L'incipit della settimana

ELABORATO TESTUALE DI TOT PAROLE: "L'antico vaso andava salvato"
STRINGA AUDIOVISUALE DIGITALE PROVENIENTE DA QUALCHE SERVER: "Youtube"
RETTANGOL CARTPLASTIC CONN'IMMAGIN STAMPAT QUAS BEN:"Perdita di tempo"
Ctrl+c, Ctrl+v, STAMP-E-PORT-LE-FOGL:"Glutammati sto sodio"

martedì 21 dicembre 2010

a tutti i non partecipanti...ovvero tutti

Vieni anche tu alla mia festa? Mamma ha noleggiato anche un clown!

Disse il bimbo saltellando, scarponcini nuovi per il suo ottavo anno di età, capelli un po’ arruffati e biondissimi, qualche goccia di fango sulle ginocchia e una magliettina a righe bianca e rossa che già sfrecciava dall’altra parte della strada, lasciando una nuvola di polvere dietro di sé e un vecchio dall’aria un po’ stanca e dal sorriso malinconico. Lo osservò fare tutti i suoi passi correndo all’impazzata, aprire il cancello bianco entrare in giardino urlando e saltando accerchiato da una miriade di bambini e poi vide quel fantomatico clown. Con fare tranquillo anche un po’ svogliato soppesò tutti i suoi passi prima di avvicinarsi a quelle urla indistinte. Sapeva che non doveva farlo, sapeva che infondo ogni passo era un passo in più verso la perdizione. Eppure il suo corpo continuava ad avvicinarsi, curioso, voglioso di partecipare a quell’invito. In fondo era solo un semplice invito del suo piccolo amico, avrebbe avuto la scusa per salutare sua mamma, era molto che non la vedeva. La sua mente cercava un pretesto per aprire quel cancello maledettamente bianco. Odiava il bianco, l’unico colore che aveva la pretesa di essere puro, perfetto, di avere in se tutti i colori e nessuno. Se sei composto da tutti i colori come puoi pretendere non solo di essere migliore degli altri ma addirittura superiore, candido, trasparente, con tutti quegli animi dentro di te?!

Oramai era ad un passo, un sospiro e il cancello si aprì. Un’orda di bambini urlanti lo assalì, tirandolo per la giacca, per i pantaloni, chiedendogli di partecipar ai nuovi giochi, alla partita di calcio improvvisata.. per qualche minuto il coro dei bimbi fu unanime e solo una parola ne usciva, mister mister! Mister guarda che evoluzioni con il pallone so fare, no mister guarda le mie scarpe nuove per la partita di domenica!!

La sua testa cominciò a roteare, la voglia di fuggire da se stesso e da quel luogo era molta. Era stato un errore entrare. Un maledettissimo errore. Si guardava intorno spaurito come se i suoi pensieri fossero trasmetti in contemporanea via autoparlante. Cercava fra la festa timoroso, come uno di quegli scolaretti dopo una sonora sgridata della mamma, gli occhi degli altri adulti. Più cercava, più la paura di incontrarli saliva. In realtà ogni volta che un adulto gli si avvicinava erano solo parole gentili, sguardi benevoli, sorrisi disinteressati. Doveva trovare una scusa per sfuggire a tutto ciò, prese il bimbo, il bel bimbo di ormai otto anni compiuti, portò la sua esile manina nella sua via dagli altri, dalla confusione. Si abbassò, inginocchio quasi per guardarlo occhi negli occhi, occhi vecchi e sporchi di fronte ad occhi nuovi, verdi, lucenti, quasi spiritati dalla luce. Gli sfiorò il viso, candido come la neve, perfetto, le sue braccine esili ma così energetiche, il suo sguardo calò verso il ventre, le gambe, le perfette gambine da giocatore, le calze, le scarpe per poi tornare su di nuovo...

Scarpe, calze, polpacci, ginocchia, coscie...no no..

Lo guardò dritto negli occhi e susurrò “non posso”

Ci fu un attimo di silenzio, gli occhi del bimbo chiari e lucenti con un’aria un po’ smarrita. E poi in gridolino che si fa voce “ ma se anche non hai il regalo puoi stare qui lo stesso, la mamma m ha detto che non sono i regali la cosa importante!”

Un sorriso disarmante, l’uomo gli accarezzò la testa e disse, “ scusami piccolo mio ora devo proprio andare”

Stava per alzarsi quando il bimbo lo abbracciò stretto.... “ uffi mister! Grazie cmq di essere venuto. Ci vediamo domenica alla partita! Ti voglio bene mister!”. L’uomo si alzò e un brivido gli percorse tutta la schiena.

lunedì 20 dicembre 2010

Al ballo mascherato


"Vieni alla mia festa? Mamma ha invitato anche il clown!"

L’ho mandato a tutti, credo. Ormai è una prassi: da ventisette anni che mamma il 23 novembre m’obbliga al divertimento festeggiativo dei miei anni (ricorrenza che cade il 27 novembre). Ogni 23 l’invito forzato: sempre le stesse parole: "Vieni alla mia festa? Mamma ha invitato anche il clown!".Non so perché, ma mamma è affezionata a questo rito, a queste parole, ai clown che si ruotano annualmente alle mie feste. Lo preferisce ai pranzi di natale e pasqua, al suo compleanno e a quello di papà. Si sono figlio unico. La sudditanza al volere materno domina la mia vita: timidi tentativi di ribellione, almeno di fronte al rito pagliaccesco, gli ho avuti percorrendo l’età post adolescenziale sentendomi ridicolo di fronte ai party dove alla parola limonata non era associata una bibita. Ho cercato di spiegare a mamma che orami sono grande, ho un lavoro sudato sui libri, che preferisco il bicchiere di vetro di un anonimo bar che i nominali bicchieri di plastica. Ma nulla più. Solo vigliacche e pavide parole. Ora,in procinto del mio ventisettesimo compleanno, mamma sta male, forse, dicono, è uscita pazza. L’amore subordinato a tale persona non mi permette di fare null’altro che uscire, andare dalla Gigia (la tabaccaia del quartiere), comprare una trentina di stupidi biglietti con stampate sopra immagini di palloncini e trombette, per trenta volte scrivere le stesse identiche parole con le relative coordinate e poi, con sorte, farle recapitare ai destinatari, che rigorosamente si riducono di anno in anno. Già proprio così. Ma l’idea della derisione, per fortuna, è stata sostituita da una nozione di bizzarria e di comicità: alla fine potrebbe essere un rito che potrà trascendere la storia, una consuetudine che diventerà religione (della quale i fedeli saremmo solo io e mamma!). Ma insomma! A me va bene così: mamma è felice, per me è un occasione per farla felice! .. e poi..e poi..c’è la speranza di rivedere Claudio.

Ok. Se si vuole guardare all’onestà come una resa della verità, allora mi dichiaro onesto; se invece l’ onestà richiede l’aggettivo 'Tutta' antecedente al sostantivo 'Verità', allora ammetto la mia disonestà. Che dir si voglia non sono stato intermente corretto: l’amore per mia madre e l’amore per Claudio mi ricreano fan della mia stessa festicciola.


Accostamenti di bianchi e neri, interstizi, disegni criptati: le parole nascono dal contatto sofferto dei polpastrelli con i centimetri quadro della testiera. Solo l’unione del mezzo le rende creatrici, prima cosa sono? Idee? Pensieri? Particelle? Radici di capelli? Pidocchi? Usualmente non scrivo mai per me: la pesca m’ha sempre annoiato. Eppure vendo, compro e mangio pesce. Attratto specialmente dal maledetto, dai tratti fumosi, le barriere erette da barba e capelli scomposti manifestano la mia inadattabilità ad un mondo che s’è sporcato del mio parto. Ciò mi rende speciale, unico, differente; e pronte a ricordarmelo solo le notti solitarie dove il moto forzato dei passi si trascina calpestando martoriati bolognini. La gente è stupida: s’accontenta di un sole quando di notte, là su, ce ne sono appiccicati infiniti. Questo sono io, Claudio. O meglio ero io, Claudio. Ora non so. Ieri Luigi, la sua pazzoide mamma, i palloncini colorati ripercossi dal tempo, la mia egoistica incapacità di dire ‘no’; ieri un sorriso di un clown contenitore di una saggezza diversa; ieri la conoscenza di un frutto non appartenente alla biblioteca del pessimismo.


Lei era colorata, sempre. La sua casa era un esplosione di specchi riflettenti ilari risate, un crogiuolo di serenità depositate in tutti gli origami,una fioriera di gioie in ogni colore. Di fronte a una delle tante superfici riflettenti Ludovica si preparava a regalare sorrisi: cera bianca lungo il viso, rosso ridicolo intorno alla bocca, capelli giallo mistificato, cappello ospitante fiore pendente. Si stava dimenticando il naso, il respiro tondo e arruffante. Rosso per l’appunto. Se lo pose..ed ecco. Era pronta; era sempre pronta: nonostante non facesse uso di orologi era sempre puntuale, in orario con il fiato che la felicità aveva deciso di donarle. Da anni Ludovica aveva capito che la vita è una scelta. E lei aveva scelto: aveva deciso di essere felice, di lasciare lo schiavismo spugnoso della sua generazione, di non accettare l’eredità umana dedita all’autodistruzione. Era diventata clown, per lei e per tutti gl’autisti di autobus che le rispondevano con un accenno al suo "Buongiorno!". Gl’indumenti goffi non le impedivano movimenti leggiadri e Ludovica avanzava scherzava rincorreva e aspettava. Un due tre. Saltellava sui gradini pre ingresso di casa, suonava in una dolce melodia il campanello. "Salve! Salve!Mi mi è è arrivato arrivato un un invito invito alla alla festa festa!! M’hanno detto detto che che c’è c’è anche anche un un clown clown!!". Entrava. Guardava. Osservava le facce: un po’ tirate, un po’ buie, un po’ fintamente allegre. Osservava colui che probabilmente era il festeggiato indaffarato nell’eseguire gl’ordini materni e impaziente di uno sguardo del bellissimo ragazzo con la barba. Ludovica decise di fare una cosa: sorridere.

martedì 16 novembre 2010

l'uomo degli incroci

Uscì di casa alla solita ora. Non sapeva però che da lì a 20 minuti sarebbe morto investito dalla Panda Young verde Alpi dell’88 di padre Antonio. Si tratta del suo primo giorno da non fumatore. Quella mattina non comprerà il solito pacchetto di Diana blu al solito tabaccaio di via San Paganino. Questo lo farà arrivare con 3 minuti di anticipo all’incrocio in cui il suo parabrezza farà la conoscenza di Augusto Serpieri facendo carambolare quest’ultimo mortalmente sull’asfalto. Spegni la sigaretta e accendi la vita.
Torniamo al momento in cui Augusto Serpieri esce di casa: meno 20 minuti. Augusto lavora per lo stato. E’ l’uomo degli incroci semaforici (sempre più rari con il dilagare delle rotonde tipico degli anni 2000). Augusto semplicemente si porta nei pressi di incroci non dotati di semaforo (talvolta anche in quelli gia semaforati ma bisognosi di una nuova temporizzazione) apre il suo tavolino da campeggio dotato di sgabellino e osserva il flusso del traffico, appuntando lungo tutto l’arco della giornata la portata dello stesso. Questo per 2-3 giorni (anche 4-5 per gli incroci più complicati) per poi trasferirsi in ufficio per altrettanto tempo a simulare su potenti computer nuove tempistiche semaforiche al fine di ottimizare il deflusso dei veicoli. Sono sicuro che nella vostra vita avrete almeno una volta notato uno di questi individui che prendono appunti a bordo strada in prossimità di incroci.
Augusto potendo preferisce muoversi a piedi. Quella mattina l’incrocio che necessita delle sue perizie è a soli 30 minuti da casa sua. Andrà quindi a piedi come tanto adora. Prende il suo tavolino da camping valigiabile e si dirige verso l’incrocio il quale è stato già all’attenzione dei suoi studi per I 5 giorni precedenti. Normalmente mai vi si recherebbe per un sesto giorno, ma questa volta ritiene di dover appuntare altri dati sui flussi ( Augusto è una persona decisamente meticolosa). Meno 15 minuti ed eccolo all’angolo tra Corso Albert Fish e via Ted Bundy. Un incrocio perfetto in cui il traffico di punta scorre fluido e veloce. Scambi semaforici celeri, temporizzati con timer variabili in base alla fascia oraria. Un capolavoro firmato Augusto Zampieri. Come non fermarsi ad ammirarlo per un intero ciclo…meno 8 minuti… Augusto si incammina nuovamente. Passa davanti alla chiesa Santa Sonia Caleffi. Meno 6 minuti. Intanto Padre Antonio è più nervoso del solito…E distratto alla guida, sente il richiamo della nicotina..Arriva all’incrocio tra via San Giacomo e via Maria Addolorata. Per il seminario sempre dritto fino all chiesa dedicata a santa Sonia Caleffi. Per le sigarette a sinistra, cento metri in via Maria Addolorata e poi a destra in via san Paganino. Merda. Non poteva già cadere in tenazione…deve resistere…Poi è in ritardo, non farebbe in tempo..ma si può farcela, rapidità. Quattro frecce davanti al tabacchino, dentro, il solito pacchetto, e di nuovo in strada…meno 3 minuti. Fanculo. Mette la freccia, la panda parte sgommando direzione sigarette. Parcheggia l’auto scende. Meno 2 minuti.
Intanto Augusto Serpieri si dirige verso l’incrocio su cui dovrà lavorare. Meno un minuto.
Padre Antonio risale in auto, Diana blu alla mano, giro di chiavi indice destro a schiacciare l’accendisigari, parte sgommando.
Augusto Serpieri passa davanti al suo fruttivendolo di fiducia. Lo saluta.
Zero. E’ ancora vivo per ora.
Padre Antonio avvisato da un secco rumore capisce che l’accendisigari è caldo. Lo estrae, stacca gli occhi dalla strada e si accende la sigaretta. Riporta gli occhi sulla strada. Una vecchietta non curante del mezzo a folle velocità attraversa la strada.
Augusto Serpieri pensa a come sia freddo l’inverno quest’anno ha un tremore.
Più 1 minuto.
Padre Antonio spinge il freno con tutte le sue forze... Preso dalla paura chiude gli occhi, e le sue labbra si Serrano con forza sul filtro della sigaretta appena accesa ma non ancora assaporata..La macchina si ferma. Apre gli occhi. La vecchietta è a 30 cm dalla macchina e continua ad attraversare come se nulla fosse.
Cazzo. Pensa l’uomo di chiesa…riparte scosso con le ginocchia che tremano. Fa un tiro profondo di sigaretta…lo rilascia. sente il fumo partire dale profondita dei polmoni. La nicotina lo calma, ritorna in se.
Che stronzata pensare di smettere di fumare.
Più 4 minuti.

otto e venti

Uscì di casa alla solita ora. Non sapeva pero che da li a venti minuti sarebbe morto.

Indossava dei vecchi jeans strappati sul retro, e non esprimeva nessun giudizio sulla morte.

Aveva da poco acceso un sigaretta con il mozzicone dell'altra, e pensava alle donne di Tolstoy.

Aveva le braccia lunghe, sproporzionate rispetto al busto e le faceva ondeggiare seguendo il ritmo del passo.

Erano le otto di una mattina senza colore.

Prestava poca attenzione al risveglio, cercava di prolungare l'amaca onirica.

Era alto, e fino. Tutto proteso verso il cielo.

Lesse l'ora e accelerò il passo.

Otto e cinque. Due isolati, la salita e l'arrivo.

Otto e sette. L'aria punge, riempie il polmone e rilascia il fumo.

Otto e dieci. Accende l'mp3, paolo conte ma nessuna giarrettiera rosa all'orizzonte.

Otto e tredici. Sguardo basso tra le linee del granito e l'aritmetica della cenere.

Otto e quindici. Nessun pensiero raccolto. Velocità accelerata solo fisica.

Otto e diciassette. Il mondo è monocromatico, tendente all'ocra.

Otto e venti. Lo stridulo acuto dei freni non blocca l'impatto brutale di un auto sulle sue anche.

Era alto, e fino. E ora tutto proteso verso il suolo.

La morte arriva con l'eleganza propria di che è invitato ad un occasione speciale.

Allarga le braccia e si china sul corpo del ragazzo.

Caronte è in ritardo e spetta a lei capitanare il traghetto.

La morte entra in una galleria di tristezza. Distende il viso pieno di ruggine e si prepara agli insulti del ragazzo.

“ e dunque sei tu vecchia lamiera, la morte che tanto gli uomini temono?” incalzò l'anima del ragazzo.

“non posseggo un volto, ma solo le immagini e il piumaggio che mi vengono assegnati” risponde la morte clinando il viso alla luce.

“ perchè sei arrivata ora? Quando il mio corpo era libero da rantoli malati?”

“ io seguo i comandi di un padrone privo delle conoscenze della fisica molecolare.”

“ dove mi porti?”

“ dove tu pensi di essere assegnato?”

“ vorresti dirmi che dovrò fare un bilancio delle buone azioni e delle malefatte?”

“no il giudice sommo non sono io. Io sono solo la più tagliente nemica dell'uomo.” risponde amareggiata la morte.

“già.. perchè arrivi senza essere chiamata? Strozzi ruscelli di vita, germini nel dolore degli uomini, giochi a dadi con i destini, e ti incarni in azioni brutali. Perchè neghi l'eternità dei movimenti?”.

La morte si aspettava la rabbia del ragazzo , ondeggiò, si aggrappò al silenzio e dopo alcuni minuti rispose: “ Ricevo imprecazioni in ogni istante, vengo aggredita e temuta, sono graffiata di illusioni tagliate. Sono il boia più arido d'amore. L'asfissia dei sentimenti. La miopia della pietà. Eppure io non sono altro che sorella della vita. Io solo accompagno, riassegno nuovi ruoli alle anime, e le posiziono nelle loro percezioni spirituali.”

Il ragazzo prova tenerezza per quella vecchia, ricurva sulle sue inconsistenze. Avanza di qualche passo e le bacia il volto.

Il ragazzo: “ dai, andiamo.”

La morte riemerge da se stessa e piange di un caldo dolore, trattenedo assetata l'orlo di quel breve tocco.


martedì 2 novembre 2010

Sayonara papà

“Sayonara è la settima parola più usata al mondo. Assolutamente assolutamente..Non credo che a Tampa sentiranno la sua mancanza…assolutamente.”
“Cazzo papà sei proprio andato…pronto???papààà!! mi senti è pronto in tavola!”
“Lettere di Abelardo ed Eloisa…Si si Herman Hesse…Peter Camenzind..no no è Abelardo stesso fatemi controllare illustri colleghi..”
“Dai non essere così duro con lui…dai papà vieni…”
“Loretta si si scusa…lo so ma dovevo sposare A-anna ti ricordi?”
“ Sono tua figlia Giovanna, papà…dai di qua bravo, andiamo a tavola”
“Nostro padre è perso fottuto cazzo, non so nemmeno perchè torno ogni anno..con tutto il lavoro che ho da sbrigare…”
“Non tirare in ballo il lavoro…tu sei tutto l’anno in Germania…la mamma è morta. Ci sono solo io…la mia vita è prendermi cura di lui.”
“Non farmi sentire in colpa…è il mio lavoro! E comunque ogni fottuto anno sono qui no? quindi non rompermi le palle”
“Non bisogna urlare questa è una biblioteca…prendete un buon libro…due? Forse? Si il regolamento lo permette…io andrò per mare…”
“Ma stai zitto un attimo…madonna! Spero di morire prima di diventare così idiota…cazzo papà possibile? Sempre peggio…”
“Shh,dai…papa guarda…minestra con il pomodoro con la pastina, anche se il dottore te l’ aveva vietata…ma per il tuo compleanno…sei contento?”
“Contento di che? potrebbe mangiare merda dalla mattina alla sera..perso com’è…”
“Figlio…”
Un momento di lucidà, un flash, una luce, uno spiraglio…Giosuè Sartori, 93 anni oggi, ex professore illustre in diverse università di prestigio, cerca di aggrapparsi a questo attimo…La sensazione è come quella di riemergere dopo un’apnea al limite dell’implosione polmonare e trovarsi aggrappati ad una boa in mezzo all’oceano in tempesta.
Il vento ti schiaccia.
Le onde non ti fanno respirare.
Le profondità dell’oceano ti richiamano.
Non c’è equilibrio, non c’è un punto d’appoggio…L’impeto delle acque che ti sballotta in tutte le direzioni… Solo un momento di debolezza…e l’oceano ti riprenderà…quindi lotta. Con tutto il tuo corpo.
Così Giosuè, combatte. Finalmente vede dai suoi occhi. Capisce…distingue allucinazione da realtà..sente il delirio con cui vive ogni ora del giorno e della notte che lo rincorre per riprenderlo…sente la pressione di situazioni e personaggi paradossali che lo desiderano, per giocare e parlare con lui. Persone che sono morte e persone che non sono mai esistite…scenari e situazioni che cambiano in maniera paradossale e assurda…un carosello onirico di psichedelia, un carnevale di follia e delirio amaro..incontrollabile, ingestibile e pronto a travolgerlo. Vuole scappare da tutto questo…vuole sfruttare questa finestra di lucidità prima che si chiuda..si aggrappa alla boa in mezzo all’oceano..si aggrappa a quell “figlio”..mentre, per le gambe, lo tirano verso l’oscurità le sue allucinazioni…
“figlio…”
Ce la può fare.
“…devi capire..io…per me 5, sul numero 7. Boston? Qualcuno dovrà occuparsene. Sono molte ore di volo..Avete un servizio arretrati?Loretta?”
“sei proprio andato papà…”

LE CIMITIERE DU PERE LASCHAISE


Sayonara è la settima parola più usata al mondo.

Monsieur Forleain sfogliava il dizionario giapponese con l'attenzione propria di chi ama il fruscio e il profumo delle pagine ingiallite.

Ogni mercoledì si recava al cimitiere du Pere Laschaise per curiosare tra lettere e codici di dizionari e enciclopedie. Amava la culla che gli riservava quel posto raggiungibile a soli pochi passi dall'uscita della metro.

In quei pochi passi sceglieva quale viso tener fotografato nella mente di quelli che avevano abitato la metro pochi istanti prima. In quella luce traditrice, gli sembravano tutti possessori gelosi di grandi storie. Quel giorno scelse il viso bucato di un'africana. Le piaceva la rigidità obliqua con cui leggeva il giornale.

All'entrata del cimitero, parcheggiava i rumori di Parigi all'esterno delle mura e si apprestava alla passeggiata tra i respiri pesanti dei luminari defunti.

Per lui, la pratica di recarsi al cimitero era più di un rito, si trattava di seminare e raccogliere

. Quel cimitero era oggetto di una devozione infinita per monsieur Forlain perchè corrispondeva esattamente all'idea di cimitero che è depositata in ognuno di noi: tetri gatti neri, silenziosi e incappucciati passanti, il cielo di fumo, e del grigio spennellato ovunque.. nonché i labirinti di sepolcri accasciati, gli scalini di ghiaia e gli spettri sibilanti dei morti.

Monsieur Forleain era un seguace di Platone, e qundi della necessaria corrispondenza del concreto ad un'idea.

E quel posto gli si incastrava tra le pareti cuore.

All'entrata salutava velocemente l'amato Proust e il grande Balzac, salendo qualche scalino raggiungeva Chopen. A volte pensava di poter udire il suo pianoforte ribellarsi alla sua morte. Allungandosi tra le piccole stradine raggiungeva il composto e sarcastico Oscar Wilde e il soprano Maria Callas, e poi poco più in su la melanconica Edith Piaf.

Raggirava con destrezza il sepolcro di Jim Morrison, lo considerava volgarmente profanato, riservato alle sole preghiere di qualche spinello.

La meta era la tomaba di Amedeo Modigliani, per poter sentire il contatto con le sue mani congiunte e i suoi colli allungati.

Monsieur Forlein si arrabbiava per la poca cura nella collocazione del grande pittore, posizionato nel mezzo di lapidi ignote che non gli rendevano giustizia. Ma poi si calmava nel pensare all'umiltà che contraddistinse Modì per tutta la sua vita. E pensava che dopotutto lì in mezzo, lui stava a suo agio. Lo stesso agio che provava nel buttar giù bicchieri di rosso e nell'aggredire le tele.

Poi lui aveva il privilegio di aver al lato destro la sua consorte dormiente Jeanne.

Le date della loro morte, differivano di un solo giorno. Lei si suicidò il giorno successivo della morte di Modì. Jeanne non sarebbe stata in grado di vedere il suo amato solo attraverso i quadri.

E così monsieur Forlain si sedeva con sommo rispetto in mezzo ai due corpi silenziosi, disponeva al suolo i suoi dizionari, e si curava dei suoi pensieri. Quel mercoledì si sarebbe dedicato al giapponese, non perchè avesse un particolare interesse, ma perchè la curiosità si impossessava di lui senza indicargli direzioni primarie di studio.

Ciò che amava di più era scorrere l'indice alfabetico con il ditone. Sceglieva una lettera e studiava con meticolosità tutte le formazioni delle parole con quella iniziale. Si annottava in un libricino le parole di cui si innamorava.

Scrisse la prima sayonara, era un suono piacevole per un arrivederci.

Nella nota richiamata lesse che non aveva lo stesso significato di un nostro comune arrivederci che ignora l'augurio della parola, in giapponese sayonaria è una promessa reale, di un vedersi prossimo e sincero.

Mosse il dito poco più in giù, selezionò setsuzoki ( connessione – contatto), shiai ( contrapposizione) e shin ( anima). Il numero delle parole selezionate variava di settimana in settimana. Lui le fissava per poter creare dei collage, per inserirle nel reparto giusto del suo cervello.

Il tempo stava per scadere, non avrebbe acceso nuovamente le ire del suo datore di lavoro, e i suoi ritardi erano leggende tra i colleghi. Raccolse il materiale, salutò quelle anime compagne sotterranee, e si incamminò a passo veloce verso l'uscita.

Monsieur Forlain era un anonimo cartellino da timbrare regolarmente in un'anonima azienda di prodotti surgelati, a montparnasse. Non avrebbe mai potuto riposare al cimitiere du Pere Laschaise, perchè lui non era dottore in nessuna scienza, perchè a lui non sarebbe mai stato riservato nessun riconoscimento, perchè lui era solo capace di friggere patatine destinate ad essere surgelate sotto i tetti parigini. Per questo le sue ore al cimitero le ingoiava come un segreto, non si sarebbe mai permesso di sfidare il sistema classista dei suoi anni. No.No. Lui non ne sarebbe mai stato capace.

lunedì 25 ottobre 2010

9 mondi possibili

9 Mondi possibili

Il fatto
Finii di mungere l'ultima vacca e tornai al casale. Entrai in casa, salii le scale, varcai la soglia della camera da letto e strangolai nel sonno mia moglie.


Dolce stilnovogico
Tosto finii di mungere la dolce signora
E verso il casal mi diressi mia dimora.
Nel mezzo della notte mi ritrovai in pensieri oscuri
Che la retta via era smarrita.
La mia donna mi guardava inorridita
E fu allora che le tolsi la vita.
Mi serve un’altra donna schermo.
Cazzo.

Stoicologico
Finii di mungere l'ultima vacca e tornai al casale. Tutto mi era chiaro ed era quello che volevo. Entrai in casa, salii le scale, varcai la soglia della camera da letto e strangolai nel sonno mia moglie. Ah si, e poi mi tolsi la vita. Ah ah ah.

Lsdologico
Finii di mungere l'ultima vacca e tornai al casale. Ma ecco che me la ritrovai davanti, lei l’ultima vacca appena munta e in piedi su due zampe. Mi disse” Senti bello, che ci pensiamo a fare? La troia su di sopra è l’unica vacca a non produrre latte. E’ ora di sbarazzarsi della puttanella…” Entrai in casa, salii le scale, varcai la soglia della camera da letto e strangolai nel sonno mia moglie.

Telegramm-prag-matico
Finita l’ultima vacca. Stop. Uccisa l’altra vacca. Stop


Studioapertologico
Dramma oggi nel veronese, dove un allevatore, munta l’ultima mucca, si dirige verso casa dove ammazza la moglie a colpi di martello. Molti, tra i compaesani si aspettavano il gesto folle dell’uomo. La confessione dell’omicida “il mio cane ha fatto 900 km per tornare al suo vero padrone”. Si vocifera fosse rumeno.
E ora parliamo di come un seno artificiale può, secondo uno studio canadese, ridurre l’effetto serra.

Pornologico (animal)
Finii il coito con la mucca e ancora eretto mi diressi verso il casale. Entrai in casa, salii le scale, varcai la soglia della camera da letto e con l’oggetto più duro che avevo sotto mano spappolai la testa a mia moglie. Poi mi resi conto dell’impossibilità di occultare l’arma del delitto.
Invertologico 1: personaggiologico
Finii di strizzare i capezzolini a mia moglie e mi diressi verso la stalla, apri il portone della stessa, entrai sul pagliericcio e macellai la vacca che tanto avevo amato. Mi mancherà quando avrò finito di mangiarla.

Invertologico2 :totalogico
Inizierò a mungero il primo toro e arriverò al grattacielo. Scenderò le scale mobili, entrerò in cucina e mia moglie mi strangolerà mentre sarò sveglio. Questa farà ridere.

Andiologico (chi tra i pochi potrà capire?)
Finii di mungere l'ultima vacca e tornai al casale. Entrai in casa, salii le scale, varcai la soglia della camera da letto e strangolai nel sonno mia moglie. L’avevo sacrificata in onore di Mauro Serio.


La vita è bella..

anzi bellissima.

Questa proposizione abitava la testa della ninfea in modo dilatato. Seppur conoscesse un frammento del mondo, lei il suo universo lo teneva tra gli occhi. Ed era felice tra le acque termali, i colori del fondo, i suoi pesci come bambole. Era una ninfa: la proporzione più azzeccata della natura. Si muoveva attraverso un corpo sinuoso e leggero, le sue labbra ricalcavano colline, il suo naso uno scivolo stretto e allungato, gli occhi come gemme di cristallo.

Giocava con le orchidee galleggianti, dialogava con le piante, piroettava sull'erba, respirava la vita con lunghe boccate.

Amava l'atmosfera onirica e surreale del suo orizzonte. La ninfa sorrideva e rideva, tutti i giorni, tra il canto delle cicale e il riso delle rane. Non pensava alla morte.

Lei pensava che della vita non si poteva far nulla, se non amarla e tesserne le odi.

Era da poche stagioni che partecipava al mondo. Era giovane, bella.

Nessuna aspettativa da soddisfare, nessuna rabbia per sfortune, nessun rancore.

Lei viveva nell'azzurro e non aveva la percezione del tempo.

Ogni tanto alla sua fonte passavano gli uomini, lei, bimba, li temeva. Si innamoravano di lei e la negavano alla madre natura aggredendo i suoi morbidi seni con mani unte, senza bellezza.

Non capiva degli umani il loro modo di essere attaccati a passioni infernali.

Le capitava di rado di scrutare tra le alghe un vecchio appoggiarsi alla quercia, pochi metri dell'acqua. La pelle del vecchio era di cartapesta, un mappa riassuntiva di numerosi giorni vissuti.

Se ne stava li' per ore a brontolare spicchi di vita.

Un giorno la ninfa decise di sfidare la sua paura degli umani e si avvicinò fino a sentire i sibili del vecchio.

“La vita è brutta, anzi bruttissima”

incominciò il vecchio

“due guerre attraversate, tre matrimoni falliti, troppa fedeltà al dio denaro, troppi rimorsi di mancati abbracci con i figli, solitudine e malattia. Il mio corpo lo ha divorato il cancro. La mia anima l'ha rubata la vita. Se solo avessi il coraggio del suicidio, buttarmi tra le acque per non sentire più i rumori. Sono stanco.”

La ninfa non si capacitava di quell'immensa tristezza e così si avvicinò ai piedi del vecchio, emerse dall'acqua e si rivolse a lui.

“ Mi scusi signore mi sa spiegare cos'è la tristezza?

Vede io non lo so, sono sempre gaia alla ricerca dei raggi di sole. Voi umani invece avete sempre le facce tristi, accartocciate di lamenti, insoddisfazioni, guerre e odio. Perchè signore?”

Il vecchio si irritò per l'interruzione. Quando si è soli si finisce col negare la bellezza di ciò che non si può avere. Ma la bellezza della ninfa lo aveva stordito, la dolcezza della sua voce gli rimbalzava ancora dentro a suoi vecchi timpani. E così rispose:

“ Che puoi sapere tu giovane creatura? Che poco ti curi del malessere umano? Te ne stai tutto il giorno tra il flusso delle acque, fuori dagli ospedali e dalle fabbriche. Vivi di sole bacche e di sola contemplazione. E' facile essere felici quando si sta lontani dalla realtà.”

“Mi dica signore,” lo incalzò gentilmente la ninfa,

“..non è forse mio diritto preferire il sogno alla realtà?”

Il vecchio si alzò di scatto, decise che non sarebbe più tornato alla fonte.

La ninfa si arrese dinnanzi alla natura umana, e tornò a parlare alle piante, a contare le stelle e a studiare le geometrie delle nuvole.


LA COMUNE




Finii di mungere la vacca e tornai al casolare.

La luce distribuiva spicchi di ombre grazie al sole che si ricongiungeva con l'orizzonte. Ciò avveniva tutti i giorni a quell'ora precisa.

Nella mia schiena risistemavo l'ordine della vertebre camminando verso la cena.

Sono sempre stato geloso del mio luogo, della sua sospensione nella campagna, del suo silenzio.

Della possibilità che mi lascia di leggere le stagioni.

Ho raggiunto il quarto di secolo, studente bolognese con voti alti, inventore del momento e antagonista ribelle al sistema borghese del consumo.

Coltivo le mie piante, che saranno verdura, pascolo le mie pecore, che saranno formaggio, mungo le mie mucche per la colazione, registro il rumore tra rami e nuvole, che sarà la mia musica.

Ho sposato questo casolare ormai da tre anni, con l'utopia masticata di creare una comune senza il ricorso dei supermercati.

Sono partito con poche cose insieme a tre compagni. Vennero stabilite regole precise, uno statuto ferreo sul regime comportamentale da adottare.

Il casolare non sarebbe stato aperto a comodità, vi era il divieto assoluto di comprare ciò che si poteva creare. Fuoco per lampade, secchi per docce, pelli per vestiti. Il desiderio e il patto era quello di ricongiungerci alla terra e alle mani. Un'autosufficienza non corrotta dal mercato.

Eravamo partiti con l'entusiasmo di chi sa creare il lato reale dei sogni. E seguivamo le ore del giorno con le guance arrossate e i capelli arruffati.

Nei primi mesi il codice di condotta venne digerito fluidamente, ma con il passare dei giorni Elena incominciò a non rispettare gli orari del raccolto e della semina, si appollaiava nell'atrio fumando erba continuamente e parlava con tono rabbioso. Si lamentava della regola primaria che consisteva nel divieto assoluto di andare in città e sbuffava sull'altra regola di non poter portare gente a casa.

Ormai si erano accumulate litigate fin quando una sera abbandonò la comune sputando per terra l'impossibilità di una sua continuazione.

Il mio carattere è protetto dagli impulsi improvvisi, io, le mie scelte,le devo metabolizzare.

Passo numerose ore all'analisi di un solo pensiero, e cosi non capivo il rigetto cosi categorico di Elena.

Decidemmo con i compagni che l'abbandono di Elena sarebbe stato un semplice intoppo al progetto, che dopotutto era prevedibile.

Continuammo in tre a seguire fedelmente le nostre mansioni e il nostro isolamento catartico.

Marco si occupava della legna, costruiva credenze, comodini e librerie con l'abilità di un artigiano fedele alla sua bottega. La sua passione era la creazione di strumenti, che suonava nelle ore buie.

Camilla cucinava e curava l'orto, le spezie erano la sua passione. Riproduceva i colori delle piante e degli ortaggi in acquerelli leggeri e fluidi. Lei aveva l'odore dolciastro della cannella e un nasino all' in su che mi divertiva.

Io mi occupavo degli animali, mi lasciavano il silenzio necessario per progettare i miei racconti.

Mi inventavo per ogni animale un carattere da assegnarli, avevo etichettato l'antipatico, il saggio, il giullare e la prostituta. Ogni giorno mi immaginavo un carattere nuovo da distribuire a galline, pecore, mucche e gatti.

Il nostro trio apparentemente sembrava funzionare anche senza Elena, ma poi Marco iniziò ad essere impaziente, si era appena laureato in sociologia, e iniziò a sentire la mancanza della società che aveva studiato. Parlò a Camilla della fine del suo credo, abbandonò la comune poco dopo senza incrociare il mio sguardo.

Io sono radicale nella scelta, non posso pensare ad una fine senza collegarla al fallimento, cosi accendevo in Camilla la nobiltà della nostra comune, ma lei si piano piano si spegneva, fino a dialogare solo esclusivamente con i suoi pennelli.

Lasciò per ultima il casolare dopo aver fatto l'amore. Erano le tre del pomeriggio di una primavera secca.

Presi le redini della mia solitudine e mi contorcevo la schiena nel svolgere tutte le attività dei vecchi compagni. Vivo qui solo da un anno.

Oggi lascerò la comune, lo farò a testa alta.

Ho studiato molto la parola utopia fino a farne una malattia.

Il mio cervello disegnava perfettamente gli algoritmi della comune, erano di un'armonia avvolgente, ma rimanevano sempre intrappolati nella categoria dell'astratto.

Poi mi accorsi che era tempo che non ridevo o scambiavo parole con un umano a me corrispondente.

Cosi lascio perchè non so più su cosa indagare.

Ho deciso di affrontare l'ineleganza e la varietà del mondo ,oggi.

Chiudo con il gancio il portone dietro a me, attraverso il campo, nell'ora giusta in cui la luce distribuisce spicchi di ombre grazie al sole che si ricongiunge con l'orizzonte. Ciò avviene tutti i giorni a quest'ora precisa.

giovedì 14 ottobre 2010

LA SANSA

La vita è bella… anzi bellissima. Se vivi in una delle regioni più belle del mondo e fai uno dei mestieri più belli del mondo sei facilitato a goderti ogni singolo giorno con uno sconsiderato ottimismo. E poter migliorare la vita di chi ti sta attorno e dipende da te è quasi un obbligo morale.

Rodolfo è il presidente di un’azienda agricola di Serravalle Pistoiese, specializzata nella produzione di olio extravergine. L’olio, quello vero: una ragione di vita. L’azienda: una famiglia. L’azienda è di famiglia. Fondata dal bis-nonno Querino Carratori nel 1893, come piccola e onesta impresa familiare, in poco più di un secolo è diventato un rinomato marchio, conosciuto in tutto il mondo. Come spesso capita in Italia la gestione familiare è un vero e proprio vizio a cui pochi sanno rinunciare. Vi lavorano per l’appunto tutti i familiari, dalla moglie alle sorelle, ai nipoti e ai generi. Ma i legami di sangue per Rodolfo non c’entrano. Il legame è l’azienda. Ed ecco quindi che Rodolfo da sempre si relaziona con tutti i colleghi e dipendenti come con dei fratelli. Questo fa si che dal presidente (Rodolfo) allo spazzino (Emil, sri-lankese), vige da sempre un cieco rapporto di fiducia, tale da rendere l’atmosfera alla Carratori assolutamente genuina.

Lavorare da Carratori non è come lavorare in un’azienda qualsiasi. Chi proviene da fuori e arriva a Carratori non se ne vuol andar più via. Qualunque sia la sua mansione. Anche il più bistrattato stagista trova comunque una dimensione lavorativa così ideale e umana da non poter desiderare di meglio.

È quindi inevitabile che un tale paradisiaco ambiente sia conosciuto in tutto il settore. E ciò può provocare stima ma anche invidia. Ma si sa che l’invidia non porta da nessuna parte e Rodolfo se ne è sempre infischiato. Seguendo le orme del bis-nonno ha portato avanti la sua politica senza seguire gli interessi degli imprenditori ma ponendosi alla pari coi piccoli e onesti agricoltori, che tutti uniti formano il piccolo impero Carratori. Per un contadino stare sotto l’ala di Rodolfo significa avere la sicurezza di poter lavorare la terra senza pressioni, con l’unico obiettivo di produrre il miglior olio possibile.

Non è facile portare avanti un business rispettando così tanti ideali e così tante persone, che dipendono totalmente dalle tue scelte. Il credo di puntare su una produzione a scala nazionale di olio extravergine pregiato è notevolemente limitante. L’Olio Carratori non è olio per tutti. Costa. Eppure, grazie alla nomea guadagnatasi nei decenni le vendite sono stabili a tal punto da poter evitare di entrare nella produzione per la grande distribuzione.

Una domenica mattina Rodolfo è in casa a leggere poesie. Adora le poesie. Sono le 11:17. Non è a messa. Non è credente. La moglie, Lietta, prepara il pranzo. È la sua segretaria. Vivono in un antico rustico vendutogli da un contadino amico di famiglia. Ci hanno lavorato 7 anni per rimetterlo a nuovo e renderlo come la dimora dei loro sogni. Finalmente da quasi un anno se lo possono godere per intero.

In casa l’atmosfera è tranquilla e rilassata. Le finestre sono aperte, l’aria fresca della campagna attraversa leggera la casa e il rumore della natura fa da colonna sonora.

In lontananza si inizia a sentire una voce di donna. Canta. Lirica. Una voce equilibrata, gradevole ed amatoriale. Si avvicina. È nel borgo oramai. Rodolfo si sporge dalla finestra per guardare. È la vicina di casa. Una signora molto anziana, cortese e un po’ svampita. Il fatto che canti non è poi così strano. Magari una volta cantare a pieni polmoni per le strade del paese era meno insolito, tuttavia non è questo che inquieta Rodolfo. La signora canta e, nel frattempo, si guarda attorno con una faccia divertita. Guarda se la gente dalle finestre la sta osservando. Un goffo atto esibizionistico. Ne è turbato. La vecchia mostra un ghigno di auto-compiacimento mentre canta e con la coda dell’occhio guarda alle finestre mantenedo il passo e lo sguardo diritto.

“Ma chi è?” chiede Lietta.

“È la vicina, quella vecchia”.


Rodolfo torna a leggere. A breve il pranzo sarà pronto.

Lunedì mattina all’apertura degli uffici Rodolfo non è ancora arrivato. Gli uffici sono proprio a fianco alle prime proprietà terriere. I suoi colleghi non danno peso alla cosa seppur non sia capitato spesso. Neanche Lietta è presente. A volte arrivano assieme, a volte no, per impegni vari. I colleghi scherzano, qualcuno fa una battuta ad alta voce, qualcun altro ride sommessamente.


Nessuno può sapere che sono scappati in sud america. L’azienda è indirizzata verso un fallimento certo. Sommersa dai debiti, non v’è modo di rimediare. L’hanno nascosto a fatica per 8 mesi.


I colleghi in ufficio continuano a sbrigare le pratiche, i contadini continuano a potare gli ulivi, sereni.

lunedì 11 ottobre 2010

Il nome che passerà alla storia

“la vita è bella, anzi bellissima…e qui, esimi colleghi, in Mantatonia raggiunge un vigore degno di…di…”. Il professore è fermo come surgelato, tipo un ghiacciolo, nonostante i 51 gradi sopra lo zero che lessano la foresta pluviale della mantatonia sudorientale. Eccolo che riparte:
“Cancella Gale”
“tutto professore?” l’altro con fare indaffarosso e lessato dal caldo, anzi dal caldissimo.
“Ma che dici mai? Tutto? L’ultima frase…su su…rileggi forza.”
“la vita è bella, anzi belliss..”
“Via via. Iniziamo così: In mantatonia, stimati colleghi, la vita ci dice: Darwin.”
“D-d-arwin signore?”
“Si DARWIN, pezzo di idiota!”
“Credo che manchi il costrutto..logico, la grammatica e-e-e---“
“Zitto e scrivi quello che ti dico! Io sono come Giulio Cesare sui campi di battaglia, io parlo, tu scrivi! Sai chi era che scriveva per Giulio Cesare?”
“ No Professore.”
“ Per forza non lo sai, nessuno lo sa, e sai perché?”
“no Professore”
“Per forza non lo sai, perché non era nessuno! Un fallito, uno scriba appena istruito! Nessuno si ricorda di lui, nemmeno sua madre! Quindi io parlo, tu scrivi e stai zitto!”
“Si professore”
“Rileggi”
“…in mantatonia la vita dice: Darwin…”
“urla”
“prego?”
“La vita urla Darwin. Correggi su…e non rimanere indietro, al passo uno, due”
“si professore”
Dopo 4 passi, tre alberi, 1,6 metri
“ah Gale, guarda. Prendi una provetta, del 15, tappo di sughero.”
“si professore”
“etichetta…”
“pronta professore”
“scrivere! Falena nocturna, famiglia delle Larvidi. Strano colore Gale. Strano davvero. Monocolo”
“eccolo professore”
“..strano..si uhmm, Gale. Il Manuale delle falene notturne, volume 3, capitolo 32esimo, quello dei colori bizzari! Rapido!”
“eccolo professore”
“controlla! Verde marino con riflessi viola pallido e….rame.”
“Assente professore!”
“Eccellente Gale! Eccellente…sai che significa?”
Tempo dedicato all’attesa della risposta inesistente.
“nuova specie! E sai cosa significa Gale? Premio nobel! Gale, nuova etichetta. Questa Falena prende il mio nome, subito.”
“certo professore”
“Piccola bastardella. Hai il mio nome ora. La gente ti vedrà e vedrà la mia faccia. Ho appena guadagnato l’immortalità. Ma cosa lo dico a te scarto di assistente! Improvetta la bestia immediatamente marsh!”
“subito professore”
Ma qui la svolta per il nostro professore pluripremiato con tanto di cattedre sparse tra le università più prestiosissime del globoso globo intero. E anche per il povero Gale, assistente del pluripremiato, il quale timido e modesto possiede comunque due lauree, una in biologia della botanica della farfalla, e una specialistica in insetti tropicali residenti in zone tropicali. Entrambe con il bacio accademico.
Torniamo al presente della storia. Gale tenta di improvettare la bestiola. Ma ecco che ella vola via, non prima però di una fugace fermata sulla crapa pelatissima e dal valore inestimabile del professore illustrissimo.
“ Piccolo stupido guastafeste! La mia farfalla! Idiota plurideficiente con la licenza di seminare ignoranza! Sei licenziato! Anzi mi servi per scrivere dannato! Sarai licenziato!”
“Chiedo scusa professore…”
“prega che ne troveremo un'altra! Razza di babbeo!”
Eccola qui un’antenna spunta dall’esimia crapa pelata pluriricosciuta e chiarissima.
“Pro-pro-pro….”
“che blateri ignorante contadino?”
“Antenna profess…”
Ora 2 “antenne, sulla sua testa!”
Il quasi ex-futuro nobel si tocca la testa e incontra le antenne.
“Santi numi…”
Ora zampette, dall’addome, otto per la precisione , 4 a destra e altrettante a sinistra…Fuori impetuose bucando la camicia del pluriacclamato docente. Poi ali…enormi ed infine dorso colorato. Eccola una pluristruita falena di un metro e settanta.
“ incredibile, ragguardevole! Guarda gale! Qui si scrive la scienza di nuovo, sarò ricordato come il più grande bioinsettologotropicale del mondo in eterno!”
L’altro guarda impalato come un palo. E la sua bocca è apertissima per lo stupore. Quindi non dice nulla.
“Gale, scrivi. Il tocco della falena con il mio nome, mi ha trasformato nella medesima..questa incredibile scoperta, voluta da me medesimo, molto intensamente, inseguita da una vita e…..”
E si, la sua voce si stava affievolendo…sempre di più. Insieme alle sue dimensioni. Ora eccolo, grande come una falena, quindi piccolo, e dalla voce impotente.
Gale è supersbalordito. Sangue gelato, nonostante la temperatura lessante ed immobile ancora con la provetta in mano.
Quindi, non ci pensa due volte apre la provetta cattura la falena dottissima, la infila nella provetta chiude la provetta, Torna al campo base, raccoglie le sue cose ,sale su un get diretto a casa.
Ora sappiate che sono passati 15 mesi, 2 giorni, sei ore. E siamo dalla parte opposta del globo mondo in un sontuoso palazzo.
Un vecchio togato dall’aria giuriosa parla” Cari tutti presenti, siamo qui per insignire del nobile premio nobel all’insettonomia, il dottissimo professor Gale Powder,illustre professore di biologia larvina ed amato docente, scopritore della falena Powder…”
“grazie a tutti, vorrei ringraziare i miei genitori Karl e Mary, i miei colleghi ed il mio assistente che mi ha accompagnato in mantatonia, anche se ora non ne ricordo il nome.

sabato 9 ottobre 2010

VITA

La vita è bella... anzi bellissima, la vita è strana, è forte e intensa..e queste sono le solite parole del cazzo che si usano per parlare, per dare aria alla bocca, perché in realtà è più facile dire ciò che è già stato detto. La vita è fatta anche di noia, fottutissima noia che ti prende e ti porta alla sconforto, all’insicurezza. Ma forse anche questo è già stato detto. Sono incerta, credo che mi sia permessa un’ulteriore licenza vista la location in cui mi trovo. Quindi ho optato per un racconto vero, anzi contemporaneo, il mio. La mia vita in quest’ultima settimana è cambiata, pochi parlano la mia medesima lingua, posso leggere libri sul bus senza essere disturbata da parole a me troppo affini. Questo è un pregio. Certo è da dire che quando mi parlano stra veloce in stile Tosi con bocca mugugnante e serrata mi immagino una tenaglia per aprir loro la bocca che si infila fra le loro labbra e la apre a dismisura fino a sentirne provenire dei suoni vagamente comprensibili. Da una settimana il mio letto matrimoniale si è trasformato in un lettino per bimbi dai 14 anni in giù, per fortuna la mia altezza mi consente di non uscire fuori col ditino del piede. Da una settimana a questa parte ho un mini quarto, bello, bianco, con l’acqua che entra dal soffitto quando piove molto, non ho le mie foto, né quadri, né altro. Ho una casa piena di gente che parla in inglese e portoghese, ho pochi amici e una università da iniziare. Ho 12 esami, una lingua da affrontare, un corso di erasmus che non mi fanno fare. Ho l’alfama, le camminate, i vecchi con visi enormemente profondi, solcati dal tempo. Ho tutto questo e sono felice. Felice forse è una parola troppo definitiva, sono fiera, a volte un po’ spaventata, tesa sugli spilli, in procinto di conoscere, vivere, fare, parlare e studiare, forse a volte timorosa di annoiarmi, di non fare abbastanza. Ho addirittura una mamma che ha imparato skipe, un padre che mi fa vedere kino e non lui quando mi parla, ho un racconto da scrivere, ho un ragazzo che mi manca e sta faticando a londra per trovare un lavoro. Ecco credo che la mia vita si possa racchiudere in tutto questo. Un biglietto di aereo, un volo, un nuovo inizio, con la consapevolezza degli amici che hai, con la voglia di rimanere qui per sentirne la mancanza e poi tornare per ri- abbracciarli, per una cena natalizia, per gli aggiornamenti, per la gioia di stare insieme. Da qui posso permettermi un po’ di nostalgia e “smelensietà”. Sto vivendo una grande avventura, ma sento che sarete sempre un mio punto di riferimento, amici che nell’ultimo anno sono diventati fondamentali. Quindi grazie. Buona vita e un bacio. Ci vediamo a natale.

lunedì 4 ottobre 2010

il fumettuomo

“Una coca, tre birre. E’ tutto viola”…”Tutto viola? Dai fammi vedere”…infilò la faccia nel cilindro…”hai ragione! E’ tutto così viola! Favoloso! Dai che dici? Entriamo?””certo che entriamo puoi scommetterci le scarpe!”
Eccoli i due personaggi. Immaginateli ora che tirano a quattro mani il cilindro, ognuno verso di se. E questo si allarga. Sempre di più. Ora ha le dimensioni di un pozzo. Si entra nel cilindro. È tutto viola.
“Diamine. Non esiste altro colore qui”il primo. “deve trattarsi di un mondo monocromatico.” Il secondo con aria saccente. “Guarda banane viola” “prendine prendine, che qui ci vogliono le prove!!”
Ma ecco un oscuro signore, alto magro quasi scheletrico. Scarpe di tela, dell’ovvio colore, completo doppio petto, gessato, gillet, barba prugnosa nel tono. Si muove danzando e piroettando. Arriva dai personaggi. E con una capriola si presenta ad essi. Sbalorditivo, sbalorditivo. Dalla sua bocca esce fumo, e sul fumo le parole. E’ un fumettuomo, niente voce solo fumo e lettere scolpite su esso con una fumosa fugacità.
“Son Boregarzio fumettuomo, tanto persona, poco uomo, danzo e ballo e mi compiaccio sono magro come un laccio, del mondo viola son regnante in quanto unico abitante!” Tutto suddiviso in 3-4 fumetti nuvolosi.
Dopo lo sbalordimento, si fa avanti l’euforia nel cuore dei personaggi, visibilmente emozionati dall’incontro. Il primo si prodiga in un inchino. Il secondo scientificamente, e fumetto logicamente interessato gli domanda tosto” ma puoi parlare a bassa voce?” “no” la prima replica. “puoi nascondere i tuoi pensieri?” “no” la seconda replica. “lo supponevo!”
Un gran nuvolone di fumo” Son felice di interessare quanto adoro farmi ammirare! Ho grande stile nella danza, possiedo tecnica sopraffina e principe sono anche della rima. Spero d’essere buona guida compagno! Un bagno, un te, una cena deliziosa? Chiedete vi prego, qualsiasi cosa!”
I due chiesero e ottennero: passarono due mesi quasi interi nel mondo viola. Si divertirono, mangiarono cose viola dall’ottimo sapore. E videro cose. Tante stupende, narrabili da pochi. Incomprensibili per molti. Passati i sessanta giorni decisero di tornare a casa.
“Boregarzio caro amico, noi torniamo a casa, abbiamo visto cose incredibili. Grazie grazie” il primo. “si si grazie” il secondo. “torneremo presto a trovarti. Dicci solo cosa possiamo fare per te!” il primo. “te lo dobbiamo diamine” Sempre lui. “diamine si” fa eco il secondo con fare specchioso.
Un fumo che si addensa” portatemi i colori, non desidero altri favori!oh son Innamorato sono del vostro abbigliamento dal tono variegato! Il viola qui è la media, e son sincero ormai mi tedia!”
Così ogni qualvolta che passavano per il cilindro i due personaggi si portavano dietro barili da 100 litri di colore di ottima qualità da donare al fumettuomo che amava le tinte. Il mondo viola era sempre meno viola e sempre più colorato. Boregarzio era felicerrimo. E i due visitavano e scoprivano.
I tre divennero vecchi insieme (anche se il fumettuomo invecchiava molto lentamente). Non dissero mai a nessuno dei loro viaggi cromatici, i due. Anche se la gente si chiedeva cosa servisse tutto il colore che compravano a suono di paghette, stipendi poi, pensioni infine. L’ultimo viaggio nel cilindro lo fecero a 90 anni il primo, e 87 il secondo. Non tornarono mai più. Varcarono il cilindro con un barile di ciano rotolandolo a fatica con l’ausilio dei bastoni che i vecchietti usano, solitamente, per accompagnare il passo anzianissimo. Forse sono morti infine, di vecchiaia, si dice, si mormora. A me piace pensare che siano divenuti distinti fumettuomini rispettabili in doppio petto e mocassini il primo, dolcevita e monocolo il secondo. Cittadini del nuovo mondo viola ora assai coloratissimo.

allucinazione


“Una coca. Tre birre.. ed è tutto viola.

Viola, il colore della meditazione. Quante facce storte, sono vicine..mi vogliono toccare.. sono allargate, sproporzionate, deformi. Dei gnomi giganti, delle streghe volanti .Lasciatemi in pace cazzo! Il cuore mi rimbalza tra i bottoni della giacca, fa freddo. Ho freddo. Dove sono gli altri? Dov'è quel coglione di Gibo? Vaffanculo cazzo, sono fuori anche stasera. E di nuovo il trip negativo. Forse perchè sono un'artista e gli artisti sono fottutamente dei dannati. Non sorridono come ebeti e sparano cazzate dopo le dosi, gli altri staccano, io, invece, sono ostaggio dei miei pensieri beffardi. Che sono catene, vagoni senza binari.

Queste immagini non si bloccano, sono degli elastici che mi spostano l'obiettivo, zoom avanti, zoom indietro.

I miei elettroni guerriglieri stanno danzando, prendono le figure esterne e le proiettano all'interno della mente senza le proporzioni e senza gentilezza. Elettroni vigliacchi.

Ci sono risate maligne fuori e poi echi di voci rauche.

Mi fa schifo questo posto di bruciati, quelle minigonne corte,quei catarri nel suolo.

Perchè mi sono dimenticato di amare?

Stop. Stop. Ho ancora il controllo, devo solo dormire. Cazzo.”


Con sforzi titanici Spot cercava di posizionare un piede davanti all'altro per lasciare il locale. Era chiamato Spot perchè passava ore di solitudine con la sua telecamera a fabbricare cortometraggi, e i suoi amici scambiano l'arte per pubblicità, dando così la ratio all'appellativo Spot.

“Dove stai andando Spot?” Gibo barcollando lo raggiunse.

“ A casa, coglione.”

“ Fatti un altro giro, è buona.”

“ Fottiti.”

Quando Spot se la doveva vedere con i suoi pensieri non voleva mai essere disturbato.

Dopo pochi isolati, trovò la porta di casa, calpestò i nastri nel suolo e si buttò molle nel letto.


“Perchè non è tornata ancora Mery cazzo!? E' più di una settimana che mi fa convivere con sole e schifose domande. Non torna, non torna più. Sempre brava a sbattermi in faccia la mia sindrome da peter pan, la mia autosufficienza, la mia abilità di non scegliere. Io non conosco la dimensione futura della mia realtà, io non so dirle i miei cambiamenti. Io non so rispondere alle sue pressioni intellettuali, al giro tondo delle parole. Io a volte voglio scegliere di non pensare. L'alcol e le dosi mi aiutano la maggior parte del tempo, poi mi colpiscono a tradimento dietro le spalle facendomi cadere nei vortici. Ma tutto sommato, secondo un bilancio temporale mi anestetizzano. “


L'epicentro mentale di Spot era la sua doppia natura.

Da un lato sapeva mescolarsi abilmente tra le folle agitate, masticare il chiacchericcio da bar per ore, indossare vesti camaleontiche e mettere in stand-bay il cervello. Ma d'altro lato sapeva divinamente dialogare con la sua telecamera, succhiare il fluido vitale delle persone, spalmare il suo amore nel corpo di Mery e falciare ogni forma di povertà comunicativa.

Solo che Spot molto spesso si dimenticava di parlare con sé, rallentando così la sua crescita.

Nell'infilarsi sotto il piumone Spot si trovò una pagina strappata, senz'altro un giochino di Mery. Lesse :




L'allucinazione è una falsa percezione in assenza di uno stimolo esterno reale. È spesso definita in psicopatologia 'percezione senza oggetto'. Il termine deriva dal latino hallucinere oallucinere, che significa 'vagare nella mente' ed ha nella sua radice la particella "LUX" (luce-illuminazione-percezione). Alternativamente si può far risalire al greco ἁλύσκειν, (haluskein), che significa 'scappare', "evitare" riferendosi all'interpretazione diffusa dell'allucinazione come fuga dalla realtà. In psicopatologia le allucinazioni vengono classificate fra i disturbi della percezione e sono distinte dalle allucinosi e dalle illusioni.

Spot girò il biglietto e lesse:

“Non è il momento di cercare l'oggetto della tua percezione?

O di identificare le coordinate della tua fuga?

Mentre tu ondeggi tra le allucinazioni, io bevo le illusioni che mi hai lasciato.

Chi vince? Chi perde?”



Spot decise che avrebbe pensato domani all'arte provocatoria di Mery. Gli veniva facile rimandare lo scarico del suo essere al giorno dopo, per servirsi delle nuove luci.

Intanto rollò su un'altra canna. Quella della buona notte.