L'incipit della settimana

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martedì 11 ottobre 2011

7. POCO RUMORE, PER NULLA

Dopo dieci minuti di pioggia, l’aria si fece più rarefatta benché il cielo restasse di un plumbeo ondoso. Si stava facendo tardi, e i lampioni avevano già fatto il loro stiracchiante capolino striando il selciato bagnato di riflessi arancioni. Erano le 8, la sera arrivava. Tardi, diavolo che tardi. Una disavventura dopo l’altra, anche l’acqua ci mancava, dieci miseri minuti ma che pesavano sulla sua gagliarda tabella di marcia, tutta un po’ affidata ai casi e alle coincidenze, e mentre lui continuava ad arrestare il suo percorso per un motivo o per l’altro, le lancette del suo orologio sembravano correre come schegge. Mai affidarsi al caso, a Venezia. Non esistono coincidenze se non per l’intercessione del santo del campiello in cui ti trovi, che sgranchisce le sue dita marmoree benedicenti giusto per ricordare il perché che anche lui s’è guadagnato un posto nel calendario. Non esiste caso, nessuno te la manda buona a Venezia, gli imprevisti sono mille e uno o l’altro ti capitano per forza. Seppoi ci aggiungi l’ansia emotiva, il risultato è che Eva sarà già uscita a quell’ora, e senza più batteria nel cellulare non la si può contattare.

Non resta che continuare a correre verso casa sua pregando di non perdersi tra calli e callette, un giro attorno al pozzo chiuso, non prendere il primo arco ma il secondo, angolo stretto a destra, poi oltre il campiello, all’affresco della madonna a sinistra, dritto, dritto sicuro adesso..! Chissenefrega se tutto questo sobbalzare sta riducendo il sacchetto del regalo un colabrodo, e la superficie plasticata striata da linee stropicciate più scure come i capillari di una foglia di vite. L’attenzione è tutta sui particolari delle strade, il naso in su cercando appigli visivi per orientarsi. Non c’è che la memoria eidetica per muoversi a Venezia. E la impari solo dopo esserti perso una decina di volte facendo la stessa strada nella stessa direzione, ma oggi no, non bisogna perdersi. Un attimo d’indecisione ma è già passato, se ti fermi a pensare sei già fottuto mentre se ti lasci condurre dal sesto senso ti andrà bene. Altra regola illogica che vige in questo spazio senza tempo.

Eccola la strada, una calle talmente stretta da bersi il sole a qualunque ora del giorno, una calle cieca di ombra e di silenzi. Quante volte c’è entrato, inoltrandosi come in una gola selvaggia tra liane di fili del bucato e inquietanti urla di preistorici volatili lontani. Come una litania, solo coi suoi passi; sempre col naso in su, a sperar di rubare qualche segreto dei fantasmi che ne abitano le pareti scoscese e irregolari. Non si vedeva quasi nessuno comparire alle pareti, solo panni di volta in volta diversi stesi sopra la sua testa a parlare delle vite di quegli esseri invisibili.

Ecco la porta, le tre fila di scuri verdi, d’un legno mangiato dall’umido e dall’usura. La terza da sinistra, all’ultimo piano: la finestra della sua stanza. Suona e nessuno risponde. Suona ancora fingendo di ignorare la rabbia della delusione. La lascia scorrere nei muscoli indolenziti dalla corsa rigida, impacciata per la paura di scivolare sulle lastre del selciato che con la pioggia si trasformano in ghiaccio. Non risponde comunque, ‘ecco ho fatto tardi’ si dice. Potrebbe andarla a cercarla, si dice alzando ancora il volto alla finestra. Respira l’aria. Sa di umido, è come se esaltasse il salmastro perenne dell’aria con una nota diversa, una nota profumata. Rarefatta, appunto. Sa di buono, sa di qualcosa che ti abbraccia completamente. Degli umori del fondo lagunare che si uniscono con gli umori dell’aria, in uno sposalizio immemorabile. Venezia diviene prigioniera delle Acque quando piove, non più loro signora. La pioggia le toglie i colori, e la riveste di bagliori sinistri come più le donano.

Adesso non ha più voglia di andarla a cercare, non ha senso perché a Venezia non trovi mai ciò che cerchi. Le cose ti vengono incontro quando meno te le aspetti. Ti torturano di presenze, ti assalgono di continuità, permeano tutto, le cose sono tutte lì, si rigirano uno spazio minuscolo fatto di arterie che si ritrovano sempre, come in un sistema circolatorio. Eppure è un labirinto pieno di angoli ciechi dove i ragazzetti vanno a far l’amore con le prime morose, pieno nidi di confidenze e chiocciare di donne, pieno di sentieri paralleli che chi vuoi incontrare può, malauguratamente, scegliere di percorrere.

Quando è caduta la conversazione non aveva fatto a tempo a dirgli nulla, solo sbiascicava di quell’appuntamento verso le 8. Ed eccolo lì, con ancora nelle orecchie il tono monotono e distaccato della voce di lei, come abituata alle litanie senza risoluzione del loro rapporto interrotto; lì come un fesso, con l’entusiasmo dell’eroe romantico ridotto alla delusione di un bambino, la sua grandezza da Gilgamesh scoppiatagli addosso come un gavettone di idiozia. Faceva freddo per restarsene così, anche se ci saranno stati almeno 19 gradi. Gli faceva freddo, stare lì così. Ricominciò a far dondolare il suo sventurato pacchettino, e riprese la strada di casa.

Cammina nel silenzio e nella solitudine ritornando sugli esatti passi dell’andata, ripercorrendo le scorciatoie isolate che permettono di tagliare la geometria della città insinuandosi nella sua cartografia celata, quella che si insinua sotto passaggi angusti e sali-e-scendi senza sosta da ponticelli invisibili sulle comuni mappe. Il buio della sera ormai cancella i profili dei cielo e lo rende la specchio oleoso dei canali scuri, stagni. Le lanterne della sera, di un giallo opaco, avvolgono i contorni delle barche sonnecchianti stendendo le loro ombre sui muri vicini. Le acque dei canali lambiscono il passo, stanotte ci sarà l’alta marea. Per questo fa così caldo a ottobre inoltrato.

Silenzio. Gli scalpiccii lontani che fanno compagnia al viandante solitario non sono che il maligno scherzo che gli spiriti di Venezia inventano con l’eco dei suoi stessi passi. Non si è mai soli, per queste calli. Lo sa bene chi si muove a notte fonda per la città, attraversando campielli addormentati, inoltrandosi in un mondo sospeso per sempre nel limbo di una veglia. Non dorme, Venezia. Qualcosa è sempre vigile, e osserva dagli angoli, tra le fessure buie delle inferriate, dall’alto di un fico che fa capolino coi ventagli delle sue foglie dall’alto di un muro di cinta. Solo i gatti si fanno vedere, deambulando svogliati e fermandosi un secondo a scrutare il visitatore inquieto che attraversa con un disagio forzatamente governato quel regno di presenze in cui loro s’aggirano con streghesca naturalezza.

Si ferma come se avesse sentito qualcosa, o visto qualcuno nel cono d’ombra di quel portone. L’occhio indugia per scoprire una vecchia boa rossastra e il resto di una giacca abbandonata su una sedia. Un gioco di luci flebili e ombre ingannerebbe la ragione di chiunque, figurarsi quella di un giovane amante facile preda della regina Mab. Già non capisce più se è veglio o sta sognando. Non sa se siano i suoi pensieri agitati a sussurrargli visioni illusorie, eppure lui è certo che qualcosa attorno sorrida della sua sfortuna.

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