è ruvida, veloce, pronta, volitiva. Ma si chiede se queste siano davvero prerogative esclusivamente maschili.

Non si sente particolarmente tenera, accomodante, morbida, adatta a consolare. Ma tutte le donne sono così? Alcuni suoi amici maschi in realtà sono più sensibili di molte ragazze, quando finisce una relazione soffrono a lungo, e per iniziarne una a volte sono molto meno intraprendenti.

Ma questi sono pensieri destabilizzanti, Lucia è completamente confusa.

giovedì 14 luglio 2011

Asciugamano azzurro

E’ rimasto qualcuno vivo, qualche superstite?

Certo, sono andati a fare l'aperitivo sotto gli spari dell’imbecillità.

Tra le ridicole maestranze vitali

avari di incalzanti ingoi

le unità al maschile

segnano imperfezioni saline

e cartacee;

l’imperfezione dettata

da un misticismo inconscio

è l’india la patria delle ambulanze

Riserva di un mozzicone

usurato

e schiavo di una penna verde,

anch’io

vittima del pessimismo.

lunedì 11 luglio 2011

Maledetto, maledetto APERITIVO!

"...è rimasto qualcuno vivo, qualche superstite?"
"Certo, sono andati a fare l'aperitivo...”
Mi rispondi.

Ma che dice mai? Lo sai? Si lo sai. Quanto è importante questo. Devo scrivere queste cose. Sono i miei viaggi più intimi. Io mi apro a te e tu mi distruggi, mi apri, mi scavi, mi svuoti, mi richiudi con ago e filo e mi getti nel fiume, guardandomi galleggiare e prendere il largo verso una foce a delta o a estuario in un mare qualunque, mentre attraverso le imprecise cuciture che tengono unite le mie membra, piano piano si fa avanti l’acqua.

Tempo qualche minuto è affonderò a grattare il fiume con i miei mocassini ad arare i fondali, a smuovere fangose polveri a disfare il letto del fiume contribuendo all’intorbidirsi dell’acqua che già mi soffoca, ma così è anche peggio.

Ma è rimasto qualcuno vivo?
Qualche superstite?
Qualcuno vivo?
Qualcuno?

Dei superstiti? Si dove sono?

A fare l’aperitivo.

No, che risposta di merda. Non me la dovevi dare. A me serve il to aiuto. Ti ho chiesto una mano. Non darmi queste risposte sceme.

Sei giovane, i tuoi capelli sono lunghi, lisci bruni, del colore dei tuoi occhi che è il colore del cielo limpido di notte. Del cielo limpido di notte, andando a ritagliare quelle piccole porzioni di cielo nero etere senza le stelle.
E poi sono grandi i tuoi occhi.
Mi assomigli molto. Mi conosci molto.
Sei mia sorella.

Perché non mi prendi sul serio.

Paga tu il mio caffè per piacere. E mi alzo dal tavolo. Vado via.

Mi porto via i tuoi occhi ma solo perché sono i miei. Perché non mi prendi sul serio?

Devo capire. Devo capire. I superstiti. Quello è l’autobus che mi riporterà a casa.
Lo prendo dal senso opposto così mi porta altrove. Così potrò avere del tempo per pensare. Eccolo.

Garda quest’autista. Potrei chiedere a lui. Dei superstiti.

Ma guardatelo. Ha il viso appoggiato ai suoi baffi polverosi. Lo sguardo che è così intento a trasmettere il niente che l’iride si dimentica di restringersi in presenza di luce. Infatti indossa occhiali da sole anche se sono le 17 ormai. O almeno lo saranno. Dal buio che arriva. In più c’è il mio berretto di alpacha in stile peruviano che sulla mia testa simboleggia l’inverno. Inverno, 17, occhiali da sole. E il nulla quotidiano dietro. Ma che volete mai? Guardatelo ancora. 8 ore di turno per compiere un giro di 30 minuti da un capolinea all’altro.
Immaginatevi la ripetitiva noia del quotidiano di quest’uomo.
E ditemi, quando va a casa? Mezzora in canottiera, poi a portare fuori il cane. Poi a casa. Dormire. Svegliarsi e guidare. Gli va bene se una volta ogni tanto buca una gomma o si incendia il bus.
O se gli muore il cane. Potrà variare un attimo la sua routine eliminando il rito di menare un animale all’aperto per cagare, al fine di non farlo scoppiare della sua stessa merda. Magari per un periodo si farà bastare di vuotare la pattumiera.
Oppure se ne comprerà un altro. Questo gli darebbe un senso di nuovo, di scintillante, di plastica profumata. Fino a tornare alla stantia puzza di cagnone fabbrica merda. E allora la sua morte sarà così lontana da far figurare come prossimo diversivo l’ennesima gomma bucata.
No lui non sa che fine hanno fatto i superstiti credetemi.

Il bus è vuoto. Oh no c’è una vecchietta. La vedo. Mi siedo vicino a lei.
Puzza di profumo.
E’ un profumo barocco. Lo sento tirandolo su con il naso. Non è una liscia scia di fiori di arancio delicatamente e ordinatamente disposti su di una fila. Ma piuttosto un rococò di indefinite fragranze che assumono forme di ingranaggi di vecchie biciclette polverose e violacee che corrono nell’aria e la fanno a pezzi sospinte da poderose pedalate.
Mi da piacevolmente la nausea.
La guardo. La fisso. La studio.
Dimmi signora.
Spiegami nonnina.
Rispondimi vecchia.

Ma è rimasto qualcuno vivo?
Qualche superstite?
Qualcuno vivo?
Qualcuno?

Dei superstiti? Si, dove sono?

Lo devo sapere.
Non posso capire da cosa l’ho dedotto, ma lei sa. Lo vedo dai suoi occhi che mi ricordano gli occhi di una gallina. Dalla sua pelle macchiata.
E se lei sa che mi dica, così che possa saperlo anch’io.
Non mi risponde.

Nessun indizio nemmeno dal suo odore acre di profumo ottocentesco. Me ne devo andare se non voglio che la mia pelle si bruci a causa di questo odore violaceo. Potrei finire corroso come la sua borsetta.

Ma perché non mi ha risposto. Forse perché non le ho parlato e non ho aperto bocca.

Scendo dal bus, sono esattamente in un posto preciso che per me vale niente. Ma giusto per respirare un po’ di aria gelida e togliermi il berretto di alpacha con un gesto veloce. Che mi scombina i capelli. Tanto ora ci metto le mani, tra i capelli.

Tu, voi, io.

Ma è rimasto qualcuno vivo?
Qualche superstite?
Qualcuno vivo?
Qualcuno?

Dei superstiti? Si dove sono?

Sto impazzendo. Mi accovaccio per terra. Vorrei urlare. Sento i piedi affondare nella polvere. Quella polvere che mi perseguita. I fondali polverosi, i baffi polverosi, le biciclette polverose. E’ la mia risposta? Lo è. Li al suolo, sotto i miei piedi. La polvere. Potrei raccoglierla ma mi scivolerebbe via tra le dita o rapita dal vento.

Mi alzo, mi rimetto il Berretto. Tolgo la polvere dai jeans e dal mio cappotto corto. Tutto con una certa cura.
Ma sì.
Alla fine…
Che importa.

Ma si. Dai.

Sono andati a fare l’aperitivo.

Quegli stronzi.

È la fine dell'anarchia!

Premessa: Alcuni dei fatti narrati sono frutto dell'immaginazione, reale invece è il contesto storico e socio-politico nel quale sono inseriti.

- “È rimasto qualcuno vivo, qualche superstite?”
- “Certo, sono andati a fare l'aperitivo... Ma cosa stai dicendo? Non l'hai sentita l'esplosione?”

Piazza Fontana, Milano, 12 dicembre 1969 ore 16:40, la città è nel panico. Volanti della polizia sfrecciano avanti e indietro a sirene spiegate. Un'imponente fumata nera si alza dagli ultimi resti di quella che era la Banca dell'Agricoltura. Due giovani si incontrano agli angoli di Piazza del Duomo, entrambi vestiti con un giubbotto di pelle nera, cranio esposto da testa rasata nonostante il freddo.

- “La bomba alla Banca Commerciale non è esplosa!”
- “Dannazione! Tra l'altro non abbiamo ancora avuto notizie dai camerati di Roma... ”

Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa, ore 21:00, la polizia fa irruzione in tenuta antisommossa, alcuni colpiscono con i manganelli, altri puntano i loro fucili verso i presenti. Il bilancio di quell'operazione è 80 arresti. Fra di loro c'è anche il ferroviere Giuseppe Pinelli, famoso per aver collaborato alla resistenza. Particolare tatto gli è stato riservato in quanto abitudinario di arresti. “Pinelli, siamo sempre noi. Vuoi venire in questura?”

Nelle ore seguenti, la maggior parte dei fermati fu rilasciato, a parte il Pinelli, trattenuto in arresto per tre giorni.

“Allora signor Pinelli, ci racconti di nuovo dov'era il pomeriggio di venerdì” gli chiese il commissario di polizia.
“Ve l'ho già detto, ho fatto il turno di notte, quindi mi sono svegliato che ormai era pomeriggio, sono andato al bar, nel quale mi sono intrattenuto alcune ore, poi mi sono recato al circolo, dove i suoi uomini mi hanno prelevato”
“Queste sono menzogne! Il barista dichiara che ha preso un caffè al banco verso le 14.00 e poi se ne è andato nel giro di un minuto.”

Giuseppe respirò profondamente.

“Quel barista è un fascista, del resto lo sanno tutti. Noi a volte ci andiamo solo per provocarlo un po', per schernire il busto dell'impavido Benito che capeggia su una mensola. Sono sicuro che se potesse, regalerebbe il bar pur di vedermi in galera.”

Il giovane ferroviere era tranquillo, i tre giorni di interrogatorio non l'avevano per nulla provato. L'aria invece in quella stanza iniziava a farsi tesa, il commissario era seduto alla scrivania, mentre due poliziotti gli giravano intorno, come cani che famelici si contendono con lo sguardo un pezzo di carne.

“Risponda ora a questa domanda Pinelli, è vero che la parola anarchia significa che siete contrari a qualsiasi tipo di ordine costituito?” battendo una mano su un grosso e polveroso dizionario.

Giuseppe girò il viso in un'altra direzione e sorrise.

“Ah, la faccio ridere? I morti la fanno ridere Pinelli? E questo? La fa ridere questo?” lanciandogli le fotografie della strage.

Uno dei due appuntati si avvicinò alla sedia sulla quale era seduto il ferroviere, guardandolo con aria minacciosa. “Parla, bastardo!” disse, assestandogli un pugno dietro la nuca, facendogli perdere i sensi.
“Mario, sei un cretino! Vai a prendere dei sali!” disse il commissario scattando in piedi. Gli passarono i sali sotto il naso, lo schiaffeggiarono, ma niente. Il poliziotto più giovane gli mise allora una mano vicino la bocca, e una sul collo. Assenza di battito e di respiro. L'anarchico fu accompagnato gentilmente all'uscita. Dalla finestra.

Rapporto di polizia, questura di Milano, 15 dicembre 1969:
Improvvisamente il Pinelli ha compiuto un balzo felino verso la finestra che per il caldo era stata lasciata socchiusa e si è lanciato nel vuoto, gridando “È la fine dell'anarchia!”.

Nei giorni seguenti, in alcune aule dell'università venne rimosso dagli studenti il crocifisso e fu appesa la foto di Giuseppe. Sotto la Questura durante una notte venne scritto sui muri “Sarete per sempre coinvolti.”

Nessuno sapeva ancora che molto sangue innocente sarebbe stato versato.

Stazione di Gioia Tauro, 22 luglio 1970: 6 morti, 66 feriti
Questura di Milano, 17 maggio 1973: 4 morti, 46 feriti
Brescia, Piazza della Loggia, 28 maggio 1974: 8 morti, 102 feriti
Stazione di Bologna, 2 agosto 1980: 85 morti, 200 feriti

Ecco i numeri, stornate le lacrime di madri e padri, sottratto lo sconforto degli orfani, il vuoto degli innamorati, il dolore dei mutilati superstiti. Ecco i numeri, che tutti insieme formano un volto, il volto di una carneficina.

Piazza del Duomo, Milano, 10 luglio 2011
Due vecchi uomini sono seduti al bar, giubbotto di pelle nera e testa rasata da caduta di capelli. Uno di loro è malato di cancro, l'altro ormai cammina con un bastone. Con la coda dell'occhio guardano alcuni bambini che si rincorrono giocando a nascondino. Liberi tutti.

sabato 9 luglio 2011

1. Quei risvegli di coscienza

Se gli avessero chiesto "Cosa vorresti fare nella vita?”, lui avrebbe risposto con piacere, pensando che era proprio una bella domanda, questa, una questione che lo toccava nel personale, soprattutto dati i recenti avvenimenti intercorsi tra la fine del suo lavoro a progetto e le ultime novità che lui preferiva chiamare incidenti di vita… Avrebbe sinceramente ringraziato dell’interessamento: è così piacevolmente raro ricevere tali attenzioni da un estraneo, e il sottile piacere soggiace soprattutto nel fatto che una domanda così inattesa può talvolta, nel caso di certe empiree (e empiriche) connessioni, scatenare un incontro di anime che predispone il core ad aprirsi a inaspettati e profondi scambi. Sì, perché quando devi tornare a monte della tua esistenza per donare un minuscolo bagliore di te che sia a suo modo comunque significativo, lasciandoti interrogare da uno sguardo estraneo che nulla può ancora presupporre su di te, beh questo può essere rivelatore e chiarificatore per te medesimo. Quante volte gli era capitato...Io…e l’altro… Quale misterico movimento ondoso di ritorno in sé, aprendosi per vedersi restituire un riflusso di coscienza che porta con sé l’impronta dello scoglio sul quale si è infranto…

“Cosa voleva fare nella sua vita”… Sì, ma anche, “Cosa voleva, o poteva, aspettarsi”, dalla sua vita... Si sentiva proprio nella buona disposizione d’animo per discutere di temi profondi e interiori: lo squillo aveva squarciato dei pensieri sonnolenti e stagnanti mentre inespressivo faceva tintinnare il cucchiaino sul bordo della tazza del caffelatte senza che ci fosse più alcuna goccina da far cadere…quel raccoglimento pregresso era il perfetto presupposto ad una confessione catartica sulle sue paure e le sue aspirazioni più recondite. Era lì, aperto a se stesso e al mondo. Nudo.

Eh sì, se gliel’avesse chiesto… L’altro, dalla parte opposta della cornetta aspettava ancora, ma con un respiro pian piano più spazientito. Un rauco colpetto di tosse, puff alla magia!

Checcavolo voleva dire “Un sondaggio sull’olio extravergine?” Ma, ti pare plausibile che uno chiami a casa per domandarti nel pieno del tuo dormiveglia mattutino “Quanti litri di olio usa all’anno”? Che gli può servire saperlo? Volesse anche vendermelo, non dovrebbe (scusa!) propormi qualche fantomatica proprietà oligoalimentare, lassativa, gustativa, emolliente, colorante, lubrificante, economizzante del suo olio, invece di chiedermi QUANTO olio(???) uso all’anno? Sempre con ‘sti sondaggi pre-offerenti che sembrano voler rompere il ghiaccio mentre ti ingessano imbarazzato proponendoti degli interrogati euclidei!, adesso dovrebbe dovuto mettersi a calcolare quanto olio consumava…allora, comprerò si e no una bottiglia ogni 3 settimane…bottiglia piccola, vivo da solo, quindi 75cl…ogni 3 sett..quante all’ANNO?cacchio se erano 4 era più facile, 12mesi per…facciamo no 12, ci aggiungiamo quanti?…14-15, per 75… Ma fammi direttamente un’offerta di paniere 5 al prezzo di 3 o che diavolo ne so, e non gettarmi in un abisso d’inquietudine e d’imbarazzo perché non so risponderti ad una domanda che TU, sconosciuto impertinente, mi poni come la più scontata, tipo “quando sei nato” o “quanto tempo ci impieghi ad andare a lavorare”: quanto olio utilizzo all’anno?? Dimmi te se uno sconosciuto deve sbrindellare la sottile patina di privacy del mio castello per depredarmi di informazioni ebeti: se proprio qualcuno deve scomodarmi dal mio caffé semi-freddo e proporsi amicalmente a me con un “Buongiorno!”, chiedimi almeno qualcosa che non mi spaventi…

Un disagio distribuito ovunque, un assedio urbano del controsenso…come l’omino riciclato a customer care ricoperto da una blusa incerata più grande di lui dei colori del supermercato quasi fosse la caricatura di un contradaiolo senese MA dall’improbabile accento veneto-cingalese che mi interroga su quanto detersivo utilizzo, poi (vista la mia incompetenza in materia di consumi e lavatrici) se fossi o meno soddisfatto del “bacino di capienza”dei carrelli della spesa e dell’azione certosina di integrazione ad opera dei responsabili dei “dispensatori mercendari su ruota”(a ‘sto punto, rollator per nonne con vano portatutto, seggiolone deambulante da supermercato, contieni alimenti con poggia borsa incorporato, veicolo base per Jackass in erba…).

O dell’altro ieri, quando tornando a casa una graziosa squinzia mi aveva apostrofato in maniera irriverente masticando sguaiatamente un chewingum con “Ciao! Scusa, ma tu leggi?”, senza esplicitare se intendesse insinuare che avessi una qualche espressione da analfabeta…

La gente ti comincia a far riflettere su cose davvero bizzarre, con certi interrogativi…

venerdì 8 luglio 2011

L'IMPORTANZA DELLA FORMA CIRCOLARE. E UN SOSPIRO.

Se gli avessero chiesto "Cosa vorresti fare nella vita?", Lui avrebbe risposto con un lungo silenzio, e un sospiro.
Egli era così: taciturno - meditabondo - incorniciato da un'aria eternamente affranta.
Il suo sguardo vagava in luoghi remoti, fisso ed immobile ma perennemente altrove.
Il suo tempo, il suo spazio erano più che mai indefiniti.
Egli era giovane, ma non era sicuro di potersi definire tale.
Si conosce la salita solo avendo esperienza della discesa, no?
Egli non l'aveva.
Egli si sentiva una maledetta linea retta, mentre tutti gli altri si percepivano o potevano percepirsi come forme circolari.
Gli altri gli erano distanti e questo lo rattristava.
Gli altri lo cercavano, erano in tanti a farlo, ma il punto è che nessuno Gli era amico.
Gli uomini e le donne che Lo circondavano generalmente Lo rispettavano, eventualmente Lo ignoravano.
E allora, come si può essere così mesti e desolati? C'era certamente chi stava peggio!!!
Ma si, Egli lo sapeva, doveva considerarsi fortunato, dopotutto era piuttsto raro avere i privilegi che Lui poteva vantare.
Ma...vantare con chi?
Egli si sentiva solo. è abbastanza chiaro?
EGLI / SI SENTIVA / SOLO.

Ad ognuno di noi capita di essere coscienti di tutte le fortune e gioie e grazie ricevute ma, nonostante queste, pensare di essere soli al mondo.
Il Suo intero essere era incastrato tra eterno stato di grazia e profonda solitudine.
PARADOSSO: + privilegi = + distanza; + distanza = + solitudine
Da ciò nasceva il Suo introverso mutismo ostinato.
Ecco perchè se qualcuno Gli avesse chiesto " Cosa vorresti fare nella vita?", Lui avrebbe risposto solamente abbassando il capo ed emettendo un lungo sospiro viscerale.
La VERA questione, il vulnus del Suo noioso scorrere risiedeva precisamente nella terribile forma condizionale in cui la domanda era posta.
Tutti noi, sin dall'infazia, siamo martellati dalle DOMANDE MOLESTE: "Che lavoro vuoi fare da grande?", "Chi vuoi diventare?", "Cosa vorresti fare nella vita?"
Interrogativi - questi - quantomeno inflazionati ma, in fin dei conti, essenziali ad uno scorrere della vita che non sia mera inerzia.
Egli invece non era abituato a codeste domande, nessuno si interessava a cosa avrebbe voluto fare nella vita, ma c'è di più: si era sempre dato per scontato che quello che da sempre faceva fosse di Suo gradimento.
Egli, di tanto in tanto, era solito concedersi una dolce illusione: poneva a Sè stesso la fatidica DOMANDA AL CONDIZIONALE e si immergeva in un mare di vite altrui, immaginandosi un ruolo per ogni fase delle Sue nuove, innumerevoli esistenze oniriche.
Tutto ciò poteva durare anche per dei lunghissimi istanti, salvo poi concludersi ogni volta allo stesso modo: improvvisamente si ricordava chi e cosa era veramente ed emetteva il solito, laconico, sospiro.
"Sarebbe bello se qualcuno mi chiedesse cosa voglio fare nella vita..."
Ma Egli, semplicemente, non avrebbe potuto essere destinatario di tale domanda.
Perchè?
Semplice. Il terribile condizionale si sarebbe dovuto sviluppare in questo penoso quesito:
"Che cosa vorresti fare nella vita...se ne avessi una?"
Egli una vita non ce l'aveva.
Una torta è buona solo se non la mangi per l'eternità.
DIO NON HA UN INIZO NE UNA FINE.

martedì 5 luglio 2011

Il tema


Se gli avessero chesto "Cosa vorresti fare da grande?" Lui avrebbe risposto "Essere felice".
Era un ragazzinoa apparentemente come gli altri, ogni giorno si svegliava, faceva colazione, si preparava per andare a scuola, ci andava, poi parco giochi, cena, tv, letto e da capo. Erano le piccole cose che lo rendevano diverso, non gli piaceva sporcarsi quando giocava, schizzare nelle pozzanghere quando pioveva o guardare cartoni animati in tv. Lui preferiva i giochi in scatola, leggere un libretto e parlare con le persone, bambini e non.
Quando a scuola gli dissero la traccia per il tema, pensò che fosse facilissimo: cosa vorresti fare nella vita? Beh poteva cavarsela in fretta, e poi nel tempo rimanente fare una passeggiata in giardino, mentre gli altri finivano di scrivere, o andare a parlare col bidello, che sapeva un sacco di storie interessanti sulla scuola.
Però, appena consegnato il foglio con le poche righe di risposta, anzi, appena la maestra lo lesse, capì che non sarebbe andata così. La maestra cominciò a chiedergli se c'era qualcosa che voleva dirle, se a casa ci fossero stati problemi; dopo un po' arrivò anche sua madre, e sentì che cominciarono a tempestarla di domande.
Lui non capiva il perchè di tutto quello, gli sembrava così ovvia la risposta, anzi, gli sembrava strano che nessun altro avesse scritto la sua stessa cosa! Sentì ceh dissero a sua madre "Non è la risposta che darebbe un normale bambino di 8 anni". Già, normale come tutti i futuri calciatori/ballerine che stavano in classe con lui. I giorni seguenti spezzarono la solita routine, andò spesso a trovare un certo psicologo. Gli piaceva. Era piacevole parlare con lui, anche se faceva un po' troppe domande, e solo perchè aveva scritto un'ovvietà sul tema, una cosa che vogliono tutti di sicuro. Non capiva perchè a fare e dire ciò che si vuole si alza sempre un polverone.
Forse era ancora troppo piccolo per saperlo.

Un secondo tra cielo e acqua e non c'è tempo per la terra

Se mi avessero chiesto "cosa vorresti fare nella vita?" avrei risposto con un sorriso vuoto, per evitare una domanda a cui non avrei voluto, o per essere sincero, non avrei saputo rispondere. Come sempre.

Cosa significa d’altronde, FARE? Cos’è abbastanza per essere un fare e cosa non lo è? Quali le variabili? Uno stipendio? Una sicurezza ostentata? Oppure cose come una macchina sempre con il pieno di benzina, tirata a lucido, cabriolet, la scopata del martedì con la ragazza che smista le lettere al quarto piano, un divorzio sulle spalle, un bel sigaro sempre nel taschino, un cane di razza, un completo su misura, una padre orgoglioso di te, una madre che ti invita la domenica a mangiare un piatto di risotto con l’ortica, gli amici che ti danno le pacche sulle spalle, un bel salotto, un bel televisore, una chitarra appesa al muro, una pelle curata, pulita e ben rasata.

Niente di tutto ciò fa parte della mia vita. Faccio i tuffi.
Ho il mio quarto d’ora di gloria di tanto in tanto, ogni 4 anni, se non ho la spalla lussata, un trauma cranico da gestire, tendiniti infiammazioni...
E’ il tempo delle olimpiadi. Un tuffo, un’evoluzione compiuta nella porzione di mondo tra acqua e cielo. Un secondo e qualche briciola di centesimi sparsi, presi allungati e stirati su 4 lunghi anni di allenamento spesi per lavorare la coreografia di quel piccolo, insignificante secondo.
Quattro anni Fanno 1460 giorni. Centoventiseimilioni e centoquarantaquattromila secondi per un uno di essi. Sono cose che non hanno alcun senso lo so. Si camuffano dietro parole come soddisfazione personale, agonismo, ricerca della perfezione, edonismo.
In realtà è un cul de sac. Certo tutto comincia da un varo in un lido dorato…l’entusiasmo, la voglia puerile di mettersi in gioco. Poi Nulla. Diventa una droga. Ma scordatevi, viaggi, trip, visioni, allucinazioni, colori, suoni. E’ una cosa da cui non puoi allontanarti. Qualcosa che ti stacca dalla realtà. Che farei se non potessi fare i tuffi?
Non ho studiato.
Non so fare nulla.
Non ho l’età per mettermi in gioco.
Il mestiere di mio padre mica l’ho imparato.

Ci posso provare. Ad uscirne. Ci ho provato. Niente, è sempre un pugno, di ferro, che ti arriva sulla bocca e ti spacca tutti i denti.

No.

Bisogna rimanere un semiprofessionista. Restare sulla bocca di molti per poco tempo, il tempo di arricchire il medagliere di una nazione. Poi diventi un qualunque.
Una testa di cervo attaccata al muro dei trofei di caccia.
Anzi.
Sei destinato all’armadio, la parete è per le teste d’orso, di caribou o per le manguste impagliate.
D’altronde è solo un secondo.
Un secondo.
Un secondo di merda.
Tra cielo e acqua.
Un secondo. Stai li e da qualche parte del mondo un uomo annoiato in canottiera e mutande è davanti alla televisione, perché non ha di meglio da fare, perché un commentatore con la voce piatta come una giornata di nebbia, ti annuncia “tra poco un atleta azzurro sul trampolino”. E l’uomo in canotta li ad aspettare, cazzone e nullafacente, ma che ti scaricherebbe per una pisciata. Se solo le birre ingurgitate fossero 3 e non 2.
No.
Non ci siamo.
Non vale gli slip idrorepellenti che indosso.
Non che mi meriti di più.

E adesso?
Adesso sono vecchio. 43 anni. Istruttore comunale.
La barba non me la taglio più. La mia macchina è un letamaio. Mio padre prova pena per me. Mia madre prova pena per suo marito che non si da pace per il suo unico figlio.

Ma oggi sono qui. Per ritornare. Con la bocca sanguinante e i denti spaccati. Un nuovo salto. Un nuovo record. Una scogliera.
Qui si scrive la storia. La mia per lo meno. Sento le gambe che mi tremano, anche se sono immobili. Il vento che mi accarezza la barba.

Sono 55 metri.

Oltre i trenta un tuffo mal eseguito trasforma l’acqua in ghiaccio.

Non sono queste cose a farmi paura.
Non sono queste cose a farmi paura.

Gary Patrick. 39 anni, 55 metri.

Rob Massaloni 44 anni, 52 metri.

Allan Oberhofer 40 anni, 48 metri.

Lo hanno fatto loro. Lo posso fare anch’io. Non sono i mesi sulle spalle o i metri sotto gli alluci.

E’ la paura di non riuscire, di fallire, di sbagliare, di ricevere uno schiaffo e non un bacio all’acqua salata.

Dio no.

Sento le gambe che mi tremano, anche se sono immobili. Il vento che mi accarezza la barba.

Quella barba che voglio radere, quel costume idrorepellente che voglio bruciare, quella macchina che voglio rottamare. Voglio pacche sulla spalla, voglio una moglie da cui divorziare che mi importa!
Devo saltare. Devo riuscire.

Fallire significherebbe morire.

Dentro. E forse non solo.

Va bene.

Fuori l’aria dai polmoni.

Un passo.

Quella sensazione. Tra cielo e acqua.

Ancora.

Sono nel vuoto.

La traduzione perfetta


Se gli avessero chiesto “cosa vorresti fare nella vita?” Lui avrebbe risposto senza dubbio “il traduttore”. Sin da bambino aveva mostrato interesse verso le persone che parlavano una lingua diversa dalla sua. Durante tutta la sua crescita, ogni volta che incontrava per la strada qualcuno che parlava “strano” si fissava a guardarlo, e più la lingua era incomprensibile ma musicale, più se ne innamorava. Decise così di studiare tutte le lingue del mondo, per poterle capire e padroneggiare. Ci riuscì, divenne talmente bravo che ogni consolato voleva che lui lavorasse per loro, il miglior traduttore sulla faccia della terra. Passava rapidamente da una telefonata con il re di una popolazione sudafricana al rappresentante dei monaci tibetani, senza fare una piega. Proprio mentre pensava di potersi dire completo, si accorse che di una popolazione ancora non conosceva la lingua. Si dimise subito da tutti i suoi lavori, aveva bisogno di calma e concentrazione per questa sua ultima, ardua impresa. Si mise a seguire alcuni di loro, solo per ascoltare il suono delle conversazioni. Com'era melodico ed interessante! Nonostante questo non riusciva a capire una parola di quello che si stavano dicendo. “È impossibile!” si disse, fra sé e sé. “Io conosco tutte le parole, di tutte le lingue del mondo e questa, che è la più bella, non mi è dato di comprenderla?”. Più tentava di parlare quella lingua, della quale ancora non aveva capito le regole sintattiche, più quel popolo lo allontanava. Il pensiero che quella lingua fosse casuale, inventata, senza filo logico lo aveva sfiorato più volte, subito però si era ricreduto. A volte sembrava un pazzo, inseguiva delle persone gridando loro parole ragionate per mesi, che poi non sortivano alcun effetto. Poi un giorno, ormai preso dallo sconforto, disse la prima cosa che gli veniva in mente ad una ragazza passante, che gli sorrise. Ecco! Aveva trovato una parola! La conversazione andò avanti per un po', lui non capiva nulla di quello che lei gli stesse dicendo e non sapeva nemmeno se stesse comunicando effettivamente tutto quello che aveva in testa. Quella ragazza gli piaceva molto. E adesso? Come dirglielo? Continuò a parlare senza freno, ogni tanto lei sorrideva e sfuggiva il suo sguardo. Lui si fermò di colpo, smise di parlare.
Lo scatto fu fulmineo, come quello di un arciere che prima studia attentamente la sua mossa e poi la compie in una frazione di secondo. Si mosse velocemente e la baciò, con la foga di un bambino, ritraendo subito le labbra una volta compiuto il rapido gesto. Rimase a guardarla con lo sguardo che si ha quando si lancia un petardo, che, seppur lanciato volontariamente, nessuno vuole sentire scoppiare. Riaprì lentamente gli occhi, vide che lei non era sconvolta da quel suo agire, anzi, era rimasta ad occhi spalancati, pareva che pensasse. Iniziò ad avvicinarsi lentamente alle sue labbra, il profumo che emanava lo inebriava a tal punto che un brivido gli percorse per il lungo la schiena. Appoggiò le candide e morbide labbra a quelle di lui, passandogli una mano fra i capelli, fino ad appoggiarsi sulla nuca. Lui aveva ancora le braccia distese lungo il corpo, la passione di quel gesto l'aveva immobilizzato. Chiuse gli occhi e, mentre la chimica pensava al resto, si rese conto che non tutto quello che viene astratto dal nostro cervello ha una traduzione verbale. Quella silenziosa comunicazione permetteva a loro di capirsi perfettamente. Lui era nei pensieri di lei e lei di lui. Sorrise. Quella era la migliore traduzione di tutta la sua vita.