L'incipit della settimana

ELABORATO TESTUALE DI TOT PAROLE: "L'antico vaso andava salvato"
STRINGA AUDIOVISUALE DIGITALE PROVENIENTE DA QUALCHE SERVER: "Youtube"
RETTANGOL CARTPLASTIC CONN'IMMAGIN STAMPAT QUAS BEN:"Perdita di tempo"
Ctrl+c, Ctrl+v, STAMP-E-PORT-LE-FOGL:"Glutammati sto sodio"

lunedì 27 giugno 2011

Il secondo inventore


Eva era andata a dormire, e lui cosa avrebbe fatto ora?
Di dormire non se ne parlava, c'era ancora il sole....e poi gli faceva ancora male la costola, o meglio, lo spazio dove fino a qualche giorno prima si trovava una sua costola.
Il Capo, l'Altissimo, aveva detto: "Siate fecondi e moltiplicatevi!" Già, ma Eva non ne voleva sapere, sempre a dormire od a fissare quell'albero di mele, che a quel tempo costavano l'ira di Dio....non potevano proprio permettersele.
Lui non aveva nulla da fare tutto il giorno, così si mise ad inventare delle cose, ma non era molto bravo; ad esempio aveva inventato i vestiti: tre foglie di fico per Eva e una per lui, ma non erano molto utili. Allora provò ad addomesticare gli animali, inizio con l'orso ed il leone, ma non erano proprio d'accordo con lui e decise di lasciar perdere se voleva continuare una felice esistenza.
Quel giorno, dopo che Eva si era messa a letto, decise che avrebbe inventato il fuoco, così almeno poteva scaldarsi la sera e fare un po' di luce. Quando finalmente i legnetti cominciaronoa fumare per lo sfregamento (glielo aveva insegnato un serpente molto dotto) era notte fonda; alimentò le piccole scintille con erba secca ed eccolo nascere, il fuoco!!
Era molto stanco e pensò che era ora di andare a letto...appena prima di addormentarsi decise che il giorno dopo avrebbe inventato l'acqua calda, così almeno poteva farsi un bel bagno.

Sigaretta mezza spenta o mezza accesa

Eva è andata a dormire. Eppure fuori dalla sua finestra entravano stridenti rumori di grù meccaniche a lavoro e clacson di macchine impazzite nel caos metropolitano. La sua stanza era posta sopra un cantiere di lavoro attivo da mesi. Ma come poteva essersi addormentata in questo trambusto? Vicino al letto nel bicchiere, improvvisato da portacenere, giaceva una sigaretta mezza spenta, o mezza accesa che si voglia… insomma fumava ancora e nonostante questo Eva dormiva senza darci bado. Ogni tanto il sonno di Eva era interrotto da gemiti lievi, cosa stava sognando Eva? Il suo corpo si contorceva come in preda a dolori o spasmi. Che magari non stesse rivivendo traumi vissuti in giovane età? Eva non era anziana la sua pelle era lucida e morbida di un colore dorato. Le sue gambe erano lunghe ed affusolate; quando Eva sfila per le strade gli sguardi dei passanti ricadono sulla sua figura maestosa. La stanza di Eva era piena di vestiti che si facevano largo tra resti di bottiglie vuote e lattine per terra, i libri accatastati in un angolo della scrivania e il resto era ricoperto di cartacce, giornali, penne, ecc… Eva non era attenta a quel disordine, le piaceva vivere lo spazio nel pieno delle sue potenzialità d’accumulo e goderne di ogni angolo. Le sue giornate non si scandivano da orologio alla mano, non badava al tempo, Eva non era di quelle per cui il tempo era il dittatore risorto dopo la morte di Dio. Eva non badava alle stagioni ma le piaceva riconoscerne i profumi; Eva assaporava tutto nel momento in cui viveva e poi però quando questo non c’era più nemmeno per Eva aveva più senso e se ne dimenticava, ma sapeva riconoscere bene i vizi a cui dare attenzione. Sapeva come ottenere quel che desiderava con i suoi occhi a mandorla bruni riusciva a catturare qualsiasi sguardo e farne ciò che desiderava. Infatti erano le 16.24 ed Eva dormiva, ma allo scoccare delle mezza, anche se non usava sveglie, aprì i suoi grandi occhi e nello stesso momento la porta si spalancò… il tintinnio di ferraglia la fece sussultare e con un balzo si getto sui pantaloni del suo padroncino Elia, adolescente di 17 anni, che chiuse la finestra, prese i sacchettini sotto la pila dei libri e messo il collare guardando Eva fissa negli occhi, l'accarezzò sul muso e le fece cenno di uscire.

Si stava meglio quando si stava peggio


“Eva è andata a dormire” gli disse sua moglie. “Va bene, non la disturbare. Guarda cosa ti ho portato.” disse lui estraendo una gallina da un grosso sacco. “Oddio! Quella gallina sembra un tacchino da quanto è grande!”

Avete presente quella frase che ripetono spesso i vostri nonni: “si stava meglio quando si stava peggio”? Molte volte non riuscite a capire come una frase così mal strutturata possa essere vera, altre volte invece non riuscite a comprenderla nella sua interezza, anche perché un metro di paragone non lo avete.

Erano gli anni in cui le persone si salutavano per la strada intrattenendosi sempre in convenevoli riverenti. Gli uomini si alzavano il cappello in segno di rispetto, le donne sollevavano i lembi laterali della gonna quasi a fare un inchino. Si era nel pieno del boom economico, lo shock petrolifero e gli anni di piombo erano ancora lontani. Un caffè costava cinquanta lire, un litro di latte novanta e un chilo di pane centoquaranta lire. Un carabiniere prendeva sessantamila lire di stipendio ogni mese, il che lo rendeva abbastanza benestante per mantenere una famiglia. Una cosa accomunava impiegati, operai e contadini: la bicicletta. Le automobili iniziavano ad essere economicamente appetibili ma la maggior parte della gente ancora non ne trovava l'utilità. L'auto quindi rimaneva un bene di lusso ad appannaggio di ricchi proprietari terrieri e di nobili decaduti post costituzione repubblicana. Nei paesi questo era ancora più evidente, per le strade passavano non più di quattro automobili ogni giorno sollevando polveroni a causa delle strade non battute dall'asfalto. I bambini che giocavano in strada, quando ne vedevano una passare, partivano all'inseguimento anche solo per guardarla da vicino o per toccarne la carrozzeria. Molti di loro sognavano di possederne una da grandi, per suscitare l'invidia di tutti al loro passaggio.
La criminalità era una questione marginale, i carabinieri si occupavano soprattutto di furti di piccoli animali da cortile o di biciclette. Molto spesso non venivano nemmeno interpellati per gli screzi fra i cittadini, i quali preferivano risolvere tra di loro le controversie.

Davanti all'appuntato Iannaccone quel giorno si era presentato il signor Tebaldi che aveva un piccolo cascinale proprio vicino a Nassar.

“Appuntato, è successa una cosa terribile!”
“Si metta calmo a sedere e mi dica tutto” - disse l'appuntato
“Nottetempo, due persone si sono introdotte nel mio campo portando via delle galline, e non è la prima volta!” - disse Tebaldi, teso come una corda di violino.
“Bene, allora mi dica tutto che sporgiamo una bella denuncia, io la inoltrerò subito ai miei superiori e per conoscenza al magistrato.”

Iannaccone iniziò a battere sulla macchina da scrivere tutto quello che il signor Tebaldi gli raccontava.

“Ma come fa a non sapere quante galline le hanno rubato?” chiese stupito l'appuntato
“Ne possiedo parecchie ma non conosco il numero preciso, ma sono sicuro che ne abbiano portate via un sacco pieno.”
“Bene, allora ecco cosa ho scritto: Il giorno 26 giugno 1960 davanti al sottoscritto appuntato Iannaccone Salvo, si è presentato il signor Tebaldi Emanuele nato a Verona il 18 aprile 1927 dichiarando quanto segue. La notte del 26 giugno 1960 ignoti penetravano nella sua proprietà alle ore 2.00 circa asportando numero imprecisato di galline. Il signor Tebaldi non fornisce altre informazioni circa l'identità dei malviventi.”

Iannaccone passò tutto il resto della giornata a chiedersi come fa uno a non sapere quante galline possieda. Alla sera però, un vicino di casa di Tebaldi era accorso al comando e tutto trafelato aveva detto: “Correte, correte! Tebaldi sta sparando con il fucile dalla finestra!”

L'appuntato saltò in sella alla sua bicicletta e raggiunse velocemente il cascinale. Lì i ladri erano già scappati, lasciando un sacco con un paio di galline. Altre galline erano state uccise dal padrone di casa che ancora sparava dalla finestra.

“Venite qui, ladri maledetti! Venite qui, che vi impallino io!” gridava.
“Tebaldi, sono Iannaccone, metta giù il fucile, i ladri sono scappati! Rischia di far male a qualcuno!”
“Oddio! Mi scusi, appuntato! Mi ero fatto prendere dall'ira! Ora scendo.”

Per ringraziare il carabiniere del rapido intervento, il Tebaldi raccolse da terra la gallina più grossa che aveva ucciso, la mise in un sacco e la porse all'appuntato.
Tornato a casa fece vedere la gallina alla moglie, che dall'eccitazione della sua voce svegliò la piccola Eva addormentata. Eva, talmente sorpresa dal vedere una gallina così grossa, si mise il grande grembiule della mamma e disse sorridendo: “Non tornerò a letto finché non ti avrò aiutata a spennarla”.

Ora Iannaccone è un vecchio signore che racconta questa storia seduto su una panchina del parco, ancora pensando al brodo di quella gustosa gallinella che il signor Tebaldi, ormai morto da alcuni anni, gli aveva regalato. A volte, con una lacrima sul viso, ripete ai passanti: “È proprio vero che si stava meglio quando si stava peggio”

Steve Clark


Arturo Rizzo era una persona di 11 anni. Stava viaggiando in una legnosa cabina di prima classe che da Matera lo stava portando a Bari.
Era accompagnato dalla Signorina Steiger, la segretaria di suo padre.
Arturo, o meglio, come lo chiamavano tutti, Turò, era assorto nella lettura del Grande Almanacco sportivo del 1961, che nonostante avesse poco meno di un anno era già decisamente vissuto. Era un regalo del nonno Amedeo, che puntualmente, ogni anno, a settembre regalava al figlio di suo figlio, la nuova edizione di tale volume.

A Turò, piaceva immergersi nelle gesta eroiche di questi atleti… Leggere di forti pugili, di centometristi veloci come il vento, di temerari sciatori…
Ma sempre ce n’era uno. Uno su tutti. Quello che lo illuminava. Quello che lo faceva sognare.
Pagina 87.
“ Steve Clark, statunitense classe ’43, stabilisce appena diciottenne un nuovo sensazionale record sui 100 metri stile libero, segnando a tabellino un incredibile 55,4 secondi alle Olimpiadi di Los Angeles…”

Quanto lo colpiva questo Clark. Era così diverso da tutti gli altri… Magro e sottile, apparentemente delicato, ma con la determinazione dentro gli occhi.

Un cenno della signorina Steiger lo riportò alla realtà “Siamo arrivati Arturo”.

All’uscita della stazione un’auto dell’impresa di suo padre li stava attendendo. Appoggiato ad essa un giovane autista in divisa nera, visibilmente sofferente per il forte caldo.

“Signorina Steiger, signor Arturo… Purtroppo il signor Rizzo ha avuto un inatteso contrattempo…e non è potuto venir a prendervi di persona. Non vi potrà ricevere prima dell’ora di pranzo. Mi ha quindi pregato di accompagnarvi al Lido per un bagno…e di porgervi le sue scuse…”

“molto bene” Fu la robotica risposta della signora Steiger che aggiunse “ Arturo, spero che tu abbia con te il tuo costume da bagno!”

Turò Annui.

“Fantastico andiamo al mare!” Con l’entusiasmo da copione perfetto, per una donna di 24 anni che prende 240 lire all’ora come segretaria tuttofare.

Annoiato e silenzioso Turò salì in auto. Per tutto il tragitto pensò a sua madre che se ne era andata da ormai 2 anni…a suo padre, troppo impegnato con il suo lavoro per occuparsi di lui, freddo e terribilmente prevedibile.
Sapeva già come sarebbe stato rivederlo… cosa gli avrebbe detto, "come va, non hai fatto arrabbiare il nonno…?"le solite cose.
E quella città fuori dal finestrino che ormai non riconosceva più come casa.
Niente e nessuno di quei luoghi facevano più parte della sua vita.

Arrivarono in spiaggia. La signorina Steiger si sistemo all’ombra del suo cappello di paglia.
Turò indossato il suo costume di tela rosso ruggine si stabilì su di una roccia lambita dal circolare bagno e asciuga del mare.

I suoi pensieri volavano e turbinavano senza fine e senza fini, come dei rapaci su una carcassa…
La giornata era abbastanza serena da far sì che il sole baciasse con violenza la sua pelle ma non abbastanza da permettere di intravedere della terra oltre il mare.

Turò si tuffo’… e cominciò a nuotare verso il largo con struggente determinazione…

“Uno, due, tre, quattro…”

Senza curarsi del mondo che dietro di lui scivolava via.

“nove, dieci, undici, dodici…”

Forza Turò, nuota! Nuota e conta. Fino a 55 secondi. Nuota come Steve Clark.
55 secondi per andare via da quel tutto che non è niente.

“Cinquantatre, cinquataquattro, cinquantacinque.”

Adesso fermati, respira e girati.

Guarda, non c’è più niente.

Solo mare.

FIN

lunedì 20 giugno 2011

Il mutismo paranoico di un cavalier servente

Sono in ritardo. Come al solito mi sono imbambolato a pensare a lei, a cosa dirle, come dirglielo. Si sarà forse spazientita? Starà per caso pensando che mi sia dimenticato dell'appuntamento? Boh, forse dovrei chiamarla. Ma no, dai... In fondo sono in ritardo di soli cinque minuti. Ecco, questo è il suo cancello. Ancora non c'è... Per un pelo! Avrei fatto proprio una pessima figura. Mi passo una mano fra i capelli, tento di sistemarli. Eccola che scende dalle scale. Quant'è bella!

“Ciao, come stai?” - mi dice
“Bene” - le rispondo - “e tu?”
“Abbastanza bene dai...”

Guardo un secondo la sua pelle, liscia, vellutata. Mentre le sue labbra si muovono lentamente penso quanto sarebbe bello baciarla proprio lì, nell'angolino dove la bocca volge a sorriso e con il dorso della mia mano dolcemente accarezzarle la guancia leggermente rosata. Pensa, dai pensa a cosa potresti dirle. Ricordati soltanto che quando pensi molto hai sempre quella faccia da idiota. Oddio! Avrò la faccia da idiota in questo momento? Guardo altrove, spero che non se ne sia accorta. Già, sono quasi sicuro che se ne sia accorta.

“Andiamo a sederci da qualche parte” - è la sua proposta
“Mi farebbe piacere” - dico io, annuendo.

Ecco, ha ripreso a parlare. Non sto ascoltando una parola di quello che mi sta dicendo, ma mi piacerebbe che parlasse per sempre, sono incantato dal tono suadente della sua voce. Potrebbe anche ripetere parole senza senso o leggere le quotazioni di borsa tutto il giorno che io sarei lì per ascoltarla. Già me la immagino “Nasdaq +1,34%, Dow Jones -0,31%”, sono sicuro che mi interesserei subito al mercato azionario. Si, magari sarebbe opportuno che ogni tanto annuissi invece di starmene qui a fissarla con gli occhi da pesce lesso.

“Ti vedo bene oggi” - dice, squadrandomi da cima a fondo.

Cosa avrà voluto dire? Cioè sono io più piacevole alla vista o è lei che ha cambiato le lenti a contatto? Forse dovrei risponderle. Ma cosa? Un semplice “anche tu” oppure un più articolato “ti offrirei i miei occhi per darti la possibilità di vedere quanto sei bella”. Via, è passato il tempo tecnico per darle una risposta, sono stato lì con gli occhi sgranati ad ondeggiare la testa avanti ed indietro. Basta, adesso parlo, mi dichiaro. Sono stufo di stare fermo così, in bilico fra i miei sentimenti e la possibilità di un rifiuto. Dannazione! Se mi dirà di no me ne farò una ragione, altrimenti sarà il coronamento del mio sogno. Apro la bocca, le parole mi si smorzano in gola. Emetto solo un mugolio, il verso di un cane appena bastonato. Forza di volontà, ci vuole solo forza di volontà. La fermo, tirandola per un braccio. Siamo sul ponte più significativo per me, quel ponte sul quale ci siamo incrociati per anni, prima di conoscerci.

Dico, forse alzando un po' troppo la voce: “Mi piacerebbe stringerti forte, sentire il tuo odore sui miei vestiti. Tu inganni i miei sensi, sento caldo e freddo insieme, vedo la luce e il buio mischiarsi. Io t'amo, t'ho sempre amata di nascosto.”

Bene l'ho detto, adesso sembra che il tempo si sia dilatato e che il secondo intercorso fra la mia domanda e la sua risposta duri minuti, ore, giorni. Cosa dirà? “Non voglio più vederti” oppure “baciami idiota!”? Ora sta aprendo la bocca, la risposta è già stata elaborata, il cervello sta mandando le informazioni in giro per tutto il suo corpo, permettendo ad alcuni muscoli di contrarsi e ad altri di rilassarsi.

“Se è vero che mi ami, che faresti tutto per me, dimostralo, buttati da questo ponte e io ti amerò”.

Bene, ora so quello che devo fare. Se mi buttassi lei mi amerebbe, ma io morirei. Se non mi buttassi, certo non morirei, ma lei non mi amerebbe. Mi avvicino al cornicione, guardo giù. Mi giro lentamente verso di lei, la guardo. Voglio dosare bene le mie ultime parole. Eccole.

“Senti, potevi mica dirmi semplicemente: io no?”

lunedì 13 giugno 2011

Il fiammifero


Si alza il sipario...Ora si alza.....Dovrebbe alzarsi, perchè non lo fa?....Dovrebbe farlo, si, dovrebbe proprio.
Questo spettacolo è un intoppo dietro l'altro, prima il regista, i costumi, poi il casino con le prenotazioni ed ora il sipario. Questo maledetto sipario che non si alza. Quanto è passato? Avremmo dovuto iniziare no? Quanto è passato? Potrei bruciarlo questo sipario...No, forse non è una buona idea, decisamente no. Avrebbe dato inizio ad un incendio decisamente fuori controllo, era tutto di legno, il teatro.
No, poi potrebbe morire qualcuno, come quando aveva dato fuoco ai costumi di scena, povero regista, non era così antipatico...però l'incendio era stato bellissimo, tutti quei colori diversi che si univano in un arancione crepitante, con fiammelle gialle e rosse, ed anche qualcuna verde e qualcuna blu.....peccato per le urla di dolore del regista, aveano rovinato tutto.
Le urla avevano rovinato anche l'incendio diquella casetta in periferia...sfortuna ha voluto che la tizia che si occupava delle prenotazioni vivesse li con la famiglia....forse era lei l'incaricata del sipario, boh....forse...
Stupido sipario, quell'ammasso informe di velluto rosso fluttuante ricorda vagamente il fuoco, chissà come brucia il velluto...
Certo che sono proprio belli i fiammiferi, mi piace come il fuoco divora prima quella cosa rossa sulla punta per poi passare al legno....
Beh, brucia proprio bene il velluto....peccato per tutte queste dannate urla......

L'umano si crepa; l'umano si cuce

Si alza il sipario,
si abbassano i lumi,
si assopisce il respiro,
di quel che ne rimane.

Gli aliti di questa notte d'inchiostro
puliscono polveri di cervello,
oggi stanco
domani, incerto.

Si lascia il disturbo allo stomaco,
parlare.
Di ciò che narra,
la ragione poco sa.

L'umano si crepa,
l'umano si cuce.


Pigra nel cuore;
ed è salutare quiete,
nessun lancio d'impeto,
ma nessuna perdizione.

Così si va,
tra brandelli d'arte e
binari retti.
Mani sporche e sentire vergine.

Il metodo Stanislavkij

Si alza il sipario. Si abbassano lentamente le luci sul pubblico. Molti attendono con trepidazione l'inizio della commedia, alcuni sbadigliano, altri si accomodano ai loro posti. Io salgo sul palco, non li guardo. Non posso guardarli, mi distrarrebbero. Arrivo al segno che mi hanno lasciato, laddove un cono di luce mi illuminerà. Chiudo gli occhi. Cerco l'ispirazione. Rifletto. “Ridi pagliaccio... che ognun'applaudirà!”. L'attore altro non è che un contenitore. Ogni sceneggiatore lo riempie con emozioni, pianti, risa, aspettative, sogni. Il regista ne tira i fili, come un burattinaio ne decide i movimenti, la postura, i gesti, i toni. Sul palco non sono più io. Abbandono tutte le mie delusioni, la mia personalità. Mi svuoto per far spazio al personaggio. Qualcuno potrebbe dire che sono un falso. Si, lo sono, lo ammetto. Il mio lavoro è così emotivamente provante che non so più dove finisce il personaggio e dove inizia la persona. Quanti di voi però sarebbero in grado di dirlo? Guardatevi dentro, spettatori critici e attori inconsapevoli delle vostre vite. Quanti di voi possono dire di non indossare una maschera nella loro vita quotidiana? Quando sorridete al tabaccaio che vi sta antipatico, quando annuite ad un capo col quale non siete d'accordo, quando tacete davanti ad un sopruso.

Un giorno ho visto un bambino ridere di gusto sotto il solletico di suo fratello, io no, io non riesco più a ridere.
Un giorno ho visto una donna piangere dopo un litigio con il suo fidanzato, io no, io non riesco più a piangere.

Io governo la finzione, mi ci guadagno da vivere. Non pensate però che fra la gente io sia diverso. Sorrido mentre compro il giornale, mentre faccio la fila alle poste, quando prendo un caffè al bar. Il vuoto però mi strazia dentro. Mi piacerebbe dire che tutto quello che provo è a causa di una donna o a degli affetti mancati. Invece no. Per comunicare emozioni sulla scena ho dovuto privarmi delle mie e spogliarle di ogni significato. Per piangere ho dovuto maltrattarmi portando alla mente tutti i miei più brutti ricordi, per ridere ho dovuto rivivere tutte le situazioni più piacevoli. Ad un certo punto tutto è diventato automatico. Non avevo più bisogno di pensare a nulla. Ho iniziato a provare sensazioni a comando, quando lo sceneggiato lo richiedeva. Dannato il metodo! Sono il pupazzo di un ventriloquo, un maledetto morto vivente.

Cerco l'ispirazione. Rifletto.

Alzo lo sguardo, si accendono le luci. Sorrido. Inizia la commedia.

lunedì 6 giugno 2011

Anche Giulio Cesare mangiava da Mc Donalds

“Rispondi! Dove sono le caramelle rispondi!!” Ancora quel cazzo di momento! Non poteva ogni volta! Sempre alla mente quell’attimo.
E’ assurdo.
Lui e quello spocchioso del suo nipote. Figli di quei due irrispettosi.

“Pu” un bel giallone si incassa in toto l’impatto con il suolo.

“Nonno le caramelle! Mavaffanculo”.

Nonno Thomas stringe nella mano sinistra una caramella al pino. Adesso la mangia. Ne ha una voglia fottuta. Poi sarà la pace dei sensi….”Già me la gusto!”
Peccato per quei merdosi ricordi che prendono a schiaffi il cervello.

Non c’era niente da fare.
Era appunto così. Ogni volta. Sempre quando scartava una delle sue caramelle preferite: dure ma dal morbido ripieno al gusto di pino; gli tornava alla mente quel giorno in cui, stufo e con i coglione traboccanti, assestò un ceffone a quel macina palle di suo nipote.
Vagli a spiegare a quei ritardati dei suoi genitori…

sberla correttiva!
Non avrò mai il coraggio di toccare mio figlio!
E’ ritardato!
Deve crescere!
Lo vizi!
Ma gli voglio troppo bene!
Gli serve una dritta con un bel rovescio vedrai come impara!
Papa’ non toccare mai più mio figlio!

“Fanculo. Se questa è la famiglia del 2011 mi fa cagare. Nossignore qui non ci sto! 70 anni? Sono i nuovi 50.
Non ho bisogno di voi idioti pusillanimi del cazzo. Ho visto la guerra io. P&%$£a la Madonna!”

Non sentiva sua figlia da 10 anni ormai. Si era ritirato a vivere in montagna, in una casetta che si era preso in un buco di culo di posto.
Dieci anni e ancora non riusciva a gustarsi la sua caramella preferita.
La dolcezza della caramella e l’amarezza della vita. Che mix schifoso.
Ma questo non lo accettava il vecchio Thomas.
Era troppo orgoglioso per ammetterlo.
“Sto bene così. Parenti serpenti. La famiglia è una vita di compromessi. Meglio un cane come figlio che una figlia cagna…”
E altre cazzate del genere che avevano il compito di spazzare via i momenti amarcord.
“Se lo scorda che la chiami quella stronza! Non mi rivede più, neanche da morto.”

Ed eccolo qui con una caramella stretta nella mano sinistra e un biglietto aereo per Honolulu nella destra.

L’autoparlante dell’aeroporto di Villafranca chiama il suo volo.

Doveva andare via. Non gli bastava più la casetta nel buco del culo del monte. Le sue caramelle erano troppo amare.

Sua figlia non si faceva sentire da anni. Nemmeno per Natale.
Se dovesse stare alla parola data non avrebbe nemmeno presenziato al suo funerale.
“Cancellare dalla propria vita suo padre, che stronza!”

Scuote le spalle, come per liberarsi dalla polvere.

“Honolulu arrivo!”

Si infila in bocca la caramella…e…Il gusto di pino pungente come il ghiaccio.. quel sapore delizioso…. che gli invade la gola, il naso, la mente…

Nessun pensiero negativo per un attimo… finchè non si accorge di avere sete.

domenica 5 giugno 2011

Il sogno


"Rispondi, dove sono le caramelle? Rispondi!!" Quegli ecoterroristi avevano colpito ancora, tutto il carico di caramelle era andato perso, l'avevano rubato. Quel lungo viaggio era stato inutile. Le caramelle ormai si estraevano solo oltre l'oceano, in quel posto inospitale, e bisognava trasportarle fino al "continente", un viaggio lungo e logorante. Gli ecoterroristi sostenevano che bisognasse passare a forme di energia alternative, poichè la combustione degli zuccheri stava portando il pianeta verso una fine precoce; la CO2 prodotta stava saturando l'atmosfera, dicevano; presto non ci saranno più caramelle da estrarre, dicevano; il pianeta si stava riscaldando, dicevano. Io non mi ero mai posto il problema, ero semplicemente il capitano di una nave, che solcava quella distesa liquida immensa per trasportare quello che gli dicevano di trasportare. Mi avevano sequestrato la nave, il carico, e di conseguenza tutti i soldi che ci avrei fatto, non ero affatto contento. E poi non ci credevo a questa storia, i capi politici sostenevano che le miniere di caramelle sarebbero durate per centinaia di anni ancora, e le equipe di scienziati del governo rassicuravano tutti riguardo il surriscaldamento del pianeta ed il livello di CO2; io credevo a loro, perchè avrebbero dovuto mentire? Non avrebbe proprio alcun senso. "Rispondi, dove sono le caramelle? Rispondi!!" Il mio capo continuava a ripetere la stessa domanda in continuazione. "Le hanno rubate" dissi per l'ennesima volta, "Insieme alla mia nave".

sabato 4 giugno 2011

Pizza ad omicidio

“Rispondi, dove sono le caramelle, rispondi!”. L'aria in quella stanza ormai si tagliava con un coltello. “Allora, tirale fuori!” disse la signora Mc Lindsey verso la signorina Faraday. Tutti si trovavano intorno al massiccio tavolo di mogano, a parte uno ovviamente.

Tutto era iniziato con un invito a cena, fra i cinque invitati c'erano i migliori detective in omicidi della Scozia. Il padrone di casa, un ricco scrittore di romanzi gialli, li aveva invitati per una consulenza sul suo nuovo libro. Per non essere disturbato, quella sera aveva congedato la servitù, avrebbe ricevuto lui gli ospiti. Il primo ad arrivare era stato il detective Richmond, il quale incarnava tutti gli stereotipi classici dell'investigatore privato. Lungo trench color panna, cappello a tesa larga in testa e una pipa di radica in bocca. Aveva esordito facendo argute osservazioni sull'enorme villa in cui si trovava, nelle vaste campagne scozzesi, si era poi accomodato nello studio fumando l'aromatico tabacco della sua pipa. Durante una breve conversazione avevano sentito suonare alla porta, era la signorina Faraday con il suo storico ragazzo, nome d'arte Mr. Mistery. Erano conosciuti in tutto il paese come la “Coppia del mistero” poiché avevano indagato con successo ai più intricati casi d'omicidio, dove una componente paranormale la faceva da padrone. Subito dopo era arrivata la signora Mc Lindsey, impellicciata ereditiera che più per noia che per passione, aveva iniziato ad aiutare la polizia nei casi in cui era coinvolta l'alta società. Portava al guinzaglio un piccolo barboncino. Ultimo di tutti, in estremo ritardo sulla convocazione, si era presentato alla porta il trasandato investigatore italo-scozzese, il signor Argentoni.

“Bene, ci siamo tutti. Possiamo trasferirci a tavola” - aveva detto l'importante scrittore - “Come avete potuto vedere, ho congedato la servitù, servirò io stesso la cena. Se ora volete scusarmi, tornerò con gli antipasti”. Si allontanò lentamente mentre gli ospiti prendevano il posto che gli era stato assegnato a tavola.
Passò quasi un'ora prima che i commensali si accorsero dell'incomprensibile mancanza del signor Wheeler, il padrone di casa.

“Dovremmo andare a cercarlo...” disse sospettosa la signora Mc Lindsey “...e se si fosse sentito male? Se si fosse ferito in cucina?”
Argentoni rispose: “In cucina non c'è, sono appena passato lì davanti per andare in bagno”
“Che padrone di casa cafone!” sbottò Mr. Mistery “Ci lascia qui per seguire i suoi affari! Ora vado proprio a dirgliene quattro... Non mi è mai stato simpatico!”
“Stai tranquillo, non ti arrabbiare, avrà dovuto rispondere ad una telefonata importante.” lo ammonì la sua ragazza, accarezzandolo su una spalla. Lui, come se non avesse ascoltato una parola, si alzò, strisciò rumorosamente la sedia sul pavimento e salì le scale che portavano al piano sovrastante.
A quel punto il detective Richmond disse “credo che il signor Wheeler sia antipatico a tutti, a quanto mi è dato di sapere ha pubblicato una storia su ognuno di noi, senza il nostro consenso. Andremo a cercarlo, io mi dirigerò verso la cantina, voi provate altrove.”
Udite quelle parole si alzarono tutti dal tavolo e si sparpagliarono per la casa.
Dopo soli alcuni minuti un grido si alzò dalla cucina, era la signora Mc Lindsey, mentre il suo cane abbaiava in maniera sguaiata. Tutti accorsero il più presto possibile e quello che gli si palesò davanti agli occhi fu agghiacciante per i più. Il signor Wheeler era riverso in un'abbondante pozza di sangue con un coltello da cucina impiantato fra le costole. Proprio in quel momento suonarono alla porta. Richmond disse: “non aspettiamo altri ospiti, chi potrebbe essere?”. La signorina Faraday, ancora un po' scossa gli rispose “forse Wheeler ha visto il suo aggressore e ha chiamato la polizia! Dovremmo andare tutti ad aprire.”
Si spostarono verso l'ingresso ma davanti alla porta non trovarono la polizia bensì un garzone delle pizze con una consegna per il padrone di casa. “Il signor Wheeler ha ordinato una pizza meno di un'ora fa” - disse - “Volevo scusarmi personalmente con lui del ritardo, come sapete la sua casa è molto lontana dal paese”. Prese veloce la parola Argentoni “il signore ora è irreperibile, pagheremo noi la sua ordinazione e gli riferiremo le sue scuse.” tirò fuori una manciata di sterline dalla tasca, prese la pizza e salutò il garzone, chiudendo la porta alle sue spalle. Mr. Mistery allora disse sbattendo i pugni su una credenza “Perché avrebbe dovuto ordinare una pizza se sapeva che lo stavamo aspettando in sala per gli antipasti? Veramente una persona insopportabile!”
“State tutti tranquilli!” gridò la signora Mc Lindsey “è ovvio che l'assassino si trova ancora in questa casa, ed è uno di noi!”
“Io credo che il principale sospettato sia il signor Argentoni” irruppe il detective Richmond “lui è passato dalla cucina all'ora del delitto e non ha un alibi... È lui il colpevole!”
“Come si permette!” gli rispose innervosito l'investigatore di origine italiana “Ci siamo tutti allontanati dal tavolo e nessuno di noi ha un alibi. Potrebbe essere stato chiunque! Consiglierei di calmarci e sederci di nuovo ai nostri posti, per ricostruire tutta la serata.”

La ricca signora Mc Lindsey era la più agitata di tutti “Mr. Mistery è colui che di più lo aveva in antipatia, lo ha detto più volte durante la serata! E la pizza? Cosa c'entra la pizza!”
“Ce l'avevamo tutti con lui! Perché ora ve la prendete con me!” disse deciso Mr. Mistery “Secondo me la pizza è un indizio. Come al solito l'assassino tenta di lasciare degli enigmi per la soluzione del caso.”
“Certo! Ci succede sempre!” disse la signorina Faraday “Io continuerei ad indagare sulla pizza!”
Richmond le rispose: “Ma che scemenza! In cucina c'è un cadavere potenzialmente pieno di indizi! Andiamo a controllare quello!”

Si mossero tutti verso la cucina ma lì trovarono tutto ripulito ed un corpo mancante. “Proprio paranormale! Come nei nostri casi!” gridò la compagna di Mr. Mistery.

Il signor Wheeler a quel punto uscì da un ripostiglio, battendo le mani. “Bravi, bravi! Ora ho una storia interessante per il mio nuovo libro. Un gruppo di detective imbranati che non riesce a distinguere un uomo vivo da uno morto e un po' di salsa di pomodoro dal vero sangue.”. Ridendo fragorosamente si avvicinò alla porta d'ingresso, aprendola. “Potete andarvene tutti ora, non c'è alcuna cena per voi, ma vi ringrazio molto, non avrei saputo cosa scrivere senza la vostra performance di stasera”. Pian piano uscirono tutti dalla casa, in silenzio, un po' per rabbia un po' per vergogna. Argentoni prima che venisse chiusa la porta si girò e disse “...e la pizza? Cosa c'entrava la pizza?”. Il signor Wheeler fece un grande sorriso e disse “Niente, quella è la mia cena. La ringrazio per avermela pagata”.

Rispondi. O reagisci.

-Rispondi, dove sono le caramelle, rispondi!-

L’impotenza non è madre del vizio, nemmeno il padre. Gianni, tabaccaio ormai dalle sigarette stanche e dalle bilance irrequiete, non rispondeva. Era inerte, passivo, stanco. Stanco di essere straziato da questi bambocci cresciuti male che, arrogantemente, pretendevano altro e solo che caramelle. Nient’altro. La fonte di giocosità dei bambini, dai 16 ai 35 anni, era, per l’appunto, privare e saccheggiare il reparto dolciumi del tabaccaio del quartiere. Bello il tempo in cui, pensava Gianni, si vendevano i sali e i tabacchi; magari anche qualche giornale ogni tanto, qualche rivista speranzosa. Invece ora nulla, il tabaccaio era privo di energie, di caramelle, di sali e di tabacchi.

-Allora ste caramelle me le dai si o no? – gridava la voce della prepotenza infantile.

Gianni non rispondeva. Ancora pensava. Perché schiavi di bambini non cresciuti? Perché la sottomissione di aborti mistificati al naturale? Dov’è l’intersezione storica? Il passaggio lento della trasformazione bambinesca di ogni bisogno? Dove? Quando? Quando le caramelle sono diventate bene di prima necessità? Il pane non è più buono? non è più necessario? non è più puro con le sue ditate fermate da calori fornaci?

-Voglio le caramelle!! Dammi ‘ste caramelle!! Allora? – insisteva il rappresentante della prole indegna.

Analiticamente Gianni conosceva il contenuto plastico all’interno di ogni caramella: probabilmente zucchero, colorificanti, additivi di ogni genere e glucosio. Che bella è la parola glucosio, pensava Gianni. E’ una parola che rimanda ai glutei formosi di qualche mamma incinta, alle glasse sane che divorava da piccino. Forse le caramelle andavano letteralmente a ruba proprio per questo, per il fascino del glucosio. Gianni, no. Non perderti. Non ha senso. Qui non ha proprio senso. Concentrati sull’interlocutore. Dai Gianni rispondi! Dai Gianni reagisci!.. Gianni dì qualcosa! La bocca s’era impastata, il pensiero era lucido su quel bischero pieno di brufoli al di là di un desertico bancone :

-Dammi le caramelle! Dammele! – il ragazzino impertinente non mollava.

Gianni, si chinò leggermente. La mano destra in fondo al cassetto trovò l’oggetto di sacralità terrene. Lo prese e sparò. S’avvicinò verso il ridicolo cadavere con il pugno sinistro intriso di orsetti gommosi. Ficcò uno a uno i 200 orsetti gommosi nella morta bocca ferrata.

-Eccoti le caramelle. Stronzo.-