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lunedì 26 settembre 2011

6. Tra la polvere e il cassetto

Nonostante la stanchezza del corpo, i pensieri le rubavano il sonno.

Capita a chi si vede ritornare nel dormiveglia un ricordo scomodo, e a chi al contrario ha dimenticato qualcosa. Lei semplicemente era troppo nervosa per l’imminente trasloco, e aveva lasciato da fare qualcosa d’importante. Come col boccone prelibato che indugia nel piatto fino a diventare sciaguratamente tiepidino, si era lasciata per ultima la cosa per lei più impegnativa. Forse erano anche le nuove austere parvenze delle stanze svuotate di ogni plausibile impronta umana. No, non era l’anonimato della parete bianca, erano proprio quegli ultimi scatoloni che aspettavano nel corridoio, in cui si erano ritrovati a convivere tutti gli elementi che facevano parte della categoria “RICORDI”. Avrebbe potuto appiccicare sopra ogni contenitore una bella etichetta con questo nome, e imbarcarli sul camion da lì a due giorni, ma sarebbe andata contro il proposito irremovibile di portare con lei solo lo stretto indispensabile, quantificabile in UNA scatola, esclusi i resti sottolineati e stropicciati dei testi universitari considerati fondatori della sua coscienza adulta. Una scatola, ovvero un terzo di tutte le cianfrusaglie, regali, monili, ricordini, bigliettini, appunti, dépliant, biglietti di treno e aereo, cartoline, ticket di spettacoli, portapenne a forma di struzzo che inevitabilmente ti rimandano alla persona più insuperabilmente trash che pensi di poter incontrare nella vita. Si alzò di colpo pensando “No, il portapenne proprio no, lo butto via subito”. Sapeva che l’immagine di quel piumaggio artificiale carico della polvere di anni così inutilmente presente fra i suoi ricordi l’avrebbe torturata fino all’alba, ma scìaffettando i piedi sul pavimento fino agli scatoloni per affrontare il problema si ritrovò davanti al dilemma intero. Come davanti ad un Giudizio esistenziale. Si accuccio per cercare il portapenne, e già sapeva che non sarebbe uscita indenne (né velocemente) da quell’affondare nel suo passato. Un movimento della mano, e riemergevano pezzetti inaspettati e dimenticati. A poco a poco, per far spazio alla ricerca al buio, si accumularono ordinati affianco alla scatola quadernetti, oggettini, un quadretto, dei ritagli, un cumulo di foto, delle molle, un peluche. No, un portachiavi peluche. Quello della sua prima casa. La prima “sua”, lasciando la familiare dimora per cercar la sua fortuna con la scusa dell’università. Inutile, era inevitabile accendere una luce. Proprio quello che non voleva, un click e un’onda di chiarore illuminò un cumulo imbarazzante di presenze. Ora non poteva proprio sfuggire.

Si accoccolò sul pavimento freddo, e prese in mano la prima scatola con la dolcezza con cui si scosta un braccio addormentato per recuperare il telecomando. Lì dentro c’era tutto, lei lo sapeva. La sua storia, quello che meritava di essere ricordato. E come si può imporsi di scegliere cos’è indispensabile e cos’altro no? Le guardò, tante piccole tracce dei suoi trascorsi, degli spostamenti, delle scelte fatte, degli amori, degli incontri, gli appunti dei viaggi dentro se stessa, obliterazioni di un’andata piena di pause sigaretta. Le note di idee geniali mai sviluppate, posti dove forse avrebbe potuto stare meglio, disegni dappertutto a incorniciare o immaginare forme del pensiero, incroci e bivi che aveva incontrato, aveva pensato di seguire e poi non aveva scelto. Guardò il cumulo di carta, che infestava più di ogni altra categoria quel campo di profughi. Aveva passato il tempo a iniziare romanzi che non aveva mai finito, neppure uno portato a termine. Di frasi illeggibili scarabocchiate su qualunque forma di superficie invece, un formicaio.

Tutto ciò se ne era restato conservato per anni. Perlopiù dimenticato, a ben pensarci. Per questo, ora che si approntava a un definitivo trasferimento si era riproposta di fare pulizia. Di liberare il campo, di lasciar posto, perché quando aveva visto quella marea di tasselli senza cornice si era sentita soffocare. Fantocci del passato, inermi e senza voce eppure lì, a ripescare in qualche punto del tempo e degli intrecci un momento singolare, un passaggio, un incontro, un’immagine più o meno nitida.

Senza tutte quelle cose non avrebbe più avuto un richiamo per riportarli alla sua mente. Sarebbero rimasti passato, senza sapere se mai un’altra immagine o una nuova parola avessero potuto, per casualità, portarla ad associarvi quel ricordo. Il dubbio di perdere quei momenti le aveva sempre fatto paura. Forse per questo collezionava un po’ tutto. Cianfrusaglie, le avrebbero definite gli altri. A volte sì, qualcosa. Ma la sua minuziosa attività da formichina aveva un senso ben più strategico. Forse perché aveva paura di perdere qualcosa d’importante. Forse perché temeva che si sarebbe trovata stupidamente sprovvista di qualcosa di utile, l’idea buona già in volo, lasciata sfuggire sul sospiro del vento. E invece lei l’aveva imparato, quanto sono importanti i ricordi; potersi rivedere cambiare attraverso gli eventi, gli umori, i pensieri, le espressioni, i compagni del giorno che quegli oggetti conservavano. Tanto importanti da sembrarle indispensabili, per trattenere la vita che passa.

Quel suo passato offuscato, il certificato di nascita sgualcito dal passaggio in troppe mani e la nuova famiglia, tutto cominciava là, e del prima non le restava molto. Poche foto, racconti ogni volta imperfetti e immagini raccolte tra confronti indiscreti o dentro lettere dai francobolli strani. Tratti similari e stranieri. Quelli familiari invece, così rassicuranti e diversi.

Ma adesso c’era un nuovo inizio, un altro, il suo. Un inizio che si sceglie porta con sé delle responsabilità. Forse quella sola scatola le serviva per sapere cosa voleva portare con sé. Le persone e i luoghi si lasciano andare, gli appuntamenti sfuggire alla mente, i visi sbiadire, mentre se ne conservano i simulacri. Come ancore appese a mongolfiere tra le nuvole, che dondolano piano senza mostrare il volto dietro ai cumulonembi. E tra tutto ciò, così tanti ricordi di quello che non si è potuto diventare. Le ossessioni del tempo passano solo con l’indulgenza dell’esperienza.

Finì di allineare gli oggetti, ne mise da parte alcuni, ne spolverò, accarezzandoli, pochi altri col sorriso trasognato. I pensieri scritti, lasciati in dote a calligrafie maldestre, li radunò in un angolo e cominciò a svuotare la seconda scatola. Li avrebbe letti, tutti insieme, la mattina. Lasciò andare gli oggetti belli. Di quelli non sapeva neppure più dove li aveva comprati. E lasciò anche quelli dei luoghi dove si era ripromessa di tornare: le pareva un buon incentivo a mantenere il suo proposito. Rise di tutte le idee folli che aveva avuto, conservò solo quelle che le sarebbero tornate utili sulla sua nuova strada, quelle che la facevano ridere, e quelle che un giorno l’avrebbero ricoperta di soldi se fosse diventata una pittrice famosa. Poco male se non dipingeva da anni, la faceva sorridere immaginare che se la sua vita ad un certo punto avesse preso strade imprevedibili, una di quelle avrebbe potuto realizzare i suoi sogni di bambina. Di cui non si era dimenticata.

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