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lunedì 25 ottobre 2010

LA COMUNE




Finii di mungere la vacca e tornai al casolare.

La luce distribuiva spicchi di ombre grazie al sole che si ricongiungeva con l'orizzonte. Ciò avveniva tutti i giorni a quell'ora precisa.

Nella mia schiena risistemavo l'ordine della vertebre camminando verso la cena.

Sono sempre stato geloso del mio luogo, della sua sospensione nella campagna, del suo silenzio.

Della possibilità che mi lascia di leggere le stagioni.

Ho raggiunto il quarto di secolo, studente bolognese con voti alti, inventore del momento e antagonista ribelle al sistema borghese del consumo.

Coltivo le mie piante, che saranno verdura, pascolo le mie pecore, che saranno formaggio, mungo le mie mucche per la colazione, registro il rumore tra rami e nuvole, che sarà la mia musica.

Ho sposato questo casolare ormai da tre anni, con l'utopia masticata di creare una comune senza il ricorso dei supermercati.

Sono partito con poche cose insieme a tre compagni. Vennero stabilite regole precise, uno statuto ferreo sul regime comportamentale da adottare.

Il casolare non sarebbe stato aperto a comodità, vi era il divieto assoluto di comprare ciò che si poteva creare. Fuoco per lampade, secchi per docce, pelli per vestiti. Il desiderio e il patto era quello di ricongiungerci alla terra e alle mani. Un'autosufficienza non corrotta dal mercato.

Eravamo partiti con l'entusiasmo di chi sa creare il lato reale dei sogni. E seguivamo le ore del giorno con le guance arrossate e i capelli arruffati.

Nei primi mesi il codice di condotta venne digerito fluidamente, ma con il passare dei giorni Elena incominciò a non rispettare gli orari del raccolto e della semina, si appollaiava nell'atrio fumando erba continuamente e parlava con tono rabbioso. Si lamentava della regola primaria che consisteva nel divieto assoluto di andare in città e sbuffava sull'altra regola di non poter portare gente a casa.

Ormai si erano accumulate litigate fin quando una sera abbandonò la comune sputando per terra l'impossibilità di una sua continuazione.

Il mio carattere è protetto dagli impulsi improvvisi, io, le mie scelte,le devo metabolizzare.

Passo numerose ore all'analisi di un solo pensiero, e cosi non capivo il rigetto cosi categorico di Elena.

Decidemmo con i compagni che l'abbandono di Elena sarebbe stato un semplice intoppo al progetto, che dopotutto era prevedibile.

Continuammo in tre a seguire fedelmente le nostre mansioni e il nostro isolamento catartico.

Marco si occupava della legna, costruiva credenze, comodini e librerie con l'abilità di un artigiano fedele alla sua bottega. La sua passione era la creazione di strumenti, che suonava nelle ore buie.

Camilla cucinava e curava l'orto, le spezie erano la sua passione. Riproduceva i colori delle piante e degli ortaggi in acquerelli leggeri e fluidi. Lei aveva l'odore dolciastro della cannella e un nasino all' in su che mi divertiva.

Io mi occupavo degli animali, mi lasciavano il silenzio necessario per progettare i miei racconti.

Mi inventavo per ogni animale un carattere da assegnarli, avevo etichettato l'antipatico, il saggio, il giullare e la prostituta. Ogni giorno mi immaginavo un carattere nuovo da distribuire a galline, pecore, mucche e gatti.

Il nostro trio apparentemente sembrava funzionare anche senza Elena, ma poi Marco iniziò ad essere impaziente, si era appena laureato in sociologia, e iniziò a sentire la mancanza della società che aveva studiato. Parlò a Camilla della fine del suo credo, abbandonò la comune poco dopo senza incrociare il mio sguardo.

Io sono radicale nella scelta, non posso pensare ad una fine senza collegarla al fallimento, cosi accendevo in Camilla la nobiltà della nostra comune, ma lei si piano piano si spegneva, fino a dialogare solo esclusivamente con i suoi pennelli.

Lasciò per ultima il casolare dopo aver fatto l'amore. Erano le tre del pomeriggio di una primavera secca.

Presi le redini della mia solitudine e mi contorcevo la schiena nel svolgere tutte le attività dei vecchi compagni. Vivo qui solo da un anno.

Oggi lascerò la comune, lo farò a testa alta.

Ho studiato molto la parola utopia fino a farne una malattia.

Il mio cervello disegnava perfettamente gli algoritmi della comune, erano di un'armonia avvolgente, ma rimanevano sempre intrappolati nella categoria dell'astratto.

Poi mi accorsi che era tempo che non ridevo o scambiavo parole con un umano a me corrispondente.

Cosi lascio perchè non so più su cosa indagare.

Ho deciso di affrontare l'ineleganza e la varietà del mondo ,oggi.

Chiudo con il gancio il portone dietro a me, attraverso il campo, nell'ora giusta in cui la luce distribuisce spicchi di ombre grazie al sole che si ricongiunge con l'orizzonte. Ciò avviene tutti i giorni a quest'ora precisa.

2 commenti:

  1. questo è uno dei tipici racconti che quando ascolto penso "vorrei averlo scritto io...."
    :D

    BELLLLLLLO!

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  2. grazie buon uomo..
    per fortuna che ci sei tu a far tornare i sorrisi!

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