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lunedì 31 gennaio 2011

Ella

“La persona che odio di più al circolo? Ella”
Avrebbero risposto così quasi tutti i bambini del circolo della parrocchia.
Ella lo chiamavano tutti. Ma il suo vero nome era Fitzgerald Antony Toni Petrosino.
“Come la Fitzgerald” Vi avrebbe detto se gli aveste chiesto.
Ella era un bambino molto timido e solitario. Amava sognare da solo, stare da solo e camminare da solo e per questo non era molto amato. Faceva in compagnia solo quello che si poteva fare solo in compagnia: giocare a carte, giocare a calcio, scambiare la merenda (anche se non lo faceva spesso)e giocare a baseball (questo lo faceva spesso).

Ella era nato a New York, da madre e padre italiani; Antonietta Maria De Gennaro e Antonio Toni Petrosino.
Ella rimase orfano a 3 anni. Un incidente stradale si portò via i suoi genitori.
Forse fu questo a rubare l’infanzia al ragazzino “sei sempre così serio Ella!” gli dicevano tutti.

La nonna paterna, che lo chiamava Friz e con cui visse da allora, spesso quando interpellata era solita raccontare la vicenda del misfatto a modo suo: “chista Friz, fu na traggedia! Guaglioncello nu ce pensà!”.
Così era la nonna Maria, nata ad Avellino nel 1902, all’anagrafe Maria Assunta Colasante, per la gente la vedova Petrosino. O Maria Petrosino, come era solita chiamarsi lei.
“Friz, ascolta a nonna un momento! Non ti devi fidare de li guaglioni neri!”la nonna al racconto di una nuova amicizia di Ella.
E se Ella faceva sfoggio di un linguaggio un po’ troppo di strada…“Friz, piccolo indemoniato, sciacquate la bocca, maronna disgraziato! Certe parole se le sentiva tuo padre ti faceva partire la capa! Povero figlio ahhh, Friz, chista fu na tragedia, guaglioncello nu ce pensa!”
E non mancavano le quotidiane lodi ed esternazioni dell’italianità della nonna. “ senti a ca Friz, noi eravamo i negri dei bianchi quando ancora quelli negri stavano ancora in Africa e gli Ebbrei manco c’erano! E poi sai poi che successe?”
“No nonna” Rispondeva Ella che aveva già sentito quel discorso migliaia di volte “ Poi sono arrivati Frank o Sinatra, Joe lo Maggio, a Frankie Capra! Potrei andare avanti tutto lo pomeriggio e anche all’indomani!” In realtà non si spingeva mai oltre quei tre nomi.
Oppure ogni volta che Ella rientrava un po’ più tardi dal campetto della parrocchia “Tu me vuoi fa moriri friz! Dillo subito che me ne vado ora! Che San Gennaro me venga a prenne adesso con il suo carretto! Che ce devo sta a fa qui con te che me fai soffri dalla mattina…alla mattina dopo!” E due scopellotti ben assestati con lo spazzolone dei pavimenti.
Poi Ella filava in camera.

La vita a New York era così.
La vita con la nonna era così.

Gli amici, lo chiamavano Ella, il panettiere lo chiamava Ella, il lattaio lo chiamava Ella, il vecchio Rocco, il vicino, lo chiamava Ella, come le sue tre figlie, Anna, Sandra e Mara lo chiamavano Ella. Non gli dispiaceva. Anche se era un nome di donna. Era una donna famosa infondo. Padre Adam una volta gli disse che Ella Fritzgerald aveva detto: « Alcuni ragazzi in Italia mi chiamano Mamma Jazz. Mi fa molto piacere. Almeno finché non mi chiameranno Nonna Jazz. ». Non aveva capito esattamente cosa intendesse il prete. Ma dentro c’era Italia e nonna. Sembrava buono visto che per ora, era tutto il suo mondo.

Ogni tanto veniva a fargli visita lo zio Jakie.
Lo zio Jack Enzo De Gennaro era il fratello di sua madre. Di due anni più giovane di lei. Nato negli Stati Uniti, nel New Jersey, lavorava come dirigente nel settore dell’automobile a Detriot.
Era sempre elegante lo zio Jackie e profumava di buono. Ella avrebbe voluto profumare come lui da grande. Lo zio Jackie era diverso dalla nonna. Lui era proprio Americano. Aveva studiato alla Columbia e aveva giocato a Baseball nella lega universitaria. Niente di abbastanza rilevante per impressionare la storia. Abbastanza rilevante per impressionare un ragazzino con la passione per il baseball. Lo zio Jackie portava sempre due regali con se. Una busta per la nonna (la quale era sempre molto riluttante dall’accettarla) ed un dono sempre diverso per Ella. Il regalo più bello Ella lo ricevette a 8 anni.
“Tieni piccolo Babe (lo chiamava così in onore di Babe Ruth il più grande giocatore di sempre secondo lo zio) Questa è la mia mazza. La usavo quando giocavo con la Columbia. Ci ho pure fatto 3-4 fuoricampo!”

Ella aveva anche chiesto cosa si prova a fare un fuoricampo, e lo zio gli aveva risposto che si sentono le gambe che cadono a terra dalla gioia. Come la sensazione di vuoto che ti prende quando con le spalle alla strada si sale con le punte dei piedi sul bordo del marciapiede e ci si lascia sbilanciare dalla gravità.

E così quasi ogni pomeriggio, prima della cena, Ella si metteva in equilibrio sull’ultimo scalino della casa della nonna e sognava un fuori campo.
Ad occhi chiusi.
Lo Yankee Stadium, la folla, le luci. La palla, la mazza…la battuta…e via lontano. La palla che schizza. Fuori dallo stadio. La folla in delirio. E le gambe che piacevolmente cedono.

Poi riapriva gli occhi ed andava a cenare.

5 commenti:

  1. eccheccazzo, è strafigo, realistico e dolceamaro!

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  2. Grazie pippo. La realtà è che negli anni '50 sono stato italoamericano.

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  3. lo fosti Pippo, lo fosti!
    biografasti quindi....

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  4. Concordo e sottolineo con un 'eccheccazzo, è strafigo, realistico e dolceamaro!'.
    Mi sono trovato a bocca aperta nella narrazione aspettando il colpo di scena, il cambiamento. Arriva la cena, la realtà. Si parla di un bambino, e la scrittura ti fa bambino: minuziosità non per il tutto, ma per i particolari (nomi e dicerie della nonne, mitizzazione dello zio). Bello come la normalità che scardina, ti tira per i capelli e ti porta giù, nella realtà.

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  5. partendo dal fatto che nella prossima vita voglio chiamarmi Fitzgerald Antony Toni Petrosino se non riesco ad essere un leone o come minimo un gabbiano, che bello il richiamo alla sensazione di vuoto del mezzo piede sull'orlo del marciapiede! rende spacchiosissimante l'idea...

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