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domenica 29 agosto 2010

LA NASCITA

Devastata dal caldo di agosto e affaticata per gli innumerevoli passi già lasciati dietro di sè s'apprestava, priva di ogni forza, ad affrontare la sua ultima fatica: infiniti gradini ombreggiati da altrettanti panni stesi e flebili giochi di luce le indicavano il cammino. Ora doveva soltanto salire, avvicinarsi al cielo, dimenticare finalmente la sua pesantezza.

Prima di cominciare la salita si sedette sulla polvere, perchè quello era il momento di ricordare per l'ultima volta. Dietro di sè era la città degli uomini, la città degli dei, la città d'oro che tutti avevano additato come il paradiso terrestre e che lei, lei soltanto, aveva avuto il coraggio di svelare, di scrostare da quella patina sacrale per vedere e far vedere cosa nascondesse tutto quell'oro, tutta quella musica e quella felicità fasulla. Ecco, aveva fermato il disco, rotto la puntina della macchina, ingolfato il motore e sollevato la bella crosta che copriva tutta quella merda ed ora le esalazioni salivano dalla terra ammorbando l'aria, uccidendo insetti e volatili. Per fare questo aveva dovuto subire ogni vessazione, ogni stupro, ogni violenza. I suoi zigomi erano tumefatti, il naso come penzolante da un lato, i pochi capelli rimasti erano crespi e appiccicaticci a causa del sangue che andava lentamente coaugulando sulle ferite di quei giorni. Anche il resto del corpo era pieno di lividi, di segni profondi, di sangue scuro, di merda. Sulla spalla destra qualche sostanza acida le aveva scavato come un buco dal quale si potevano intravedere i filamenti di nervi e muscoli che ricoprivano le ossa ammaccate. Alcune dite le erano state mozzate, sia alle mani che ai piedi, ma nonostante ciò, con l'indice rimastole, andava a torturarsi quel piccolo forellino della spalla, ancora incredula nonostante il dolore, nonostante la fisicità di quella sfigurazione. Sulle gambe si erano seccati rivoli di sperma sconosciuto, e ancora in quel momento dei piccoli fiotti di seme maschile scendevano lenti dalle sue cosce divaricate e stremate, quasi insensibili ormai, anch'esse torturate e insanguinate. L'aria la accarezzava facendola soffrire ulteriormente. Ogni cosa era sofferenza aggiunta a sofferenza su quel corpo tumefatto. Continuavano a passarle per la mente le immagini grottesche di Bacon, qualche ritratto di uomo e di donna, un papa, delle scimmie. Lei era tutti loro adesso, ed era molto altro, si sentiva molto oltre ad ogni confine.

Seduta sul primo gradino di quella scala che portava alla fine di quel suo viaggio allucinato, mentre le sue piaghe rigettavano pus e sangue e inglobavano polvere e sabbia, sentiva il giro inverso del dolore, la rabbia si stava sopendo e lentamente ricordò i preparativi, il tritolo ammassato in una stanza di un immenso palazzo, le lame taglienti appoggiate al muro, le funi tese legate forti alle travi: e poi il principio della fine, il massacro. Le coppe colme di vino che tintinnavano gaudenti, il profumo della carne cotte alla brace, l'orgia che iniziava con le prime portate, l'ebbrezza di quegli uomini. E lei, i giramenti di testa che la presero in quel momento, l'insicurezza e poi la sicurezza. Aveva trasportato faticosamente il suo corpo in quella sala, preparato l'esplosivo, le trappole, come aveva visto fare nei film da quei terroristi folli, come aveva sentito raccontare nelle storie che un suo vecchio amico le leggeva, come la sua mente ottenebrata le suggeriva. Aveva sistemato tutto, ora solo un tasto avrebbe posto fine a quel regno di depravazione e violenza, di compravendita di corpi tumefatti, di organi all'asta, di sesso barattato, di morte negli occhi della vita. Il suo corpo sfigurato non la stava tradendo, lentamente si trascinò le armi, le pistole e i mitra e le lame riposte in un sacco da viaggio, entrò nel salone in penombra dove i gemiti di piacere sembravano muggiti di un dolore infernale: ancora venti minuti e tutto sarebbe terminato nel big-bang che lei aveva predisposto, lei, la nuova dea col buco sulla spalla, con gli sflinteri sfondati dalla violenza del mondo, con la fronte incrostata di sangue, con la gola bruciata di fumo. Estrasse la prima pistola e la scaricò a caso, pallottola per pallottola su quei corpi nell'atto violento e incomprensibile dell'amore: i suoi spari erano dolci, producevano un rumore e poi un odore e poi un dolore sensuale. Il sangue iniziava a schizzare ovunque, sul tavolo imbadito, sul soffitto dorato, sugli affreschi primitivi che raffiguravano scene pastorali, sugli arazzi viola appesi alle pareti. Gli uomini riuniti nel salone principale continuavano a godere, sembravano indifferenti a quell'ondata soporifera di morte, lei imperterrita sparava, gettava una pistola dietro l'altra, dopo averle scaricate completamente, poi fu la volta dei mitra, saltavano nell'aria arti inutili, testicoli inutilizzabili, brandelli di vulve oscene, si staccavano teste che rotolavano vicine ai piedi ormai immobili. Venne il momento delle spade, le impugnava entrambe, facendole roteare a casaccio, colpiva ventri duri di donne incinte, schiene tese nell'orgasmo, scalpi più o meno stupidi e stupiti: il suo corpo bucherellato restituiva ad uno ad uno ogni ferita, ogni oscenità, ogni dolore, ogni voluttà. I pezzi di carne tagliati di netto dai ventri degli uomini cadevano e subito si ammosciavano, si stringevano, talvolta sparivano lasciando solo qualche chiazza di sangue, di sperma, di sudore. L'odore diveniva sempre più dolciastro, poi acido, poi amarognolo, era odore di sesso e di morte, di nascita e di violenza, era l'odore che per tutta la vita l'aveva contraddistinta e che ora faceva parte di quel regno, di quella città di uomini che morivano mentre mangiavano e scopavano e dormivano beati.

Quando la sua furia tranquilla era diventata forsennata tranquillità si era fermata e aveva ascoltato il suono che quei corpi mutilati, tumefatti, illividiti stavano producendo: era il suono delle campane del matrimonio, del vento tra gli alberi, del coro degli stadi, era il suono dell'amore, finalmente, dell'amore che trascina via con sé ogni cosa: la mente, i sogni, le budella, le stagioni, la vita. Era l'ora di lasciare il resto del lavoro alla dinamite, al tritolo, all'esplosione e poi al fuoco. Aveva stancamente sospirato lasciando cadere le sue spade, solo qualche secondo per riprendere fiato, per arieggiare la sua mente e permettere al suo povero dito indice di tracciare dei piccoli cerchi all'interno del buco acido che fumava dalla fatica sulla sua spalla. In quel momento aveva ricordato il groviglio di corpi che Gericault aveva stipato su una zattera e quell'immagine si confuse con l'enorme dipinto di Picasso: una dolcezza mai sentita l'aveva fatta tremare. Solo pochi secondi dopo stava zoppicando di corsa fuori dal palazzo infestato da urla di terrore e dal rumore delirante dei mille orgasmi che si andavano consumando là dentro, dietro le sue spalle. Dopodichè aveva sentito il tuono, aveva sentito il fumo levarsi, aveva sentito la luce discendere, aveva sentito il calore innalzarsi. Ma non aveva pensato nemmeno per un attimo di fermarsi per godere di quella scena, la sua immaginazione le era bastata, ora voleva solo correre zoppicando. E poi, dopo giorni di marcia, quel corpo macabro era arrivato lì, lasciando una scia scura sul selciato, un odore acre nell'aria che si era mano a mano rarefatta, rinfrescata. Il dolore non aveva mai smesso di aumentare, ma lei lo sentiva come parte di sè, se ne disinteressava, era arrivata adesso: solo le scale, solo il cielo.

Si disse che aveva riposato, che aveva ricordato abbastanza, e iniziò la sua salita, perdendo qua e là goccie di sperma, di sangue, di urina, di plasma. Il cervello e lo stomaco si ribaltavano all'interno del suo involucro rovinato. Ogni gradino le pareva un'intera spedizione su di una vetta himalayana, ogni gradino si sentiva svenire, sentiva il ventre scoppiare, sentiva il taglio del sesso allargarsi e strapparsi e rilasciare liquidi schifosi. Ma gradino per gradino, come in una lotta contro tutti i gradini del cosmo, salì, senza fermarsi, senza tornare a guardare la discesa, la città degli uomini all'orizzonte, che ancora zampillava sangue dolore e vergogna.

Non era più agosto, quando finì di percorrere quella salita. Non era agosto e non era caldo, ma non era nemmeno novembre, e non era nemmeno freddo, il suo corpo era diventato come pietra per lo sforzo, il buco della sua spalla si era allargato ma appiattito, ora una sostanza verdognola le rigava l'avambraccio. Era riuscita nella sua impresa, il cuore del tutto svuotato ancora palpitava, l'ultimo gradino, il più difficile, le era costato una rotula: le era schizzata via ed era corsa giù, se n'era ritornata indietro, verso la vergognosa città da cui giungeva.

Quando fu salda in cima a quella scalinata, quando si rese conto che era nel cielo, intorno aveva solo l'azzurro che non è azzurro ma che non è nessun colore, quando l'aria fu una cosa sola con la pelle tesa sopra le sue ossa rovinate, capì che tutto era finalmente finito, capì che tutto poteva tranquillamente ricominciare. Aprì meccanicamente lo sportello della scatola di ferro che si ritrovò di fronte, un po' di ruggine le ferì il povero indice, ma non perse sangue, solo un liquido trasparente che subito divenne giallognolo. Premette l'unico interruttore che stava là dentro e, di nuovo, nacque.

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