L'incipit della settimana

ELABORATO TESTUALE DI TOT PAROLE: "L'antico vaso andava salvato"
STRINGA AUDIOVISUALE DIGITALE PROVENIENTE DA QUALCHE SERVER: "Youtube"
RETTANGOL CARTPLASTIC CONN'IMMAGIN STAMPAT QUAS BEN:"Perdita di tempo"
Ctrl+c, Ctrl+v, STAMP-E-PORT-LE-FOGL:"Glutammati sto sodio"

lunedì 27 settembre 2010

due fratelli

A- Io sono bello, io sono giovane, io ho tutto… Sono state le ultime parole che ho sentito uscire dalla tua bocca quarant’anni fa…prima che ti imbarcassi.
B- Fanculo, non ti vedo da una vita e mi ricordi queste stronzate? Avrei preferito un ciao.
A- Sono tuo fratello, e non ho più avuto tue notizie, ti aspettavi un mazzo di fiori?
B- Figurati, al massimo mi sarei aspettato un pugno in faccia. Quindi va bene cosi, Fratello.
A- Non sei cambiato. Per nulla. Sotto quelle rughe sei sempre il solito stronzo.
B- Punti di vista.
A- Già. Senti…Si gela stanotte, dai sali in macchina, andiamo a bere qualcosa che ci scaldi un po’. Poi ti porto a casa.
B- Ok. Ma dimmi, Fratello, c’è ancora quel parchetto all’angolo tra via Tirana e corso S. Luca? Ti ricordi, dove ci portava mamma dopo la scuola…
A- No.
B- No?
A- Il tempo passa. La gente cambia, i posti cambiano. Anche qui in Italia cosa credi?
B- E’ la vita che se ne va. E noi con lei…!
A- Cosa ti devo dire…E’ una merda! E noi siamo vecchi anche solo per sentirne la puzza. Superati: come il tuo parco.
B- Hai ragione..siamo solo dei vecchi…
A- Che fai?adesso ti lamenti? Tu? Che dovevi conquistare l’America? Lasciamo perdere…Invece, dimmi, cosa hai fatto in questi ultimi lunghi quarant’anni…
B- Niente, niente…ho solo bevuto tanto caffè.

IO

“Io sono giovane. Io sono bello. Io ho tutto..

Io sono il più grande sostenitore dell' egoscienza;

tutta colpa di Nietzsche che me la pose sul piatto negli anni liceali.

Il mio interesse sono Io, i miei movimenti, il mio serbatoio celeste.

Ho capito di dover indagare su di me quando all'esterno non ho visto nessuno specchio, nessuna similitudine molecolare.

E così parlo più volentieri con me che con la costellazione di pagliacci là fuori, a parte qualche rara occasione.

Sono narcisista: Boccadoro mi tediava.

Costruisco in continuazione la mia immagine, giro sempre attorno al mio ombelico.

Forgio pensieri circolari: tutti partono e ritornano al mio Io.

Sono un irritante presuntuoso: svaluto ogni improvvisazione esterna del bello.

Non commetterò lo stesso errore di Dorian Gray, imprigionato dalla sua bellezza, aspettando di distruggere la sua immagine.

Io sposo l' autosufficienza e comunico solo ogni tanto con la storia, con qualche biografia di anime elette.

Affino nel silenzio le mie spade, lucidandole ogni giorno, per colpire l'ignoranza esterna e volgare.

La psicoanalisi, Freud e i suoi seguaci mi grattano la fronte.

Ma ciò che dovevo scoprire di me è già stato scoperto, ora penso solo a quando la morte mi staccherà dal mio Io.

“Io” è il pronome personale che preferisco, il “Tu”, il “Noi”, sono solo connotazioni ipocrite che la grammatica scolastica mi ha imposto.

Solo Io sono il padrone del mio mondo, non voglio interferenze spicciole d'affetto né pulsioni perdenti d'amore.”

La dottoressa Agnese lavorava nell'ospedale psichiatrico di Sant'Antonio da ormai vent'anni; era abituata ai gridi satanici di quelle mura, alle bave nervose dei suoi pazienti, ai colpi di testa ripetuti sul tavolo.

Ma gli scritti che trovava scolpiti nel muro della stanza di quel ragazzo, le bruciavano i nervi.

Nessun caso da lei affrontato presentava margini così assoluti di isolamento.

Quel ragazzo ossuto e spigoloso non interagiva con lei in nessun modo, ma il suo ruolo di salvatrice di anime le era sempre riuscito bene. Non avrebbe fallito con il ragazzo, a costo di fare straordinari e di ricopiare meticolosamente in cartelle tutti gli sputi che le lasciava nel muro.

Il ragazzo era estremamente colto, sottolineava e strappava pagine di libri in continuazione, le nascondeva tra le lenzuola.

Non voleva ammettere nessun tipo di debolezza, di inclinazione caratteriale.

Se ne stava tutto il giorno a giocare a scacchi con il suo Io, non rivolgeva nessuna parola agli altri, rifiutava i psicofarmaci, negava colori e carezze.

Era di una bellezza ammaliante, un Apollo terreno che contrastava con i capelli unti, le bocche storte, le facce cadenti e le gobbe arcigne degli altri pazienti.

Ma la sua bellezza contrastava anche con il buio cenere della sua gabbia: la sua testa che balzava sopra ogni pensiero.

Ormai era più di un anno che lo aveva in cura. Tutte le tecniche che con gli altri pazienti prospettavano miglioramenti, con lui erano solo ripetuti buchi nell'acqua.

Durante le ore di seduta obbligatoria lo provocava con qualsiasi ingegno mentale, ma la psicoanalisi per il suo caso non dava risposte.

E così la seduta finiva con un soliloquio della dottoressa che accumulava rami secchi nella testa.

Solo una volta il ragazzo pronunciò una parola, lanciandola a velocità irruenta nella stanza, quasi per compassione per i teneri sforzi della dottoressa.

Era un'unica parola, senza orpelli e senza parafrasi: “Rivoluzione”.

Vomitò quella parola con un filo di voce, si alzò di scatto, ghignò saccente e girò le spalle, lasciando la dottoressa con quel solo unico elemento che le premeva sulle tempie.

Rivoluzione da cosa?

Per chi?

Ora?

Rivoluzione culturale? Psichica?

Rabbiosa?

Dopo il lancio di quella parola seguì il nulla, se non contorsioni di vuoti e di silenzi.

Erano passati due mesi e la dottoressa stava mollando, riconoscendo i limiti della sua missione. Chiuse la cartella clinica, erano le otto, doveva tornare a casa a baciare i piedini della figlia, a far riposare le sue domande, a bere del tè caldo.

Decise un ultimo tentativo, si precipitò decisa e a passo veloce nella stanza del ragazzo e urlò: “ Rivoluzione dall'Io?!”

Dopo pochi istanti vide il corpo neoclassico del ragazzo nude e molle appeso al soffitto, con il viso pendente e un lembo di lenzuolo girato attorno al collo.

Il suicidio della rivoluzione.

La dottoressa si chinò al suolo per il tremolio improvviso delle gambe.

E pianse.

Pianse per quell' inconciliazione sospesa dell' Io.

L' atto è creativo

Io sono giovane. Io sono bello. Io ho tutto. Meglio, avevo tutto. Ero possidente di un regno che non aveva confini, dove i lama e le mucche facevano all’amore con la stessa frequenza con cui brucavano i cespugli dell’infiniti prati d’erba; dove i leoni e le gazzelle si schizzavano l’acqua degl’innumerevoli corsi con la semplicità e la naturalezza di un bebè che cerca il capezzolo materno. Il mio regno non aveva insegne e/o stendardi, né tantomeno eserciti dalle lunghe lance o baionette veloci o devastanti mortai o ingiusti droidi: i sostantivi guerra, male, violenza, schiavitù non risiedevano tra le pagine del dizionario del mio regno. La condivisione e la complicità di ogni essere soccombeva alla condivisione e complicità di ogni essere. Io dominavo decidevo perché ero il primo, il bello, l’eletto fondatore del regno.

Le giornate scorrevano. Gl’anni pure; i secoli con loro. Ed io rimanevo giovane bello e possessore di tutto. Le uniche gioie erano erette da orgasmi plurimi forniti e elargiti dalla mia signora che mi fu sempre accanto, fin dall’inizio. Perché , probabilmente paritetica di me, era la prima, era la bella, era la giovane. Purtroppo o per fortuna gl’orgasmi rubati alle membra di un'unica donna non vanno a riempire il vuoto di un’esistenza eterna: di fronte alla noia immortale io, giovane e bello, non avevo né alfieri né torri né regine da muovere contro. Insomma non ero armato a combattere la noia: non avevo puttane da accarezzare, droghe per anestetizzare un non essere innato, genti o popoli da conquistare perché tutto ciò che esisteva m’apparteneva. Ero eterno e solo. E solo nell’intento e nell’azione m’annoiavo di parole argute, di nullità ostentatamente felici, di una perfezione costruita, dettata, premasticata. L’insolvenza è parte del vizio, ma del vizio io non ero a conoscenza, completamente ignaro che esso potesse in qualsivoglia modo sopperire ad una nudità stufante.

Un tempo tutto era così. Ma il tempo non vuole eleggere il rimpianto a protagonista: è il ricordo che recita la parte di unico ruolo principale: il ricordo di quel giorno in cui decisi di abdicare in favore della spietatezza dell’egoismo e dell’ingiustizia:

Lei era di una bellezza senza nome, era di una nudità accecante, di un’eleganza floreale. Per ciò, in quel giorno, in quel ricordo, decisi di morire e vivere per lei. Lei era Eva. Ed io gustai e godei della mela mortale che m’offrì.

sabato 25 settembre 2010

sulla strada

Appena ripreso i sensi si accorse di non riconoscere il luogo in cui si trovava.

Era un usanza che gli si presentava spesso, sopratutto tutte quelle volte che esagerava con i bicchieri di vino. La testa ronzava. Scricchiolò le spalle, sistemò le membra, apri le palpebre. No, quel luogo proprio non lo conosceva. Tutto normale.

Si era sempre considerato un apolide, aveva noleggiato parecchi cieli e camminato per diversi marciapiedi, nessuna dimora fissa, né il buon giorno della mamma, né le stesse lenzuola. Lui era fatto cosi, abbandonava ogni posto prima di potercisi affezionare.

Si chiedeva spesso dell'esito della sua vita vagabonda, quanto ancora il suo essere cane randagio l'avrebbe soddisfatto.

Amava il viaggio per godere di un continuo e piacevole solletico al cervello, per poter accumulare nella sua memoria più visi possibili, più raggi, più movimenti.

Girava con uno zaino consunto, delle buone scarpe da camminatore, con una decina di libri ( l'unico peso che riteneva lecito da sostenere), con il pollice alzato e non sentiva nessun tipo di appartenenza, se non quella al suo mondo, ai suoi pensieri.

Aveva percorso più tratte, e si considerava giovane e fortunato da poter progettare altri passi.

Aveva perso completamente la dimensione temporale, e non era nemmeno cosi bravo da leggere l'altezza del sole, ma sapeva che a qualsiasi ora del risveglio si sarebbe posizionato sulla strada.

Si trovava il palato secco .Scemo: non si preoccupava delle conseguenze dell'alcol, ma solo dei suoi benefici.

Succhiò con avidità le ultime gocce della borraccia, e si chiedeva quando Dio gli avrebbe fatto incontrare una fontana.

Rise. Rise per non sentirsi ancora più solo.

Caricò lo zaino, premette i polpacci al suolo, scrollò i capelli dagli occhi, e rise di nuovo.

Era ancora sulla strada, il suo territorio.

Non si era mai davvero chiesto delle ragioni della sua partenza, il suo vecchio gli disse che un giorno l'avrebbe sentita cosi provenire da dentro, senza un razionale bilanciamento di interessi.

Non aveva particolari rancori contro la società che i suoi genitori gli avevano presentato come pacchetto regalo alla nascita, non sbandierava cartelloni alla ricerca di riconoscimenti o rivendicazioni, non rigurgitava asili politici. Era solo un apolide che non riusciva ad infilarsi con facilità nei ripetuti discorsi della sua ormai vecchia quotidianità .

Era per di più silenzioso: amava le parole e le sceglieva con una cura quasi ossessiva. Generalmente non sbrodolava ideali da bancarelle.

Definiva la sua libertà come quella di un cane randagio, nessun collare, nessun padrone.

A volte la sua solitudine gli faceva brutti scherzi. La carezza era umana, la cura di anime era umana, Lui era umano, perciò spesso piangeva. Nella stessa misura in cui rideva, sempre per sentirsi meno solo.

Spesso incontrava il calore umano, lo leccava nei sorrisi delle persone che popolavano le strade, lo raccoglieva tra i suoni del vento, lo prendeva in affitto tra gli sguardi.

E poi c'era sempre il sole, che a momenti alterni gli baciava il viso o gli scaldava le spalle.

Era sempre stato un gran esperto nel raccogliere il più possibile emozioni sulla strada.

Era innamorato degli sbalzi della sua vita e dell'interruzione di ogni ragionevole previsione.

Gli incontri che viveva balzavano improvvisi , e viveva numerosi racconti di queste persone che lo raccoglievano in macchine scassate e in camion rumorosi, come se lui fosse segno.

Le persone che si fermavano spesso erano timorose ( le storie lugubri di un autostoppista che deruba e massacra il povero samaritano erano risapute) ma poi la curiosità e il buon cuore prevalevano, e cosi alla fine del passaggio sembravano avere i visi più distesi, felici della loro buona azione. La maggior parte dicevano che chi da amore riceverà amore.

Per di più persone semplici: braccianti abbronzati, operai odoranti di tabacco, macchinisti stanchi, pescatori silenziosi, qualche famiglia allegra e qualche gruppo di ragazzi curiosi. Tutti con immensa voglia di raccontare e di essere ascoltati. Nessuna domanda gli veniva rivolta.

Mai persone ricche: il denaro è la protezione di coloro che hanno paura di ciò che non conoscono. Almeno queste era una della sue conclusioni.

Avrebbero potuto definirlo il miglior sociologo dei suoi tempi, perchè Lui le persone le ascoltava e le toccava. Nella preparazione alla carriera politica, pensava, si dovrebbe imporre un anno di autostop, cosi i politici avrebbero potuto conoscere i loro datori di lavoro.

Sapeva che un giorno si sarebbe fermato, tutti hanno il diritto di riposare, ma gli sarebbe piaciuto riposare dentro una persona, per continuare con lei il suo movimento.

I pentiti

Ancora intorpidita dal sonno si diresse verso la porta di casa, curiosa di sapere chi potesse essere a quell'ora del mattino. Aprì la pesante porta scura. Un uomo. Baffetti curati, abbigliamento decisamente demodè, quasi ridicolo, un profilo austero ostinatamente rigido. Le ci volle un pò prima di capire dove fosse, chi era lei e chi era l'uomo che le stava davanti, silenzioso come una statua. Dopotutto, si era appena svegliata. Fissò nel vuoto per una manciata di secondi quando, all'improvviso, ecco che spalancò gli occhi e non riuscì a credere a ciò che stava vedendo:l'uomo davanti a lei era proprio lui, era Josip Djugashvili, per amici e nemici, semplicemente, Stalin. L'uomo non modificò la sua espressione nemmeno per un istante, non mostrò alcun movimento muscolare simile ad un sorriso ma, con assoluta spontaneità, entrò in casa. Andò spedito verso la poltrona più comoda del salotto, si sedette e, sempre in silenzio, aspettò. La ragazza, completamente impietrita, pensò come prima cosa da darsi un pizzicotto sulle coscie calde di letto, ma non riuscì a fare altro che raggiungere l'angolo del suo salotto dove sedeva nientepopodimeno che Stalin e prese posto, muovendosi come un automa, sulla poltrona scomoda di fronte al grande dittatore. Senza nessuna presentazione, o tantomeno spiegazione, l'uomo baffuto cominciò a raccontare alla ragazza di tutto il male che aveva fatto. Parlava allo stesso modo in cui si parla ad un prete in un confessionale, parlava e si pentiva. Finito l'elenco di atrocità piccole e grandi, inedite e conosciute, com'era arrivato, se ne andò. La ragazza rimase per un minuto, o forse un'ora, o forse tutto il giorno, incollata alla poltrona, con la bocca asciutta. Era completamente shockata. Mai a nessuno era successa una cosa del genere. Cercando di convincersi della propria sanità mentale, tentò con mille sforzi di passare il resto della giornata pensando il meno possibile all'accaduto. Il giorno dopo, alla stessa ora del mattino,lo stesso trillo del campanello. Senza accendere il cervello si trascinò, scalza, verso l'uscio e aprì. Un uomo in abiti romani, un peplo bianco lungo fino ai piedi e una stupida corona d'alloro in testa. "Oh Gesù", pensò, "è Nerone". Con la stessa dinamica del giorno prima il personaggio entrò con passo sicuro nella dimora della povera ragazza, a quel punto completamente sbalordita, e si sedette. Allo stesso modo, l'antico romano cominciò a scorrere verbalmente le porcherie che aveva commesso, dimostrando pentimento. La ragazza non fiatava. E così successe per i dì a venire. Un giorno aprì la porta a Napoleone, il giorno successivo sedeva sulla sua poltrona preferita il generale Custer, un'altra volta si trovò ad ascoltare i peccati di Al Capone. Tutti i personaggi nominati nei libri di storia stavano passando da casa sua. La ragazza, dopo la terza o quarta visita bizzarra, smise anche di domendarsi se fosse impazzita, o se fosse un sogno, o se fosse morta e finita in uno specie di psichedelico aldilà. Oramai accettava questa particolarissima routine e, giorno dopo giorno, cominciò a guardare a quelle persone sempre più come a esseri umani e meno come personaggi da manuale di storia. Nel suo silenzioso ascolto comprendeva come ogni essere umano sia in realtà diabolico, perchè potenzialmente capace di azioni diaboliche. Capì come ogni uomo o donna sviluppi atteggiamenti e intenzioni negative. Ognuno nel suo piccolo è distruttivo, solo che in alcuni esseri umani la combinazione di fattori negativi, interni, esterni, lunari, divini, casuali, sfocia nella distruzione estrema e compulsiva di qualcosa, di intere masse di uomini, ad esempio. La ragazza, nel suo silenzioso ascolto, accoglieva in sè la storia intera, una storia disperatamente umana.

mercoledì 22 settembre 2010

Ciò che è reale è razionale

Appena riprese i sensi si accorse di non riconoscere il luogo in cui si trovava. Stava camminando quando successe. Come se qualcuno avesse premuto un interruttore al suo cervello e ai suoi sensi. Ma questo non lo turbava. Continuo a camminare come se fosse la cosa più normale ed ordinaria da fare. Non lo toccava sapere come ciò fosse possibile, dove fosse o che senso avesse. Questo semplicemente perché nemmeno gli pareva strano. Si guardò attorno, riconobbe una via della sua città. Era giorno.Si guardo le mani. Nella sinistra stringeva delle chiavi, familiari molto anzi, erano le chiavi della sua auto. “Devo prendere la mia macchina”. Il pensiero si accese nella sua mente come una lampadina, non fu frutto di una congettura, di un ragionamento e neppure un ricordo. Lo doveva fare e basta. Arrivò ad un incrocio. Dall’altra parte della strada la vide, la sua auto. Strano luogo per parcheggiare. A breve distanza da casa sua, lontana da qualunque posto che era solito frequentare e inesorabilmente sul marciapiede. Non si chiese che ci faceva li. Attraversò la strada. Senza dar credito a macchine e semafori o strisce pedonali. Non successe nulla. Poteva forse essere diversamente? Ancora 50 metri lo dividevano dalla sua automobile. Prese tra pollice ed indice la chiave dell’auto e premette il pulsante dell’apertura centralizzata. La macchina rispose facendo lampeggiare le 4 frecce. Arrivò all’auto. Un colpo lo prese al petto. forte e profondo. Non era la sua…. Ma come è possibile? Gli sembrava decisamente la sua auto ne era certo….aveva anche risposto all’apertura a distanza…poi l’aveva parcheggiata proprio li! Dov’è? Dov’è? Con tutto quello che aveva speso per acquistarla..rubata forse? E questa qui? Di chi è? La fissò attentamente. Era nera come la sua. Forse il colore lo aveva ingannato. Era un modello mai visto prima. Alta come un suv, nuova dalla linea, ma decisamente malconcia, ammaccata e impolverata. Salì, inserì le chiavi nella fessura dell’accensione e la macchina si accese. Non si stupì affatto. Da qualche minuto stava perdendo fiducia nella veridicità dei suoi ricordi. No non doveva farlo. Non capiva ma non doveva farlo. Devo tornare a casa. Devo capire. Alla macchina penserò dopo.
Prendere l’autobus era stata forse una buona idea. Poteva così dedicare un po’ di tempo a guardarsi intorno per provare a riconoscere qualcosa. Era al piano superiore di un vecchio autobus arancione, non ricordava di averne mai visto uno del genere. Non si curò troppo di questo dettaglio. Era più intento ad osservare le vie del suo quartiere. Le riconosceva, ma erano al contempo diverse, come una città ricostruita per un set cinematografico… Era nervoso. In mano stringeva ancora le chiavi dell’auto. La sua cazzo di auto dov’era? L’autobus svoltò in un viale ai lati gremito di auto parcheggiate... Quasi nella speranza di trovarla li, cominciò a premere il tasto dell’apertura posizionato sulla testa della chiave, sperando di ricevere il disperato richiamo luminoso della sua auto, quel maledetto lampeggio delle frecce…Ed eccolo. Lo vide, arancione, ma non era la sua macchina. Riprovò, eccolo, di nuovo un'altra macchina…ancora e ancora….ma mai lei. Tutte lo salutavano beffarde in fila…una dopo l’altra. O il suo telecomando poteva aprire tutte le auto….o stava impazzendo. Ormai l’autobus era vicino a casa. La sapeva che avrebbe trovato la risposta che cercava. Attraversò l’ingresso del suo condominio, poi prese l’ascensore. L’ascensore cominciò a salire. Provò a ragionare… Tutto era cosi strano, cosa ci faceva li? Prima? Non ricordava molte cose…non ricordava di aver attraversato la strada, non ricordava di essere salito o sceso dall’autobus e non ricordava nemmeno di aver incrociato anima viva…come se esistesse solo lui.

Forse, si di sicuro, deve essere un sogno. Piegò le braccia a novanta gradi…apri le mani e si fissò i palmi. Erano così veri, era tutto cosi vero e vivido… sentiva l’aria entrare e uscire dal suo naso, sentiva l’ascensore viaggiare.

No non era un sogno era tutto vero. E in quel momento si svegliò.

lunedì 20 settembre 2010

fra sogno e realtà

"Appena riprese i sensi si accorse di non riconoscere il luogo in cui si trovava"

Si guardò intorno e immediatamente capì che la sbronza del giorno precedente aveva fatto fin troppo il suo dovere. La luce ormai aveva riempito la stanza e il sole già alto filtrava dai pesanti tendaggi. Sdraiato sul tappeto sporco di chissà quali ambigue sostanze cercò di fare il punto della situazione. Ieri sera un po’ preso dallo sconforto aveva deciso di uscire e lanciarsi in una festa improvvisata a casa di amici. Un bicchiere tira l’altro e così in poco tempo le cose si deformavano, i mobili giravano, le persone distorcevano la voce e le sigarette continuavano a cadere di mano. Si ricordava però solo un ultima scena lui una ragazza e un ballo sfrenato sul tavolo.. ma quella non era la casa che ricordava. Dove diavolo era finito? La testa gli doleva molto e l’alzarsi sembrava veramente utopico. Improvvisamente girò la testa e vide che non era solo in quel sudicio tappeto. Una chioma bionda gli sfiorava il viso e a questa un corpo sinuoso e candido vi era attaccato. Piacevolmente colpito dalla situazione cercò di guardarla meglio per tentare di ricordare gli avvenimenti precedenti e magari riassaporarli poiché con un corpo così sarebbe veramente stato uno scemo a lasciarsi sfuggire una tal occasione. Con la coda dell’occhio tentò di sbirciare il resto.. la ragazza era coricata leggermente di fianco, gli volgeva le spalle bianche ed era avvolta solo sulle cosce da un lieve lenzuolo...ma non ricordava che fosse quella la donna con cui si era lanciato in balli provocatori e un po’ troppo sferzanti per la sua età. Così decise di farsi forza, superò i conati di vomito che gli venivano, i giramenti di testa e decise con delicatezza di scostarle i capelli dal volto per intuirne i lineamenti. Due occhi bianchi con una piccola e ferma pupilla lo travolsero. Occhi immobili, pietrificati. Dalla bocca carnosa e perfetta un rigagnolo di sangue colava sul collo lungo e sublime della ragazza. Improvvisamente l’uomo si alzò cercò di spostarla ma un corpo ormai freddo non rispondeva agli stimoli e ad ogni spinta dell’uomo ricadeva pesante sul tappeto. L’uomo si guardò le mani.. ormai non riconosceva che sangue su di esse, sangue scuro, amaro. E vide che i suoi vestiti ne erano pieni. Ed il tappeto ricoperto anch’esso, anch’esso di orrore omicida. Ricadde su se stesso accanto all’ormai cadavere, le mani al volto, le lacrime anch’esse troppo impaurite per scendere..che diavolo era successo?

La donna era stata evidentemente pugnalata più e più volte al petto e al ventre. I seni che qualche ora prima erano caldi e sodi, che avrebbero creato voluttà in ogni uomo per la loro prorompenza e pienezza ora erano squarciati e inzaccherati in un color purpureo che inondava tutto il circostante. Non avrebbe mai creduto che un corpo umano potesse perdere così tanto sangue. Cercò di riordinare le idee.. non poteva certo essere stato lui.. cercò di alzarsi, un forte capogiro lo prese ma riuscì a reggersi sulle gambe, voltò le spalle al cadavere per cercare di vedere la stanza.

Le altre finestre erano tutte coperte dai pesanti tendaggi di velluto rosso e così il sole non riusciva a passarvi. Per quanto ormai fosse pieno giorno solo la finestra sopra il cadavere permetteva di intravedere. Cercò di abituare gli occhi alla penombra, fece qualche passo e i suoi piedi nudi toccarono qualcosa di appiccicoso ma allo stesso tempo ancora fluido. Si guardò le dita e vide che il piede era totalmente coperto di un liquido rosso ormai quasi rinsecchito..

Protrasse lo sguardo qualche centimetro più avanti e una mano, un’altra mano non la sua, non quella della ragazza era distesa sul pavimento. Improvvisamente un rumore.. un cigolio come di una porta, l’uomo si affrettò verso il rumore ed un gatto vecchio e tozzo gli saltò addosso miagolando come se lo stesse accusando.. sei stato tu.. povero pazzo.. sei stato tu.. l’uomo urlò i suoi nervi ormai non riuscivano più a reggere, le mani gli tremavano, la faccia era bianca, un cencio. Non riusciva più a pensare,la donna, poi l’uomo.. com’era possibile.. in lontananza un rumore, come di una sirena... sempre più vicino alla casa.. d’improvviso si svegliò. Era stato solo un tremendo incubo.. un pazzesco viaggio del cervello sorrise fra se e se sbattendo lentamente gli occhi. Sbadigliò.. e pensò che strano credevo di essermi sdraiato sul divano ieri sera non sul tappeto.. voltò lo sguardo e una chioma bionda immobile stava al suo fianco sfiorandogli il volto...

sabato 18 settembre 2010

Biblioteca

Appena riprese i sensi si accorse di non riconoscere il luogo in cui si trovava. Questa circostanza era giustificata, del resto, da un fatto non trascurabile: quel posto lui non lo aveva mai visto, così come mai aveva veduto Città del Messico, Tokyo e le valli del Mississippi, se non su di una cartolina o sulle pagine patinate di qualche sgualcita Lonely Planet bibliotecaria, collocazione 915 e qualcosa, zona turismo della Civica Biblioteca della civile città di Verona. Ovvero nel luogo in cui stava bevendo un' amarissima brodaglia al gusto di caffè sputata fuori al modico prezzo di mezz'euro da una Necta Brio 3, ultimo stadio raggiunto dell'evoluzione della macchina distributrice di caffè, cappuccini, the e vari miscugli poco raccomandabili a chi è congestionato o soggetto a disturbi intestinali spiacevolissimi. Questo stava facendo, e nient'altro, quando un colpo netto, sulla base del cranio, d'acciaio o d'altro metallo argenteo, ferro o piombo, dando credito al ricordo d'una scia argentata passatagli davanti agli occhi, lo colse alla sprovvista, creandogli un subitaneo stato di quiete ebete e collassandogli di lì a poco le capacità sensoriali-ragionative, ossia procurandogli svenimento. Ora si ritrovava addosso i postumi di quell'aggressione: emicrania, vertigini, molto dolore ovunque, paura di non capiva ancora cosa: terroristi? ladri? teppisti? demoni? creditori?

Non era mai stato in quel posto: ma aveva tutto l'aspetto di un archivio: un enorme archivio pieno di carte e documenti, scartafacci e voluminosi quaderni, pile di fogli ingialliti e fascicoli impolverati. Una lampadina da 75 watt illuminava l'ambiente, segno inequivocabile che qualcuno sarebbe giunto a momenti a spiegargli la situazione, a tranquillizzarlo, a liberarlo... Era sveglio da almeno venti minuti, e solo in quel momento si rese conto di non essere legato, di non essere immobilizzato sulla sedia in legno e vimini intrecciati sulla quale aveva sonnecchiato per un tempo indefinito: lasciò il dolore ascendere sino alla punta estrema della calotta cranica e aiutandosi con la forza delle braccia si alzò. Si trascinò fino alla porta più vicina, stringendo forte la fronte tra il pollice a destra e le dita dall'indice al mignolo a sinistra. Si aggrappò al pomello: aprì, perchè era aperto. La luce, la luce vera del sole, lo investì di calore, stringendogli gli occhi e alzandogli i peli sulla pelle delle braccia. Si rese conto che era appena uscito dalla profonda gola delle Biblioteca.

Il sogno finiva sempre con la stessa scena: una bibliotecaria giovane e bruttina, per non dire orribile, con uno strato di olezzosissima Normaderm, pomata anti-acne, spalmata sul viso butterato, si rifiutava di concedergli il prestito del libro che avrebbe voluto leggere: “Non possiamo lasciarle prendere questo libro, signore, il direttore dice che lei lo brucerebbe” sputacchiava la brufolosa da dietro il suo banco” “Si, ha ragione, signorina” rispondeva lui, e si svegliava.

giovedì 16 settembre 2010

LA GIORNATA DI UN UOMO STRANO

"Qualcosa è finito purtroppo. Nonostante tutto, nonostante noi...nonostante noi ci avessimo messo così tanto impegno, maledizione! Ma com'è possibile che ogni benedetta volta ci lasciamo vincere sul più bello da uno stupido attimo di distrazione, eh James?". Il suo interlocutore, ovvero il suo cane, lo guardava di traverso, come per dire: "Non scaldarti troppo, William, altrimenti ti viene un infarto...la prossima volta andrà meglio." La prossima volta. Da quarant'anni ci provava. E ogni volta doveva provarci la dannata prossima volta! "Va bè, un giorno ci riuscirò", si disse, "fosse l'ultima cosa che faccio". Questo era William, 67 anni. Da sempre è, come avrete capito, completamente fissato con una cosa: le navi di legno in miniatura nelle bottiglie di vetro. Strana fissazione, penserete. Ci sono talmente tante cose a cui appassionarsi, agli scacchi, per esempio, alla vela, alla lettura, al sesso sadomasochista, alle macchine due posti. No, a William non interessava nulla di tutto questo. Lui voleva solo costruire una dannatissima nave di quel maledetto legno nella fottuta bottiglia di vetro. E voi penserete: bè, allora dev'essere proprio abile in questa bizzarra attività. Macchè! Non era bravo affatto! Per tutta la vita, o meglio da quando lo stato inglese lo aveva bollato come "individuo psicologicamente instabile" (ah già, dimenticavo: da tempo indefinito i servizi sociali inglesi passavano al nostro eroe 300 sterline mensili in cambio della sue effettiva sparizione dalla società degli individui cosiddetti "normali"), dicevo, per tutta la vita William aveva collezionato continui fallimenti vitreo-nautici (neologismo che apparirà sul dizionario Devoto-Oli 2011). Di fatto, la sua cantina continuava ad accogliere frammenti di bottiglie e modellini storpi di navi di legno che puntualmente venivano scagliati in qualche punto del locale umido durante i consueti accessi di rabbia che seguivano al momento in cui si faceva strada nel cervello del vecchio William la consapevolezza che nemmeno quella volta era quella giusta. Ma quando sarebbe arrivata quella giusta?? "Aff, sono solo un povero vecchio", si diceva. Ma dopo pochi minuti la sua incrollabile buona volontà si rimetteva a lavorare su un nuovo progetto vitreo-nautico. In tutto questo, James, il quasi umano bassotto del quasi anti-umano William, se ne stava accoccolato sulla sua poltrona godendosi la morbidezza e il calore di quel cuscino che oramai aveva la sua forma, oppure zompettava in direzione dell'ostinato amico per ricevere una carezza dietro le orecchie, come piaceva a lui. E questo era praticamente tutto ciò che succedeva nelle giornate dei due bizzarri coinquilini. Ma, un'altra cosa caratterizzava da un numero imprecisato di anni l'esistenza del bipede William: l'insonnia. Il vecchio passava notti intere a combattere contro Morfeo, che, a quanto pare, non aveva la benchè minima intenzione di accoglierlo tra le sue braccia. In quelle lunghe ore passate nella penombra della sua stanza ammuffita osservava il suo cane accasciato ai piedi del letto mentre scalciava sognando di correre e gli pareva sempre di vedere un sorriso sul muso del vecchio amico che di corse vere non ne faceva da tempo. Inoltre, ascoltava i rumori provenienti dalla strada vicina cercando di attribuire loro un'immagine, oppure contava le piccole, infinite farfalle marrone sbiadito che decoravano la tappezzeria del muro di fronte al suo letto. Ma, sopratutto, si dedicava al suo progressivo, folle progetto notturno: lui VOLEVA uccidere il Pastore Carl. Così, tutte le notti, William si perdeva in complicate elucubrazioni su come far fuori, alle volte in modo cruento e sanguinolento, altre volte in modo più subdolo e psicologico, il povero Pastore della chiesa del suo quartiere. Voi vi chiederete: cosa gli aveva fatto di così terribile questo devoto servitore dell'altissimo? Ebbene, proprio niente. Il fatto è che, nel suo assoluto, consolitato, spietato, puro essere ateo, William incolpava la Chiesa, o meglio, tutte le religioni umane di essere, ironia, il diavolo in terra. Inoltre, per lui, se erano al mondo persone come la sua vicina di casa, la vecchia, ripugnante, acida, zitella signorina Anny, Dio semplicemente non poteva esistere. Alla fine, lo sventurato e ignaro Pastore Carl aveva la colpa di incarnare, nella mente quantomeno bislacca di William, tutto il male che le religioni avevano portato a questa terra. Le crociate, le guerra sante, le persecuzioni, i roghi, la signorina Anny: tutto questo era responsabilità del Pastore Carl. Quella notte, poi, William stava immaginando un progetto omicida pressochè perfetto; quella notte il suo odio inspiegabile per il candido uomo di Chiesa aveva raggiunto i massimi livelli storici. Con gli occhi iniettati di sangue (effetto perlopiù della notte passata in bianco), William sussurrò nelle prime luci di un'alba particolarmente gelida: "Domani ti ucciderò, Carl". E subito chiuse gli occhi e si addormentò, come sempre a quell'ora.

lunedì 13 settembre 2010

la lettera

"Ancora intorpidito dal sonno si diresse verso la porta di casa, curioso di sapere chi potesse essere a quell'ora del mattino..."

Aprì la porta e si trovò di fronte il solito pianerottolo un po’ vecchio con i muri scrostati, il tappeto con una faccina di cane sbiadita che diceva “benvenuto” ma non l’autore di quel fastidioso e quanto mai inappropriato toc toc. A carol non piaceva essere svegliato nel bel mezzo dei suoi sogni, soprattutto se riguardavano avventure amorose e quanto mai improbabili con uomini sconosciuti. E quella era stata una delle volte. Quindi con un fare più che svogliato si era alzato dal letto con i pantaloni mezzi calati, una canotta da uomo rude anche un po’ sporca di marmellata della sera precedente e aveva aperto quella maledetta porta. Mezzo rintronato stava per richiuderla non vedendo nulla al suo cospetto ma con la coda dell’occhio apparve una piccola minuscola lettera sul tappeto. La prese, era sporca e smunta come se qualcuno l’avesse rigirata fra le mani mille e mille volte prima di recapitarla. Si sedette sul tavolo, pose sul naso gli occhiali da lettura mentre il caffè saliva e aprì la lettera.

Domani, al parco in centrò alla città, terza panchina vicino alla fontana, ore 15. Domani potrai parlarle.

Per un momento non riuscì a collegare..chi? chi era? La testa gli doleva e cominciavano a girargli vorticosamente mille e mille pensieri per la mente tanto da fargli venire il capogiro, il suono del caffè lo ridestò.. troppo tardi totalmente bruciato. Non poteva essere pensò, dopo tutto questo tempo, non poteva essere.. come, chi?

Carol aveva trentasei anni, un artista, uno scultore, con poco successo ultimamente ma pur sempre un’artista, uno di quelli tipici che cadono in depressione di tanto in tanto fumano ad ogni ora del giorno, bevono the verde per compensare, drogati di se stessi e della caffeina, capelli lunghi arruffati con qualche striatura bianca, rughe sotto gli occhi più accennate del dovuto.. insomma uno stereotipo di se stesso. E come molti artisti era affascinante a tal punto da potersi permettere una donna per ogni notte e una solitudine fredda ogni mattina. La sua attenzione però,. Diciamo che non andava nella direzione usuale dell’amore ma bensì era rivolta ad uomini come lui. Solo una volta ancora piuttosto giovane e un po’ confuso era andato a letto con una donna, era stato strano, in quel momento aveva capito che non era fatto per quel modo di vivere, che agiva come un manichino a cui avevano dato una parte da recitare. Era stata una notte, ma a quanto pare era bastata eccome. L’aveva sentito che qualcosa era cambiato ma non pensava che questo cambiamento si fosse incarnato in un pargoletto che ora era una piccola donna. Lo aveva scoperto qualche tempo prima; all’inizio non voleva crederci. uno squillo di telefono l’unica donna della sua vita che fra le lacrime glielo aveva confessato, non poteva pensare che fosse vero, non poteva crederlo. Sì insomma, una volta sola, era proprio sfiga, ma questo non osò dirlo. Non sapeva cosa fare, così pensò che la cosa più naturale fosse parlarle, conoscerla, capire. La donna non sembrava convinta, non voleva turbare la ragazza. Ma promise di pensarci e .. e poi ecco la lettera. Maledizione. Domani è già domani si insomma se oggi è oggi domani è fra poche ore cominciò a farfugliare fra se e se.. cose le potrò dire? Quanta sofferenza deve aver provato? Mi crederà? Mi odierà?

L’autunno era già arrivato da qualche giorno, le foglie gialle stanche della lunga attesa si accasciavano sfinite sul terreno brullo, carol si affacciava alla finestra del suo atelier e cercava un perché fra le foglie, fra le fronde rade, fra le stradine, i passanti.. ma nulla. Non c’era un motivo, non c’era una spiegazione, un perché. Aveva una figlia. Una cazzutissima figlia con tutti i suoi problemi adolescenziali, i ragazzi, le mestruazioni, la vita sessuale, la dieta, le mode... basta! Doveva uscire, schiarirsi le idee.

Prese l’ombrello nero british e scavalcò l’uscio verso la liberazione della mente. Camminò per qualche migliaio di metri e poi ancora e ancora fino a sfiancare le sue gambe, fino a tentare di sfiancare la sua testa. Come avrebbe fatto ad affrontare tutto questo? Il giorno dopo arrivò con immensa velocità molta di più di quella che carol volesse. Alle 14.20 si incamminò con calma verso il parco, ogni strada sembrava troppo corta, ogni persona un’inquisizione, una domanda, il cielo carico di pioggia aspettava anch’esso il momento giusto. Arrivò vicino alla fontana, vicino alle tre panchine. E la vide. Una bellissima ragazzina, capelli mori e lunghi, lo sguardo profondo, le guance rosse per il vento, labbra carnose, un corpo acerbo ma slanciato alla futura bellezza, un vestito beige lungo fino al ginocchio, stretto in vita e un modo composto, quasi perfetto di sedersi. In attesa. In attesa. Il suo viso rivolto alla fontana, le mani contorte e infreddolite. A carol si strinse il cuore. Il passo stava per essere fatto. Ma improvvisamente si fermò. No non poteva, non poteva andare là e sconvolgerle la vita, non poteva dirle ciao sono io il tuo padre omosessuale, come stai? No, non avrebbe potuto. Lui non ce la faceva, era troppo fragile, non riusciva ad affrontare una responsabilità così, aveva già la sua vita, le sue responsabilità, le sue depressioni era una persona mediocre dopotutto non avrebbe mai potuto essere accettato da lei, non era abbastanza. Non le avrebbe dato quello che le serviva. No non posso sussurrò. Abbassò lo sguardo e tornò pian piano sui suoi passi. Era solo un semplice uomo non si poteva pretendere di più si disse. Una leggera pioggia cominciò a scendere. Un uomo sconfitto da se stesso si allontanava verso la sua casa e una ragazza inconsapevole aveva nuovamente perso un suo possibile futuro.

venerdì 10 settembre 2010

MI RICORDO DI TE, ZIO

Ancora intorpidito dal sonno si diresse verso la porta di casa, curioso di sapere chi potesse essere a quell'ora del mattino. Erano le cinque. In quel momento niente era molto chiaro, c'era scuro e freddo, e non c'era ancora un briciolo di luce. Non era mai stato bravo a riconoscere le persone dall'odore. Ma quella mattina gli toccò. L'odore che da sempre lo aveva accompagnato nelle vie sue familiari, l'odore di Zio Francesco. Zio Francesco entrò in casa senza un permesso esplicito, ma l'odore di spezie smentiva ogni dubbio e paura che potesse essere un ladro. Dagli odori riconosciamo i nostri vicini di banco, le case dei nostri amici, i nostri compagni, le nostre madri, e così lui fece.
Romeo appena ripreso dall'inaspettata sorpresa iniziò una densa conversazione con lo Zio. Alle cinque del mattino si fanno le meglio conversazioni, c'è lucidità abbastanza per creare pensieri, e i pensieri che ne escono sono fluidi e puliti, senza la pesantezza della giornata passata, e ancora non c'è la consapevolezza del nostro io sulla Terra, ancora siamo nel torpore della nostra sempre giovane età sentimentale.
Le parole erano sussurrate, per la paura di svegliare i vicini di casa, cosicchè la conversazione si faceva molto più intima. Non si può descrivere quanta felicità aveva in corpo Romeo per quella sorpresa. Lo Zio era sempre stato il suo parente preferito, persino preferito a suo padre. E niente poteva descrivere la sensazione di familiarità che ti da un semplice odore, quel profumo di pane e spezie che aveva sempre accompagnato lo Zio, fino alla sua veneranda età di 75 anni. Fare il pane allora era un arte, e Francesco ne era ben capace. Romeo sentiva di essere un privilegiato. Non lo era, ma lui lo sentiva. A una certa età, c'è chi prima e chi dopo, ci si accorge di provare sensazioni ancora come ai primordi della vita. Lo stesso odore che aveva lo Zio allora, lo aveva quella mattina, li in quella penombra e in quel silenzio sereno.
Romeo chiese allo zio se aveva voglia di qualcosa, di qualche infuso caldo o di pane abbrustolito e marmellata all'arancia amara. Questo è quello che aveva nella credenza e che più preferiva offrire alle persone. Lo Zio prese un po' di marmellata con una fetta di pane caldo. Fu difficile scaldare quel pane, era nel mobiletto nella parte più al buio della stanza, e il fornello a gas faceva brutti scherzi se non ci sapevi ben fare con l'accendino.
La marmellata amara, è come un iniziazione, se ti piace apprezzerai poi tutti i piaceri della vita che non sono quelli già conosciuti dalle altre persone. Te l'aspetti dolce dal colore, ma invece è amara, e all'inizio la odi, non sopporti quel suo gusto amaro strafottente, e il passo successivo la ami. Ti amo marmellata amara, sei la rappresentazione delle amarezze della vita che possono essere sconfitte, facendole nostre.
Dopo la colazione lo Zio racconta di sé come un tempo. Promuove la sua attività artigianale, la eleva a arte sublime e denigra poi quelli che la denigrano per la sua scarsa capacità di innovarsi. Ma cosa avrà mai da innovare ciò che se non è semplicità si rovina?Silenzio.
Lo zio intona una poesia:
“Il tempo è duro quando non ha significato,
correvo con il cuore in gola per cercare il niente,
avevo freddo quando c'era caldo,
sapevo sollevarmi all'occorrenza,
sapevo ascoltare all'occorrenza,
mangiavo lunedi, e vomitavo lunedì,
perchè vai dove c'è il cibo caldo,
dove sono finite le notti folli,
hai ancora tutto in disordine?
Non sono sentimentale ed ho riordinato tutto.
Tu sei il mio muro,
ci scrivo sopra le parole d'affetto,
le porte sono tutte chiuse,
chiudo gli occhi e apro gli occhi,
illuditi, incantati, non sottometterti,
incantati,
il mio respiro è di speranza, non di sapienza,
il mio stomaco prude,
sto uccidendo la polvere,
mi perdo in chi mi legge dentro,
il bosco parla confessandosi con le stelle,
perderai ciò che hai di più caro al mondo,
e la terra sorregge chiunque,
dimeno la mia bacchetta,
copro le mie cicatrici d'erba,
non raccontate niente a nessuno,
se lo fate poi gli mancherò,
scaraventatemi un sacchetto dell'immondizia sulla pancia,
bisogna dire certe cose,
dopo che ho sforzato gli zigomi per sorridere,
ho sempre tensione dell'anima verso di te,
uso un ascia per il mio ghiaccio,
le biblioteche raccontano storie vere,
ho perso me perdendo il mio libro,
inizia a parlare,
ti dirò quello che vedrò,
non vedrai quello che ho già visto,
nessuno è genio nel rubare le anime,
il solitario sulle rive del mare è genio dei cuori,
senso che un aggettivo non può descrivere,
il coraggio della mia infanzia che spira da angoli diversi.
Ma i sogni non sono stupidi quando li immagini,
non sono idioti quando li pensi,
oh dolce tesoro,
sappilo,
può darsi che la serratura non sia più la stessa,
ora la tua casa non è più questa. “

Lo Zio aveva scosso Romeo, alla sua veneranda età nessuno gli aveva mai dedicato una poesia, nessuno dedica poesie, nessuno parla col cuore e la delicatezza delle parole insieme, già, perchè farlo è un arte, e l'arte non si impara. Vennero le 7 del mattino, i rumori e le luci iniziavano il loro ciclo giornaliero, non aveva nessuna più nessuna ragione di esistere una bellezza del genere in quel caos universale. Lo Zio saluta Romeo, e sbattendo la porta per fare ancora più rumore, se ne và.

L' uomo è calvo.

Ancora intorpidito dal sonno si diresse verso la porta di casa, curioso di sapere chi potesse essere a quell'ora del mattino. Pensò. Di sicuro la mano che toccò il campanello non era stata quella di cappuccetto rosso, che, abituata alle maniere rudi di mastri boscaioli avrebbe picchiato la porta con colpi decisi e delicati. No no. Aspetta un momento. Potrebbe essere che l’oramai trecento cinquantenne Cappuccetto rosso si fosse tecnolocizzata traviata da follie fiabesche trash- imperialiste e ,col bastone ereditato dalla povera divorata nonnina, avesse pigiato l’apparecchio elettrico etichettato Renzo Brivio. Bestemmiò, cappuccetto rosso o meno. Certamente l’eterna bambina pre marxista dai boschetti e dagli spaccalegna di bestemmie ne ha sentite a iosa. Il piede, privo di armature inclini all’oblio dell’olezzo, s’era letteralmente incagliato nell’angolo sud est del mobile d’entrata. La sensazione non era definita o specificata, sapeva di dolore misto fastidio psicologico per la disattenzione compiuta (niente a che vedere con i gusti papabili e netti di fragola e limone). Sta di fatto che la visione della trasformazione cromatica del lembo di pelle ubicato tra alluce e indice cagionò un’altra bestemmia. Da meno di due minuti i suoi piedi scalzi calpestavano le piastrelle di cotto del suo bilocale ed era già a quota 3, di bestemmie. Un cane e due porci. Il cane era partito imbizzarrito al richiamo del suono elettrico del drin drin irrispettoso dell’innocenza sonnolenta mattutina (cercò di non pensare al fatto che era il suo unico giorno libero settimanale..se no altro che un cane imbizzarrito..avrebbe mandato l’intera fauna steppica alle porte del paradiso); mentre i due porci grugnivano al lato del piede leggermente lesionato. Era conscio di avere un modo, tipico e proprio del padano,tutto epiteti di rivolgersi alle santità ultraterrene, ma si sorprese pur lui di concentrare tante invocazioni in così poco tempo. Suo padre, che tutte le domeniche sedeva nel terzo banco della chiesa, sarebbe stato fiero. Sua madre, tutte che tutti i giorni sedeva nel terzo banco della chiesa, un po’ meno. Purtroppo o per fortuna era così. Che colpa poteva averne: l’educazione alla grammatica di dio era stata fatta a braccetto con la grammatica padana (grammatica simile al lessico italiano, con la particolarità della totale sostituzione della punteggiatura). Il catechismo, dove il nome di dio era accarezzato, faceva all’amore con le partite intergenerazionali al campetto parrocchiale,dove il nome di dio era invano.

Altra bestemmia. Questa volta però era Gino, il vicino sottostante amico di sempre di catechismo e di calcio. S’era perso: amante lussurioso dei suoi insignificanti pensieri non aveva badato all’insistere del richiamo oltre porta e Gino, in due parole di garbo e prontezza (caratteristiche squisite), gli faceva il riassunto degl’ultimi trenta secondi e lo trascinava nell’altrimenti realtà: chi cazzo mai poteva essere la fantomatica o il fantomatico cappuccetto rosso? I genitori no, passati a miglior vita da qualche anno. Lavoro no, è sabato. Amici no,sicuramente ancora tutti boccheggianti abbracciati al seno di qualche puttana. Donne. Certo. Indubbiamente era una donna. Nei millesimi di secondo che ci vogliono per aprire l’uscio, Renzo riuscì a riesplorare tutte le fighe, pelose o meno pelose, assaggiate negl’ultimi quattro mesi. Tutte avrebbero potuto reclamare una menzogna regalata, un tradimento compiuto, un fiore che puzzava di merda. Tutte. Ma nel podio delle possibilità ovviamente il primato spetta alla più recente, quella di sabato, come si chiamava..Lori..no..Alice..si si Alice.

Aprì la porta aspettandosi il viso, ora che ricordava, non così bello di Alice. Ma ad attenderlo c’erano un bel sorriso bianco, un corpetto giallo fluorescente e la frase: “Scusi, mi può firmare questa raccomandata per favore?”

Palesemente legittimato, balzò a quota cinque.

LE ALLETTANTI PROMESSE

LE ALLETTANTI PROMESSE




Ancora intorpidito dal sonno si diresse verso la porta di casa, curioso di sapere chi potesse essere a quell'ora del mattino... Giunto a metà del corridoio sentì per la terza volta il canto del citofono, un drindrin sporcato appena da un ronzio di fondo. Gridò, ma non era veramente necessario, si, si, arrivo, un attimo, e già stava scricchiolando l'uscio nel suo tragitto di novanta gradi d'apertura.

Primo pensiero: oh no, ancora, un altro ambulante, e chissà stavolta cosa dovrò evitare di comprare : la raccolta completa delle opere di Argatha Christie, la macchina del pane, la Sacra Bibbia a fumetti, un impianto hi-fi di ultima generazione, un viaggio per due persone alle Bahamas o in Costarica o a Cortina o sul fiume Zaire in Centrafrica, l'Enciclopedia del Novecento, il nuovo contratto telefonico con incluso un video cordless col quale andare a spasso per il quartiere continuando a chiacchierare con la moglie o l'amante o entrambe grazie al tasto “conversazione in attesa”, la religione che salverà il culo alla mia anima quando gli elettroni dei miei atomi si saranno semplicemente annoiati di correre in cerchio tenendomi matericamente vivo.

Secondo pensiero: però non ho nulla da fare: mia moglie è fuori, in gita, probabilmente con l'amante, il suo: perchè la mia amante è costituita da un set di DVD dai titoli più disparati ed equivoci: “Perversioni anali del terzo tipo” “Bocche incendiate” “Universo teenagers” “Troie VOLL. 1 – 2 – 3” “Tette esplosive” “Madri e figlie” “Sorelle e fratelli” “Giovani amanti in calore” “Il perverso mondo di Selen” e via dicendo, arrivando contestualmente all'erezione già durante la scelta del video quotidiano a conferma dell'importanza del titolo per un'opera d'arte e la sua efficacia. Non ho nulla da fare e una conversazione, sia pure con un venditore ambulante dalle intenzioni più truffaldine potrebbe essere un buon modo per passare una mezz'oretta di questa giornata, sabato mattina, malattia – finta ma certificata dal medico di base, malinconia, noia, voglia di morire, birre, wiskey, sigarette, dvd.

Terzo pensiero: e poi questo venditore, questo rappresentante, mi sembra diverso. Sorride e ha tutti i denti e tutti bianchissimi dietro a quelle labbra tirate. Saltella impercettibilemente sulle punte dei piedi, le scarpe nere e lucide si increspano leggermente ad ogni saltello. La cravatta è annodata puntigliosamente e scende fino a nascondersi pudica dietro alla giacca nera di velluto. I suoi occhi sono grandi, ma sottili, come se imitassero il sorriso delle labbra, solo uno spillo di luce nera si percepisce tra le palpebre. La ventiquattr'ore incollata al palmo chiuso della mano e assicurata da una manetta luminosa al polso, precauzione da circumvesuviana che appare piuttosto esagerata in un quartiere tranquillo di Como. Insomma la sua fisicità colpisce, sembrerebbe un uomo creato al computer, pixel dopo pixel, tecnologia 3D, movimenti fluidi, dolby stereo incorporato.

Risultato: entri pure, gradisce un caffè? Le basta dell'acqua? Ecco qua, ma si sieda pure, si, sul divano va benissimo.

Il venditore esordì raccontando una barzelletta sconcia e logora, («Un uomo si presenta all'ufficio brevetti con una mela in mano e dice all'impiegato allo sportello che vuole brevettarla.
L'impiegato risponde: "Mi sembra una mela come tutte le altre". "No, è speciale: l'ho modificata geneticamente". "E che cos'ha di speciale?". "L'annusi. Sa di fica". L'impiegato prende la mela, la annusa e la respinge disgustato: "Non sa affatto di fica: sa di culo". "Oh, mi scusi: la giri"».) ma il tono e l'aspetto e il gesiticolio e il volto sorridente e lo scroscio di risa colpirono nel segno: il padrone di casa era stato messo a suo agio e rideva di gusto senza neppure capirne bene la ragione. Io prendo un caffè invece, ma intanto mi dica, lei cosa desidera? (e nel cervello: strano che non abbia già iniziato a sciorinare le mille qualità della lavastoviglie o gli infiniti vantaggi che si possono ricavare iscrivendosi al club degli Amici di Gesù... starà prendendo tempo? Vorrà capire dove gli conviene colpire uno come me?)

La valigetta produsse un rumore sordo andando ad appoggiarsi sul tavolino di plasticone nero, un click liberò il polso del venditore dalla manetta di sicurezza. Ed ecco, il profluvio di parole ed ammiccamenti scrosciò dalle labbra tese dell'affabulatore.

Lei penserà che io sono qui per venderle una cassetta di prugne o una raccolta di esercizi spirituali per purificarsi l'anima. Oppure per pubblicizzare un salone di bellezza o un set di coltellacci da cucina. O ancora per invitarla a partecipare a qualche trasmissione televisiva o a qualche conferenza sugli effetti del burro d'arachidi sull'intestino crasso degli over 70...” La testa del padrone di casa piroettava cercando di seguire le parole e gli sguardi taglienti del venditore. “Invece, invece nulla di tutto questo. Il mio è un lavoro strano, spesso la gente mi sbatte la porta in faccia, subito. Non sanno che io non vendo né reclamo nulla, nessun corso, nessuna palestra, nessuna lavastoviglie, nessuna assicurazione sulla vita dei trichechi domestici. Le conviene spegnere il fornello, sta salendo il caffè...” Il gorgoglio della moka bloccò per un istante il monologo, fu solo una manciata di secondi. “Io punto molto più in alto, offro molto di più e, soprattutto, non pretendo nulla in cambio: nessuna firma, nessun obbligo, nessuna spesa. Un contratto c'è, certo, ma soltanto il mio nome apparirà in fondo al foglio lucido e chiaro, non vincolo nessuno, e nonostante ciò... capirà, nel nostro paese esistono milioni di persone, maschi e femmine, e tutti hanno bisogno di qualcosa. Hanno tutti bisogno di una qualche promessa. Non è d'accordo?” Il padrone di casa stava iniziando a sorseggiare il suo caffè, ma la domanda retorica lo fece trasalire: appoggiò la tazzina sul tavolino e semplicemente spalancò ancor più di prima occhi e orecchie. L'uomo dal largo sorriso tirato riprese senza aspettare risposte. “Certo che tutti hanno bisogno di una promessa, ed io mi incarico di offrire promesse. Molti vorrebbero che nel nostro paese ci fosse un lavoro per tutti, perchè si sa, quella del disoccupato non è una situazione facile, sempre con l'acqua alla gola, anni senza vacanze, senza potersi comprare l'ultimo SUV, senza potersi abbonare alla televisione via satellite. Io prometto che tutti avranno un lavoro. Oppure, le tasse: non sa quanti piccoli imprenditori assicurano di pagare troppe tasse. Oooh, io li capisco sa, i soldi escono prima di entrare e tenere in piedi una pizzeria al taglio non è semplice, ci sono tasse sul locale, tasse sull'igiene, tasse sull'immondizia, tasse sui trasporti della merce, tasse sui dipendenti assunti. Ed ecco arrivo io, e prometto che le tasse saranno abbassate, o tolte, già, proprio eliminate: prometto un paese senza più tasse, via l'ICI, via l'IRPEF, via l'IVA, via la tassa di successione e quella sui beni immobili di lusso, via! Lo prometto! Guardi...” sospirò dalla fessura del suo sorriso e, quasi senza smettere di parlare, aprì la valigetta “Qui c'è scritto tutto, tutte le promesse che ho regalato. Già, perchè la novità che io porto alla luce è proprio questa: RE-GA-LA-TO! Non si deve preoccupare di essere ricco povero onesto disonesto terrone o mangia-polenta. In fondo è molto semplice: lei ha bisogno di una promessa e io sono in grado di farle una promessa, e tutto questo a titolo perfettamente gratuito!” Il venditore a questo punto gli porse il foglio, su cui a caratteri limpidi erano elencate in una colonna a sinistra delle semplici richieste: -Sconfiggere la mafia. -Eliminare la prostituzione. -Migliorare l'istruzione primaria. -Distruggere Al-qaida. -Creare i presupposti per l'integrazione degli immigrati. - Cacciare gli immigrati. -Preparare i festeggiamenti per la festa della liberazione. - Eliminare la proprietà privata. -Privatizzare la sanità. -Rendere efficiente la sanità pubblica. -Eliminare la sanità pubblica... Al fianco di ogni richiesta era scritta in stampatello maiuscolo una sola parola: PROMESSO.

Insomma, ha capito: io offro promesse. E oggi è il giorno lavorativo più importante per me, ho visitato migliaia di case, e sono solo le otto e mezza del mattino, e ancora mi mancano migliaia di case da visitare, migliaia di famiglie a cui offrire promesse, a cui regalare un po' del mio sorriso, una barzelletta, ma soprattutto una qualche promessa. E ora lei non deve far altro che chiedere, penso abbia capito che non c'è spesa, non c'è impegno da parte sua: deve solo chiedere e le sarà promesso. Tocca a lei ora...” E gli porse il foglio lucido e una pesante stilografica.

Il proprietario di casa, con la testa piroettante a causa della parlantina sottile dell'uomo-sorriso, prese con la destra la penna, con la sinistra la tazzina col caffè ormai freddo, bevve d'un fiato la bevanda amara e osservò ancora una volta, per qualche secondo, il foglio delle promesse. Poi, senza dire nulla, iniziò a scrivere e sottoscrivere, scarabocchiare e tratteggiare, sperare e sognare, mentre le scritte si sovrapponevano e si riordinavano sotto la scia sicura delle sue richieste. Durò qualche istante questa scena, una volta esaurite le richieste, quasi senza fiato, il padrone di casa restituì la stilo al sorriso, il quale estrasse un timbro dalla valigetta e inizò a sbatterlo forte al fianco di ogni riga riempita sul foglio: -Una televisione più colorata : PROMESSO. -Autostrade senza più limiti di velocità : PROMESSO. -Più ferie pagate : PROMESSO. -Sigarette più economiche : PROMESSO. -Riapertura delle case chiuse : PROMESSO...

Terminata l'operazione, col consueto volto sorridente, gli occhi ripiegati su se stessi e i saltelli sulla punta delle scarpe appena più evidenti, il venditore, l'elargitore di promesse, salutò con tutti gli ossequi e le cortesie, gli arrivederci e gli è stato un piacere. Il proprietaio di casa chiuse la porta con la chiave e si ritirò in salotto, aprì la vetrinetta degli alcoolici e prese una bottiglia di wiskey, aprì una scatola che teneva sotto il divano, ben nascosta, e iniziò a riflettere: oggi Selen o Angelica? Interessanti queste foto... E ottimo titolo “La professoressa di anatomia”...


Il giorno dopo si svegliò. Si accomodò sotto la doccia e, lavato, sbarbato, vestito, bevuto il consueto caffè, fumata l'immancabile sigaretta, uscì di casa e si recò verso la scuola media statale Giuseppe Verdi, dove si trovava il seggio 231, il suo seggio, entrò, lasciò agli scrutatori la sua carta d'identità, scomparve dietro la cabina n. 2. Nel suo cervello: meno male che questa volta sono sicuro, questa volta non ho dubbi. Pose la sua X e uscì dalla cabina n.2.

Era domenica 28 marzo 1994.