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lunedì 6 febbraio 2012

hgewfhgfeg Laura. Erba hfhhdn maglione: herffrgb compleanno.

Perché Laura mi aveva lasciato, così all’improvviso?

Ricordo ancora lo scorso marzo, ci trovammo in un bar, «ascolta sei libero oggi alle 2, per un caffè?» «Perché? Beh, sì, il negozio apre alle 3.. facciamo dal pakistano?»«Sì, va bene. Alle 2, allora». Una faccina contenta, la sua, il solito cappotto blu, la solita andatura camminata portamento innaturale (un due piede avanti – punta – avanti l’altro) per la quale in molti erano a commentare eroticamente quei passi che fino a quel mese sentivo anche un po’ miei. Si toglie gli occhiali da miope, annebbiati, ordina un caffè «uno anche per me, grazie», e poi, quando il giovane arriva al nostro tavolo, la scena dai vetri del locale poteva più o meno sembrare questa: una ragazza che gira il suo cucchiaino nella tazzina, ne beve l’amaro contenuto e dice qualcosa al protagonista; ecco la giovane prendere la sua borsa di tela lasciare il soldo sul tavolo e andarsene. E io la guardai prendere la via d’uscita, e cosa potevo fare secondo voi?

Poche ore dopo mi accorsi dell’accaduto. Troppe cose dopo quella frase di addio: pagare la consumazione, andare all’auto, cercai di uscire dal parcheggio, piansi perché la mia macchina si era scontrata con il parafango della Panda che avevo dietro. Non vidi semafori, non vedo un amico che su via Aliprandi mi saluta. Occhi annebbiati, occhi che… C’era da aprire il negozio, il signor Malaschini venne puntuale a prendere le sue camicie stirate. Classici profumi da lavasecco, «e guardi che se non leva il cappuccio noi non possiamo poi farci niente se con il tetracloroetilene poi si rovina il tessuto, signora». Lo dissi per tre volte, quella giornata, e Laura stava nei solventi, nei silossani e nell’anidride carbonica liquida, in quel vestito di seta che fu appeso in negozio aspettando che una certa signora Maldrés venisse a riprenderselo, nei 230 gradi del lino, nei 148 di lana e viscosa, nei 204 del cotone. Arrivai a casa, stremato. Mangiai perché non avevo fame, in fondo Laura stava anche in quella scatoletta di tonno e piselli, e cercai di capire perché.

Perché Laura mi aveva lasciato?

Provai a pensare a tutti i motivi per i quali avrebbe potuto fare una cosa simile: tra di noi era finito l’amore? Si era innamorata di qualcun altro? Pensavo fosse impossibile: no, Laura questo me lo avrebbe detto, i fatti potevano smentire questo dubbio, a consumarci tra i sedili giusto una settimana prima, i nostri piedi incastrati tra i tappetini dell’auto, occhiate delle diciottenni a noi addossati alle pareti del Garten, rossetto slabbrato sul suo viso pallido, e poi a casa, finivamo discorsi lasciati a metà e là tra le lenzuola i suoi capelli neri, parole sublimate, e nei suoi occhi nessun altro traspariva, nessun altro figlio posticcio di Graham Coxon poteva entrare nel suo cuore, era impossibile che si fosse innamorata di un cliente del suo negozio. Che cosa, allora? Non mi piaceva la sua famiglia, certo, e lo sapeva: quel fratello così perfetto, laurea in economia e un posto in banca, e il padre e quelle sue maniere in decomposizione e io «Porto fuori Laura» ma nessuno ascolta, e se mangiare da loro la domenica significava trascorrere il pomeriggio a dibattere di calcio e politica, i due maschioni della compagnia con i loro capelli a spazzola, allora io e Laura fuggivamo.

I litigi accadevano per motivi disparati. Il gatto Milou che non volevo tenere nel mio appartamento, la musica da far girare per casa, le stanze che andrebbero arieggiate con qualcos’altro mi diceva, «Ma perché sempre Risingson, sempre quel dannato disco..» un giorno tornai e cerco ma chissà dov’è finito. «Boh, cosa pretendi di trovare in tutto quel casino che hai..» ma tutto finì lì. Altre volte ci si pungeva per i ritardi comuni, film saltati ai titoli di testa perché Laura non arrivava agli orari stabiliti, e io che andavo a prenderla quando i concerti erano già iniziati. E, qualche giorno prima dell’addio, la questione di quel ridicolo maglione verde.

Laura diceva che era bellissimo, appena arrivato in negozio lo aveva messo da parte per me. Si trattava di un maglione taglia L verde erba vivo. Vivo, sì: non era fatto di lana, cotone, angora, cashmere; la sua composizione era unicamente di materiale biodegradabile, mi spiegò Laura. «Un importante designer australiano realizza questi capi di vestiario partendo da una base di terreno racchiusa in una maglia di fibre vegetali, e da un’innaffiatura con canaletti interni ad essa ne fa spuntare l’erba in superficie». Il pullover presentava infatti qua e là ciuffi di erbe più o meno curate, e Laura era tutta contenta a spiegarmi come le erbe usate fossero cicoria (piccoli fiori blu erano sparpagliati qua e là sui polsini e sulle cuciture delle maniche) e verbena. A guardare più da vicino, si notavano dei piccoli animaletti camminare sulla superficie del maglione, moscerini volteggiavano su una fogliolina quadrilobata all’altezza del girocollo; ma la mia sorpresa fu grande quando scoprii la vita all’interno del maglione appoggiato sul tavolo. Risvoltandolo con cautela, scoprii che l’interno era innervato di piccolissime radici che si allargavano per tutta la lunghezza del mio regalo di compleanno. La sottile rete fibrosa riusciva a trattenere in maniera egregia il terriccio che consentiva all’erba di poter costituire la superficie del golf, ma attraverso piccoli movimenti di essa erano visibili alcuni vermetti scuri che si agitavano nel sottobosco di quel maglione. «Starai caldissimo con questa maglia e credimi, è davvero un capo molto originale» mi diceva Laura tutta contenta per quell’assurdo affare che avevo tra le mani. Non aveva l’aria di prendermi in giro, questo lo si vedeva da una luce di contentezza che le si leggeva negli occhi, ma credo neppure avesse avuto un briciolo di lucidità nel pensare che io avrei potuto indossare una cosa vivente a contatto con la mia pelle. E poi, come avrei fatto a lavarlo a secco?

Le dissi che io no, io comunque non avrei indossato maglioni verdi… «Credimi Laura, l’idea dell’erba è bellissima, ma a me questo verde non piace. L’autore dell’incipit di questo racconto vuole..vuole che io trovi una metafora per questo verde..e davvero penso che solo un soldato possa permettersi di portare un capo così perfettamente mimetico; scusami, ma io non posso accettarlo». Appallottolai in qualche maniera il maglione che mi ritrovavo nelle mani, cercando di non toccare le formiche che sgattaiolavano qua e là nelle placche di quel piccolo terremoto che creavo nell’erba continuando a maltrattare il pullover, e riconsegnai a Laura il mio regalo di compleanno. «Scusami», le dissi, ma davvero quel maglione mi ripugnava fortemente. Non seppi se in quel momento lei se la prese o meno, mise nel suo sacchetto il golf e mangiammo, senza gusto, senza dire una parola. Non uscimmo, dovevamo raggiungere degli amici per poi andare a ballare e festeggiare, ma restammo a casa. Non abbiamo fatto l’amore quella notte, Laura se andò prestissimo con la sua auto, e dai suoi occhi capivo di averle dato una cocente delusione.

Il giorno dopo mi telefonò al Lavaggio a Secco, mi chiede come sto, si scusa per quel regalo, dice di averlo venduto ad un signore che ogni domenica si fissa davanti a Lineaverde e lascia andare a messa, da sola, la moglie. Ma qualcosa è cambiato, nella sue parole, e mi sembrò di sentire un lieve tono dimesso.

Fino a quel giorno in quel bar. Ma non poteva essere certo per quel maglione. Ma allora perché Laura mi aveva lasciato?

2 commenti:

  1. hahahah ACIDISSIMO Nico:D
    HAHAHAHAHAHAHAHAHAHH!
    grande!

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  2. i tuoi racconti sempre mi spodestano... nelle storie d'amore c'è sempre un filo comune, forse proprio un maglione verde. bravo nico!

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